Il
metal vede le sue origini nell'hard rock e nel rock progressivo.
Grazie al punk si tramuterà in thrash, e da quel momento, abbastanza
grande da potersi sostenere sulle proprie gambe, proseguirà un cammino tutto
suo in cui, per molto tempo, saprà rigenerarsi e rinnovarsi guardando più che
altro a se stesso.
Questo
non vuol dire che il metal si sia chiuso a riccio proibendosi ogni contatto con
l'esterno, anzi, proprio nella nostra rassegna sugli album non-metal
fatti da band ed artisti metal, abbiamo potuto vedere come (in particolare sul
finire degli anni novanta) il metal abbia saputo flirtare con altri generi,
dalla psichedelia alla dark-wave ottantiana, dal trip-hop
di Bristol ad addirittura il synth-pop.
Pink
Floyd, Cure, Sisters of Mercy, Massive Attack, Depeche
Mode sono stati sicuramente i nomi più ricorrenti fra le influenze mutuate
da altri universi musicali. A questa lista, guardando principalmente all’ultimo
decennio (che ha coinciso con l'esplosione ed espansione del neo-progressive),
aggiungerei i Muse.
In
molti storceranno il naso innanzi a questa affermazione, avendo principalmente
in mente singoli ruffiani come "Muscle Museum", "Time
is Running Out" e "Starlight", brani d'impatto,
orecchiabili, che hanno lanciato la band inglese in testa alle chart di
tutto il mondo. In realtà la band di Matthew Bellamy ha assolto un ruolo
ben più importante nella storia recente del rock e, senza esagerazioni,
potremmo definirla una delle band più importanti del "rock pop-olare"
(quello di massa, intendo, da stadio, che piace a tutti, belli e brutti)
degli ultimi quindici anni.
Quando
nel 1999 i Muse debuttarono con "Showbiz" era chiaro a tutti
che il riferimento primo per i Nostri fossero i connazionali Radiohead,
che due anni prima avevano cambiato il mondo del rock con un album epocale come
"Ok Computer". Le nevrosi di Bellamy, di fatto, assomigliavano
molto a quelle di Thom Yorke, la cui voce incarnava il senso di
incertezza e inadeguatezza percepito da molti adolescenti dell'epoca,
ingabbiati in una società disorientante ed iper-complessa che professava
benessere, ma seminava disperazione nelle sue dinamiche di
omologazione/competizione di fine millennio. Anche il falsetto esasperato di
Bellamy richiamava quello di Yorke, e una canzone come "Karma Police"
ha senza ombra di dubbio costituito un punto di partenza per la nascente
proiezione artistica dei Muse.
A
nostro parere, però, non c'era proprio partita, data la superiorità su tutti i
fronti dei Radiohead. Nonostante questa nostra valutazione (peraltro condivisa
un po’ da tutti) i Muse, aiutati certamente dagli sforzi di una prodiga e
generosa casa discografica che in essi vedeva la next big thing del
pop/rock, ebbero fin da subito un grande successo.
I
fatti presero poi una piega inaspettata: i Radiohead, di lì a poco, avrebbero
spiazzato tutti ancora una volta, cambiando radicalmente stile, uscendo
addirittura dal rock per virare verso i lidi sperimentali della geniale accoppiata
"Kid A" (2000) ed "Ammesiac" (2001), di fatto
tracciando un solco che avrebbe caratterizzato la musica colta degli anni zero.
E i
Muse? Stracciati (artisticamente) senza possibilità di appello dai loro
maestri, decisero di prendere la loro strada, forti del loro nome che era già ampiamente
consolidato. Non solo: con l'allontanamento volontario della scena dei rivali
Radiohead (che decisero di abbandonare anche la TV, optando per la rete), i
Nostri trovarono nuovi e più ampi spazi in cui muoversi ed esprimere la propria
personalità. In particolare il leader Bellamy, motore primo della
"macchina Muse", si sarebbe rivelato un autore completo ed ambizioso,
dimostrando che i Muse non erano l'ennesima truffa del rock (chi ha detto Coldplay?):
egli di fatto seppe tirare fuori il “leone” che risiedeva sopito dentro di lui,
imponendosi come cantante portentoso, chitarrista poliedrico, poli-strumentista
capace di destreggiarsi sia al piano che alle tastiere e, come vedremo, con
delle manie di grandezza da assecondare.
Con
queste premesse i Muse di riaffacciarono sul mercato discografico nel 2001 con
il già ben più maturo "The Origin of Symmetry": con
quell'album i nostri si lasciarono alle spalle molte delle ingenuità dell'album
precedente, comprese le reminiscenze radioheadsiane, e si diressero
verso altri orizzonti. Fra le altre cose, si stava iniziando a far largo
un'altra fondamentale influenza: i Queen. Esatto, avete capito bene:
proprio mentre Yorke e soci si spostavano verso un minimalismo senza ritorno, i
Nostri decisero di andare nella direzione opposta, ossia verso un rock
energico, istrionico, proprio come era stato professato in passato dalla Regina.
Il
passaggio non è da poco, considerato il background culturale del
periodo: dopo le pacchianate sintetiche degli anni ottanta e le crudezze del
grunge nei novanta, il rock si affacciava al nuovo millennio in un “salotto” in
cui il minimalismo era cosa buona, il cantautorato (voce/chitarra) ancora
meglio, l'elettronica o suonare con dei giocattoli il non plus ultra.
"Schitarrare", alzare la voce, prediligere arrangiamenti pomposi era
invece da cafoni. I Muse, a livello di mainstream, seppero iniettare
nuova energia nel rock, reinserire, senza reticenze e con faccia tosta, trovate
plateali e suoni maestosi.
I
Muse non sono mai stati dei virtuosi nel vero senso del termine, ma sono dei
musicisti di sostanza: gente che ti passa dal lento all'adagio, dal grintoso al
melenso senza troppi problemi, gente che unisce partiture classiche di
pianoforte a granitici riff di chitarra hard-rock, pezzi catchy
ed orecchiabili a vere e proprie suite, il tutto condito dal canto sopra
le righe di Bellamy, a metà fra il lamento yorkesiano ed una potenza
canora che può ricordare Freddy Mercury. Una formula che si è andata a
gonfiare album dopo album, dal successivo "Absolution" del
2003 fino al tronfio "Black Holes and Revelations" del 2006,
che introduceva un approccio sperimentale (con abbondanti inserti di
elettronica) e si concludeva con la mini-suite "Knights of
Cydonia", che rappresenta, fra epiche cavalcate e cori polifonici,
l'apoteosi del sound arrogante dei Muse odierni. Una ricetta che sa
essere sofisticata, ma anche banale, continuamente dissestata da una
schizofrenia data dalla continua lotta fra libera espressione ed esigenze
dettate dalla casa discografica. Un braccio di ferro, questo, che minerà la
qualità della produzione discografica dei Nostri, i quali non verranno mai
accettati fino in fondo dai "salotti bene" della musica, sia per
questa loro indulgenza verso sonorità di facile presa, ma anche e soprattutto
per la volontà di scivolare sistematicamente nel pacchiano.
Di
questi salotti bene, non fa certo parte il metal, che, per quanto
“ce l'abbia lungo e duro”, le sonorità sfarzose e barocche non le ha mai
disdegnate (altrimenti non si capirebbe l'esistenza di Malmsteen, certi album
dei tardi Manowar e tutto il power metal, sinfonico o meno che
sia). Per questo, pur sdegnando i Muse in quanto "entità impura e
commerciale", sotto sotto il metal si è fatto da loro sedurre, tanto che,
di colpo, ci trovammo innanzi a brani come "Never Enough" e
"Prophets of War" dei Dream Theater (la prima da "Octavarium",
la seconda da "Systematic Chaos": siamo quindi,
rispettivamente, nel 2005 e nel 2007). In entrambi i casi gli americani, pur
non rinunciando al loro approccio iper-tecnico, si gettarono in brani ariosi,
sfacciatamente orecchiabili, con l'elettronica a dare un aiuto consistente,
proprio come succedeva in certi episodi di "The Origin of Symmetry" e
"Black Holes and Revelations". Probabilmente anche qui c'era lo zampino
della casa discografica, che ha sempre il dovere di spingere verso soluzioni
più commerciali, a volte snaturando i propositi dell'artista di turno. Ma è
anche vero che i Dream Theater nel “mare vasto delle loro influenze” hanno
sempre contemplato sonorità pop. Fra queste influenze hanno sempre trovato
posto gli stessi Queen, padri putativi dei Muse della maturità: non mi stupisco
dunque di trovarci i Muse stessi.
È
logico poi che i Dream Theater, idolatrati o avversati che siano, costituiscono
una voce autorevole nel metal. Per questo, tuffandoci nel neo-progressive (mi
vengono in mente, fra i tanti, i Leprous di cui abbiamo parlato di
recente) ci si può imbattere in paesaggi che suonano molto, ma molto Muse: uno
stile che si sposa bene con il prog soprattutto laddove vengono macinate
ritmiche intricate e poi si sente il bisogno di una bella apertura melodica,
magari con un coinvolgente giro di piano/tastiera, un filo di elettronica,
ritmo incalzante ed una voce potente che si eleva in modo plateale.
Il
fatto è che mai nessuno nel metal griderà "mi piacciono i Muse!",
perché per il metallaro non sono essi un riferimento di cui andare fieri. Si
pensi invece a come è sempre piaciuto agli artisti metal riempirsi la bocca
citando Pink Floyd e Depeche Mode. O come degli stessi Queen si sia fatto un
uso talmente intelligente da poterli integrare persino in un genere
“integralista” come il power metal. Gli autorevoli Blind Guardian,
artefici primi dello sdoganamento della band inglese nel metal, seppero infatti
cogliere il lato più epico e magniloquente di Mercury, May & soci
(vedi "Bohémien Rhapsody”), citandoli persino nel titolo di un loro
album ("A Night at the Opera") e facendo dimenticare al popolo
metallico, almeno per un momento, hit trucemente pop come "I
Want to Break Free" e "A Kind of Magic" (per
non citare altri episodi minori che
fanno letteralmente rabbrividire…).
Non
si può dire la stessa per i Muse, che pagano ancora oggi lo scotto di essere
visti come dei “truzzi che suonano musica per fighetti". Per questo motivo,
almeno per adesso, solo il progressive si può permettere di avvicinarsi a loro
senza troppa vergogna: un po' per apertura mentale, un po' perché è il solo
genere che può camuffare tracce così "compromettenti" in un fluire di
mille altre cose. Chi può infatti criticarti per un passaggio a là Muse
se subito dopo fai seguire una progressione incalzante in stile Tool o
addirittura una sfuriata djent? Se sai suonare e fai una musica non
fatta solo per vendere?
Siano
i Muse inseriti con il contagocce in suite infinite, oppure
sfacciatamente citati come visto nei due esempi dei Dream Theater, è indubbio
che anch’essi, vi piaccia o meno l’idea, facciano oramai parte della “grande
famiglia delle influenze” del metal. Ad ogni epoca, dunque, i suoi eroi: chi
saranno i prossimi?