Terza puntata: Death in June
Nell'anteprima della nostra rassegna abbiamo evidenziato la
centralità dei Death in June riguardo alla nascita ed alla definizione
stilistica del folk apocalittico. Correva l'anno 1987 ed essi
rilasciavano il leggendario "Brown Book", niente meno che
l'opera che poi sarebbe divenuta il manifesto dell'intero genere. Ma Douglas
Pearce, oramai solo alla guida del progetto, non si sarebbe limitato a
gettare le basi, le fondamenta su cui l'intero edificio avrebbe poggiato: egli nondimeno
avrebbe contribuito a sviluppare il genere, perfezionandolo ulteriormente,
aggiungendo nuovi elementi con una serie di album memorabili, fra cui spicca
quello che va ad incarnare, in una perfezione idealtipica, l'essenza
stessa dell'intero movimento.
Parliamo oggi di "But, What Ends When the Symbols Shatter?", anno 1992.
Parliamo oggi di "But, What Ends When the Symbols Shatter?", anno 1992.
Per cogliere la complessità dell'opera, è necessario
tuttavia fare un passo indietro: nel 1989 usciva in vinile (in formato cd
l'anno successivo) un altro significativo lavoro dei Death in June, "The
Wall of Sacrifice": un'opera controversa che tutt'oggi costituisce uno
dei passaggi più ostici dell'epopea artistica di Pearce. Esso è una creatura
abnorme, frutto perverso di una materia emotiva incandescente e difficilmente
gestibile: energie irruenti e cozzanti che andavano a comporre un puzzle
in cui tutte le tessere non sembravano combaciare. Un saggio
sull'incomunicabilità, infine, che estremizzava quelle che erano state le
componenti fondanti del Death in June sound fino a quel momento.
Da un lato le mostruose suite industriali. La title-track,
sedici minuti di voci farneticanti e rumori molesti caricati e ripetuti in loop,
era un incubo sonoro che sembrava mimare l'inquieto ribollire dell'inconscio:
un quarto d'ora difficile da buttare giù, tanto più che era posto in apertura,
come a voler scoraggiare l'incauto ascoltatore. Ma nemmeno i nove minuti di
"The Death is a Drummer" (posta in chiusura) scherzavano:
ambient marziale che ribolliva di presagi oscuri, fra fanfare e tamburi
militari. Due tracce, questa e la title-track, che costituivano un
"muro impenetrabile" chiamato ad isolare (e forse proteggere) la
psiche in frantumi di Pearce, che all'epoca viveva una grave crisi depressiva.
Una cruda intimità che emergeva dimessa in ballate folk come
"Giddy Giddy Carousel" (quasi una filastrocca, beffarda con il
suo ritornello orecchiabile doppiato dalla voce da "fatina" di Rose
McDowall), "Fall Apart" (letteralmente: "cadere a
pezzi", nei suoi due minuti e ventisei secondi, probabilmente il momento
più intenso dell'intera epopea pearciana) e "In Sacrilege"
(doloroso saggio di un inconfortabile mal di vivere, che vedeva dietro al
microfono il collega David Tibet dei Current 93). Un'opera
difficile, impenetrabile, che in questi forti contrasti esplicitava le fratture
e le lacerazioni di un Pearce sprofondato in un baratro psichico apparentemente
senza ritorno.
Ad un passo dallo scioglimento dei Death in June e dal
suicidio, Pearce fu tuttavia in grado, per sua e nostra fortuna, di imboccare
la via maestra per la rinascita spirituale ed artistica attraverso un
percorso di rigenerazione/purificazione personale consumato fra Europa
ed Australia (che in seguito sarebbe divenuta la sua base operativa da
esule).
Frutto del girovagare per tre anni fra Londra, Parigi, Roma,
Sidney ed Adelaide, "But, What Ends When the Symbols Shatter?"
rispecchiava lo status di apolide del suo autore, che oramai guardava il mondo
in maniera distaccata, quasi ci parlasse da un'altra dimensione, da un'epoca
futura dalla quale si riversano meste profezie sulla fine del mondo. I Death in
June continuavano ad essere l'espressione del travaglio spirituale del suo leader,
che tuttavia mostrava un atteggiamento diverso: diverso da sé medesimo e diverso
dal resto della scena "oscura", che spesso fatica ad emanciparsi da
tematiche strettamente adolescenziali. Si riaffacciava sul mercato discografico
con un album “strano”, ambiguo, mite all'apparenza, turbolento dietro la
maschera di beffardo disincanto, celando esso una complessità priva di quelle
fratture che avevano squarciato in tempo l'arte della Morte in Giugno:
era l'opera della maturità e di fatto veniva avviata una nuova e
sorprendente stagione artistica (sorta di seconda vita) che del passato ereditava
le ossessioni, filtrandole attraverso una nuova consapevolezza e
l'autorevolezza di un nuovo e più stabile equilibrio.
Lo sguardo di Pearce, tuttavia, per quanto rivestito di una
impenetrabile corazza di ferma e sicura rassegnazione (una rassegnazione che si
tingeva talvolta di sarcasmo e cinismo), rimaneva impregnato di un
insopportabile senso di perdita che lo rendeva al tempo stesso sofferto
e, in qualche maniera, ancora fortemente malinconico.
Sono i cocci, i frammenti di un mondo in piena decadenza che
vengono ritratti nella loro lenta ed inesorabile caduta. Recita la title-track:
"Quando la vita non è altro che delusione,
E il "nulla" è divertente,
Quella caccia selvaggia per la solitudine
E' una vita senza Dio,
E' una fine senza amore,
Senz'anima oggi
E senz'anima domani,
Lottiamo per la gioia,
Oh lottiamo per la gioia,
Di cui la vita è ossessionata,
I suoi ricordi,
La sua insensatezza,
Desiderare di essere raccolti, frantumati e salvati,
Un pensiero per la vita,
Un pensiero per la notte,
Ma, cosa succede quando i simboli vanno in frantumi?
E chissà cosa succede ai cuori?"
Parole, sentenze e quesiti devastanti lanciati in chiusura
di un'opera che investiga, si interroga su quali potrebbero essere le
possibilità di felicità in un mondo che si avvia verso il vuoto, verso l'aridità
e la mancanza di valori. Un viaggio che ha come esito la solitudine estrema di
chi detiene verità annichilenti, condotto portando avanti con coerenza e ferrea
determinazione la propria intransigenza nella ricerca di una purezza perduta;
un viaggio che era partito con un brano che si intitolava "Death is the
Martyr of Beauty" ("La Morte è la Martire della Bellezza",
con un testo che si schiudeva con versi di questo tenore: "Ubriaco del
nettare della sottomissione, non sento più nulla/ più che l'esistenza, sento
una solitudine da cui non si può evadere/ nel narcisismo del nostro
nascondiglio siamo perduti/ Più vasto della notte è il mio orgoglio, la mia
minaccia, la mia determinazione/ questo è oltre ogni cosa, ciò che mi è più
caro, tutto questo è oltre/ è questo l'esorcismo finale? Di un'ossessione
nell'ossessione?"), andando a ribadire quel Culto della Morte
che è da sempre presente nella visione artistica dei Death in June (l'estetica
della morte, la morte visto come gesto nobile se la vita deve essere una
bruttura senza speranza - ricordiamo che una figura centrale nella poetica pearciana
è proprio Yukio Mishima, che il 25 novembre 1970 si toglieva la vita
tramite seppuku, il suicidio rituale dei Samurai, come segno di protesta
contro il processo di occidentalizzazione del Giappone, tradito nella
tradizione e nello spirito).
Concetto ribadito dal fatto che quattro brani su dodici
si ispirano a cori del Tempio del Popolo, setta religiosa con
connotazioni socialiste che conobbe nel 18 novembre del 1978 il tragico epilogo
di un suicidio-omicidio collettivo (la morte di 918 adepti, fra cui 219
bambini). Caratteristica dei Death in June della maturità sarà infatti il forte
contrasto fra testi sempre più estremi (si veda l'irriverente blasfemia di
"He's Disabled", riferito a Dio...) e i toni sempre più pacati
della veste musicale.
Lasciatesi alle spalle le asperità industriali del passato,
l'arte della Morte in Giugno preferirà modellarsi intorno allo standard
della ballata folk, guardando principalmente alla tradizione inglese
e a "cantautori apocalittici" quali Leonard Cohen e Scott
Walker. Se già di per sé l'approccio di Pearce era volto all'essenziale,
con questo lavoro, che si compone di sole ballate, diviene, nella forma, ancora
più semplice e minimale. Una chitarra acustica ed un autorevole e fermo canto
tenorile compongono l'ossatura delle nuove creazioni della Morte in Giugno.
I suoni questa volta sono puliti e cristallini, come se il percorso di
purificazione avesse coinvolto anche la mano dietro il mixer. Avvolgenti
accordi di tastiera conferiscono ulteriore profondità al sound, a sua
volta arricchito dai ricami delle percussioni a mano, da qualche spunto
elettronico, da qualche lieve contaminazione rumoristica (eredità del passato
industriale), dagli sporadici volteggi di una tromba sorniona, dall’ipnotico suono
dello xilofono.
In due episodi giunge in soccorso l'irrequieto recitato
dell'amico David Tibet dei Current 93: nella superba "Daedalus
Rising", Current 93 allo stato puro, e in " This is not
Paradise", impreziosita da versi in francese e da soffuse atmosfere
oniriche. Ma tutta l'opera è come sospesa fra sogno e realtà, in un clima
irrisolto ed irreale in cui la compostezza, la calma di Pearce entra in
contrasto con “scenografie” confuse, immateriali, rarefatte, come nelle
splendide "Because of Him" e "The Golden Wedding of
Sorrow", o scenari avviluppati in sognanti tastiere come accade in
"The Giddy Edge of Light".
Questi e i restanti brani, sebbene marchiati dalla monolitica
ed uniforme voce di Pearce e "cucinati" con gli stessi ingredienti,
si differenziano l'uno dall'altro in un complesso gioco di sfumature e
divengono, ciascuno nel suo piccolo, memorabili. "The Mourner’s Bench",
che ribadisce il tema della impotente contemplazione, viene corredata di cori
oscuri e svolazzi di tromba; "Little Black Angel" è un vivace
ed incalzante brano folk destinato a divenire un classico tutt'oggi riproposto
immancabilmente dal vivo; la beffarda "Ku Ku Ku", gioiellino
di nemmeno due minuti, si fregia di un bel giro di xilofono e dei sussurri spettrali
di Tibet.
I Death in June, prima di una inesorabile decadenza
artistica che investirà gli ultimi tre lustri della loro carriera, avrebbero saputo
mettere a segno ancora diversi colpi vincenti. Con il successivo "Rose
Clouds of Holocaust" (1995) la formula rimarrà inalterata (a
proposito, se volete capire cos'è il folk apocalittico in tre minuti andatevi
ad ascoltare la title-track), mentre con l'accoppiata di lavori
composti a quattro mani con Albin Julius dei Der Blutharsch,
ossia "Take Care and Control" (1998) e l'Ep "Operation:
Hummingbird" (2000), la Morte in Giugno abbandonerà nuovamente
la veste folk per virare verso un magniloquente industrial marziale di
pregevole fattura.
Ma è nei quarantasei minuti di "But, What Ends
When the Symbols Shatter?" che Douglas Pearce riscrisse il folk
apocalittico, dando alla luce un'opera epocale che sarebbe stata presto
emulata da molti ed elevata a modello universale per l'intero genere.
Discografia
essenziale:
“The Guilty
Have No Pride” (1983)
“Burial”
(1984)
“Nada!”
(1985)
“The World
That Summer” (1986)
“Brown
Book” (1987)
“The Wall
of Sacrifice” (1989)
“But, What
Ends When the Symbols Shatter?” (1992)
“Rose
Clouds of Holocaust” (1995)
“Take Care
and Control” (1998)
“Operation:
Hummingbird” (2000)