Prima puntata: Boyd Rice
Aprire la nostra rassegna sul folk apocalittico con Boyd Rice non vuol dire entrare dal portone principale: egli infatti non può essere di certo considerato come la figura più rappresentativa del genere, in quanto le sue sperimentazioni come musicista si sono mosse piuttosto in direzione industrial-noise. Ma è indubbio che il suo contributo alla "causa apocalittica" sia stato consistente, essendo stato un assiduo collaboratore dei maggiori esponenti del genere, ed in particolare di Douglas Pearce dei Death in June, a cui il Nostro rimane legato da una profonda amicizia, da un'incrollabile stima professionale e da forti affinità per quanto riguarda la visione del mondo.
Aprire la nostra rassegna sul folk apocalittico con Boyd Rice non vuol dire entrare dal portone principale: egli infatti non può essere di certo considerato come la figura più rappresentativa del genere, in quanto le sue sperimentazioni come musicista si sono mosse piuttosto in direzione industrial-noise. Ma è indubbio che il suo contributo alla "causa apocalittica" sia stato consistente, essendo stato un assiduo collaboratore dei maggiori esponenti del genere, ed in particolare di Douglas Pearce dei Death in June, a cui il Nostro rimane legato da una profonda amicizia, da un'incrollabile stima professionale e da forti affinità per quanto riguarda la visione del mondo.
"Music, Martinis and Misanthropy", uscito
sotto la dicitura Boyd Rice and Friends, rimane nondimeno un'opera
imprescindibile per chiunque voglia addentrarsi nel "lato oscuro"
del neo-folk.
Torniamo un attimo sul personaggio Boyd Rice. Classe 1956,
californiano di nascita, mentre egli si definisce una via di mezzo fra Adolf
Hitler e Bambi (si, il cerbiatto della Disney), Wikipedia,
più sobriamente, lo descrive come musicista, compositore, archivista,
saggista, fotografo e moviemaker. Fra le altre cose
è appassionato di arte contemporanea, di culture pagane, ama collezionare Barbie
(sì, la bambola), è seguace della Chiesa di Satana di Anton LaVey
(con cui ha stretto persino una amicizia negli anni ottanta) ed è un
sostenitore convinto del darwinismo sociale: un insieme di cose che lo
rende indubbiamente un personaggio assai controverso e non per tutti i palati.
Un cenno veloce su questi ultimi due aspetti. Secondo la Chiesa
di Satana, fondata da Anton LaVey a San Francisco nel 1966 (fra i suoi più celebri "iscritti"
troviamo Marylin Manson, King Diamond e Dave Vincent dei Morbid
Angel), ogni individuo rappresenta "il suo proprio dio" (e per questo ognuno è responsabile del proprio destino), mentre Satana non sarebbe un'entità/divinità da venerare, bensì l'immagine
dell'Io nella sua più completa realizzazione. Impossibile non riconoscere in
questa visione delle affinità con il "superomismo" nietzscheano,
che probabilmente è l'aspetto che più di ogni altro ha attratto Rice (il quale ha persino fondato un movimento tutto suo, l’"Abraxas Foundation",
basato sulle dottrine del gnosticismo). Per quanto riguarda il darwinismo
sociale, si tratta di terreno controverso ed aspramente dibattuto, in
quanto esso prevede l'estensione dei dettami dei principi di Charles Darwin
(quelli della selezione naturale e della lotta per l'esistenza)
applicati alle dinamiche sociali ed alla Storia. Rice non sembra conferire un
valore morale allo logica spietata del prevalere (in natura così come nella
dimensione sociale) del più forte sul più debole: egli semmai, in totale
opposizione delle tesi più progressiste, accetta questo ordine di cose e guarda
al sanguinario susseguirsi degli accadimenti storici con cinico distacco, come se
questo fosse un meccanismo neutro ed ineluttabile. Si sarà capito che al Nostro
non mancano certo franchezza e peli sulla lingua: una visione del mondo (la
sua) che è riassumibile con la celebre massima
"Christs
may come and christs may go, but Ceasar lives forever".
Era importante questo cappello introduttivo per meglio
capire l'arte di Rice, il quale, attivo come musicista d’avanguardia fin
dalla metà degli anni settanta, può essere definito come un pioniere
della manipolazione e del rumore radicale (tanto che esponenti illustri dell'harsh-noise più oltranzista come Masami Akita (in arte
Merzbow) lo vedono come un punto di riferimento imprescindibile per la
loro arte). La sua è una musica violentissima, fatta di suoni dissonanti
ripetuti in loop senza grandi concessioni all'orecchiabilità. Eloquente è il fatto che egli sia solito aprire le proprie performance dal
vivo sparando sul povero pubblico assordanti sirene anti-raid, come a
dire: che il bombardamento abbia inizio! E non è sbagliato vedere le sue
sinfonie cacofoniche come una trasposizione in musica della brutalità della
guerra, o, in senso più metafisico, di quella spietata lotta per l'esistenza
che è professata proprio dal darwinismo sociale. Questo è quello che è stato
fatto sotto la ragione sociale NON (suo progetto principale) in album
come (l'oramai storico) "Black Album" (1976), "Blood
and Flame" (1987), "Might!" (1995), "God and
Beast" (1997), come a ribadire, con questo ultimo titolo, la natura
immorale e spietata dell'uomo, per metà bestia e per metà dio.
Come si è visto in apertura, tuttavia, nel corso della sua
lunga carriera Rice ha a tratti svestito gli abiti del terrorista sonoro,
per farsi "cantautore apocalittico" assieme a rinomati
esponenti del neo-folk. E proprio nel fondamentale Douglas Pearce,
padre spirituale del movimento, egli troverà un valido collaboratore. Nei
lavori con il leader dei Death in June, le appassionate
narrazioni di Rice (che dietro al microfono si tramuta in una sorta di reader
morrisoniano dell'apocalisse) si accompagnano perfettamente ai fraseggi
acustici di Pearce ed agli umori marziali tipici del genere. Fra gli episodi
più significativi di questo sodalizio artistico citiamo "Heaven Sent"
degli Scorpion Wind (1996), “Wolf Pact” sotto la dicitura Boyd
Rice and Fiends (2002) ed "Alarm Agents, uscito con l'etichetta
Death in June & Boyd Rice (2004), tutti "illuminati" dalla
"poetica della Fine" di Pearce, prestata per l'occasione alle visioni
ed al pensiero di Rice. Ma il capostipite di questa saga è proprio quel "Music,
Martinis and Misanthropy" di cui ci stiamo accingendo a parlare.
Correva l'anno 1990 e il progetto vedeva al suo
centro, oltre che Rice (voce e manipolazioni elettroniche) e Douglas Pearce
(chitarra), anche Michael Moynihan dei Blood Axis alle
percussioni. A fare da contorno a questo strano triunvirato, troviamo il piano
e lo zither di Robert Ferbrache (l'allora altra metà dei Blood
Axis), le vocalità eteree di Rose McDowall (musa dei Current 93,
ma presente un po' dappertutto nelle produzioni del periodo) e niente meno che
il basso di Tony Wakeford (che da poco aveva avviato i suoi Sol
Invictus): insomma, metà scena del folk apocalittico dell'epoca. Per
questo l'opera si può iscrivere tranquillamente fra le più importanti del
genere.
Il risultato, nientemeno, è il frutto dell'incontro di tutte
queste personalità, con l'ovvia preponderanza della figura di Boyd Rice,
"primo firmatario" del progetto. Quindi troveremo, in un onirico
sfumare, l'avvicendarsi di sonorità folk à la Death in June e nebulosi
scenari di matrice industrial mutuati dagli universi sonori di NON e Blood
Axis. Una carrellata di suggestive immagini catturate in un tragico slow-motion,
intervallate da interludi ambientali ("Nightwatch", "An
Eye for an Eye", "Shadows of the Night", per esempio)
in cui a prevalere è un minimalismo che potremmo definire quasi confortevole.
In mezzo a questi suoni evocativi (gorgheggi di cori riemersi dalle
piaghe dimenticate della storia, orchestre che sembrano comporsi di strumenti
non perfettamente accordati, il tintinnio riverberato di un tasto di
pianoforte, il lento battito delle percussioni militari ecc.), si erge
evocativa la voce calda ed avvolgente di Rice, che si fa intimo
confidente, nonché crooner di indubbio fascino.
Se l'apertura ("Invocation") è affidata
all'enfasi di voci rallentate che si accavallano in un suggestivo requiem
(è l'inizio del transfert: un viaggio visionario che intende
scavare a fondo nell'intento di riportare alla luce quel "rimosso"
che società e cultura occidentali hanno provato faticosamente ad eliminare
dalla coscienza collettiva), con il brano successivo possiamo confrontarci con
il nocciolo estremo (da un punto di vista lirico) del platter: quella
"People" il cui testo ha suscitato del clamore. Essa è un feroce inno alla misantropia travestito da "dolce ninnananna"
acustica, in cui nella prima parte vengono elencate varie tipologie di persone giudicate
nocive per la società (persone che mentono, persone che parlano di cose che non
sanno, persone che dicono certe cose e ne fanno altre ecc.): un testo pungente
esaltato dalle doti interpretative di Rice. Cosa vorrebbe dunque fare egli
per liberarsi di tutte queste persone? Riunirle nel Circo Massimo,
tutte insieme, e poi...massacrarle, annientarle come facevano gli antichi
Romani con i cristiani, gettati in pasto alle belve. "Ci vorrebbe un
mietitore, un brutale mietitore...." ed ecco che il Nostro inizia ad
invocare una serie di personaggi che potrebbero dare una mano a fare un po’ di “pulizia” in tutto questo "ciarpame umano":
Vlad l'Impalatore, Genghis Kahn, Ayatollah Khomeini, Adolf
Hitler, Benito Mussolini, Nerone, Diocleziano, Horatio
Herbert Kitchener. Una provocazione bella e buona indirizzata proprio a
quelle persone a cui è dedicato il brano.
La vocazione revisionista è innegabile, palpabile in tutti i
quattordici brani, che siano essi ballate sornione o rarefatti intermezzi
ambientali. In entrambi casi, non ci si scompone mai, venendo semmai a
prevalere una sicurezza interiore che rende Rice sereno e distaccato anche
nell'enunciare le atrocità più inimmaginabili. È questa disinvoltura,
probabilmente, l'asso nella manica che ha permesso al Nostro di sopravvivere
alle polemiche ed essere rispettato come musicista. Le ballate "Disney
Land Can Wait" (già, ci scordavamo di dire che un altro mito di Rice è
Walt Disney, le cui posizioni destroidi non sono certo un segreto) e
"I'Rather Be Your Enemy" (Death in June fino al midollo) sono persino
orecchiabili, mentre in episodi come "History Lesson"
(manifesto del Rice-pensiero, nella quale il Nostro rilegge la Storia
come una impietosa sequela di delitti, stragi, guerre e genocidi) ad emergere è
il lato più teso e marziale del progetto.
Boyd Rice, benché porti avanti la sua battaglia con passione,
è forse solamente un arrogante sbruffone che odia l’umanità. E probabilmente
l'ascoltatore non sempre si troverà d'accordo con le sue tesi (che vanno
comunque sapute leggere ed epurate dagli intenti meramente provocatori). Rimane
tuttavia indubbio che egli sia uno che prende il toro per le corna, che afferra
senza timore, a mani nude, il nucleo rovente della natura umana, spesso
sottaciuto o volutamente ignorato, in ogni caso oscurato, dagli incrollabili
tabù della cultura dominante della nostra società. Ascoltare la sua musica
significa spogliarsi delle incrollabili certezze che confortano il nostro
(quieto) vivere, per tuffarsi senza remore e pregiudizi in un mondo estremo in
cui l'uomo, privato della sua razionalità, torna ad incarnare la sua natura
ambivalente di dio e bestia insieme.
Discografia essenziale:
NON: “Black Album” (1976)
Boyd
Rice/Frank Tovey:
“Easy Listening for the Hard of Hearing” (1984)
NON: “Blood & Flame” (1987)
Boyd
Rice and Friends:
“Music, Martinis and Misanthropy” (1990)
NON: “Might!” (1995)
Scorpion
Wind: “Heaven Sent”
(1996)
NON: “God & Beast” (1997)
Boyd
Rice and Fiends:
“Wolf Pact” (2002)
NON: “Children of the Black Sun” (2002)
Death in
June & Boyd Rice:
“Alarm Agents” (2004)