Lo abbiamo trattato più volte, Ihsahn; ne
abbiamo decantato le gesta. Lo abbiamo addirittura definito, con una frase tra
il serio e il faceto, come uno dei pochi artisti metal contemporanei che ha a
cuore il futuro della nostra musica preferita.
E’ uscito da pochi mesi la sua
ultima fatica. Come, date queste premesse, non parlarne?
A cura di Morningrise
Mi prendo questa responsabilità.
E ammetto che non è facile scriverne, dopo che già l’album è stato sviscerato
in rete da tutti i siti specializzati. I commenti, pur nelle lievi differenze,
sono unanimi nell’osannare anche “Arktis.”, con voti sempre molto alti,
dall’”8,5” in su.
Sto ascoltando il disco da
diverse settimane e sono dubbioso, indeciso. Non dico deluso ma neppure soddisfatto
appieno. Mi chiedo se, con ogni probabilità, ero abituato “troppo bene”.
Come primo impatto quello che mi
è venuto superficialmente da pensare è che, dopo le divagazioni sperimentali e
avanguardistiche dell’ottimo “Das
Seelenbrechen”, il Nostro abbia voluto un attimino chetarsi, smettere di girovagare
come un astronauta senza meta nella Galassia della sperimentazione sonora, per
tirare il fiato; guardarsi un attimo indietro e raccogliere, sistematizzandole,
tutte le “cose” fatte sinora.
Il primo risultato di ciò sembra essere
il riappropriarsi del formato canzone. Cosa che salta subito alle orecchie con
l’uno-due iniziale: “Disassembled” è un’ottima opener, di impatto, che richiama
le grandi opening songs degli album precedenti. C’è l’alternanza di grow and
clean, di parti tirate (con un rifferrama potente ed estremo), e rallentamenti
leggiadri guidati dalle tastiere. Tutto funziona, funziona bene. Ma…boh, è un
pezzo forse troppo “classico” per lui.
Però mi dico dai, cominciamo
bene. Non un capolavoro ma ce ne fossero di incipit così…
Ma poi: “Mass darkness”,
solo-riff iniziale ultramelodico, carino si, ma quanto “già sentito”?! Hmmm…i
dubbi crescono, visto che il resto della song non convince mai appieno, tra un
chorus da power tedesco e un bridge che ricorda fortemente i Children of Bodom (sic)!
Carina, ma nulla più.
Che però un album di Ihsahn non
possa per statuto essere banale lo vediamo già con “My heart is in the North”,
un ottimo mid-tempo metallico che presenta quello che per chi scrive è il
momento top del disco: lo stacco al minuto 2 e 50”, dove il nostro interrompe
il mood nordico e potente della canzone con delle leggiadre note di piano e un
cantato soave, dolce e toccante.
Sembra quasi un avvertimento buttato lì, e confermato
già dalla successiva “South winds” nella quale ritroviamo l’Ihsahn estremo
sperimentatore che avevamo tanto apprezzato nei due dischi precedenti. Un beat
elettronico, sintetico, fa da sottofondo al rantolio della voce, doppiata e
filtrata, di una malignità inaudita, con un accumulo di tensione che sfocia poi
nel chorus, con clean vocals e partitura ariosa. Ottimo pezzo, stavolta sì, ma
anche qui…qualcosa sembra mancare, lo scatto di reni, quella linea melodica che
ti sorprende, che ti fa rimanere a bocca aperta. Insomma, il motivo per cui lo
abbiamo amato fino ad oggi.
E’ un inizio, comunque. Forse la
svolta del disco che stavamo agognando e che temevamo non arrivare. Ma
purtroppo, già con la successiva “In the vaults” torniamo a una buona
mediocrità (scusate l’ossimoro) che non è quello che ci si aspetta. Perché sappiamo
che ci si può aspettare molto, ma molto meglio. L’inizio poi di “Until I too
dissolve” sembra quello di un album qualsiasi di power metal, manco l’avessero
scritto i Primal Fear (detto con tutto rispetto, per carità) e il prosieguo del
pezzo non risolleva l’impressione iniziale. Anche il giochetto strofa in growl
/ chorus in clean sembra trasmesso col pilota automatico, senza cuore e,
quindi, senza convinzione.
Giunti alla settima traccia (la
carina-ma-nulla-più “Pressure”), signori, devo dire che sono davvero intristito. Tutto bello, ben composto, ben suonato. Ma anche a tratti noiosetto. Un
aggettivo che mai avevo accostato alla musica di Ihsahn.
Però vado avanti: è la volta di
“Frail”, che risolleva le sorti del platter grazie a una scrittura finalmente ispirata e
con ottime soluzioni, anche elettroniche, che vanno a pescare dal serbatoio di
sperimentazioni provate nel passato. Ne sono felice ma stavolta, a differenza di
quanto provato con “South winds”, non mi illudo…ma poi, invece…senti
senti…siamo quasi alla fine e cosa entra in gioco…siiii, quel suono magico del
sax di Jorgen Munkeby!! Aaahh, quanto godo!! Eccolo dov’era, dove si era
nascosto!! Non poteva mancare dai! Ora si che ti riconosco, mio amato Ihsahn!
Non potevi aver cancellato un intero lustro di sperimentazioni! “Crooked red
line” non è ancora una top-song, per quanto molto-ma-molto-bella, ma ci
riavvicina ad “Arktis.”, ce lo fa voler bene!
Aspettando, questa volta sì non
traditi, la riconciliazione definitiva che arriva con l’ultima splendida
“Celestial violence” in cui il Sig. Tveitan torna a sprigionare la sua Arte in
tutta la sua magniloquenza, mettendoci dentro inventiva, tecnica, qualità nel
songwriting e, soprattutto, un gran cuore (coadiuvato alla voce dall’ottimo
Einar Solberg, singer dei Leprous). Cinque minuti a livelli massimi che ci
appagano nel profondo!
E allora, dopo questa top-song,
capisco. E mi domando: è giusto pretendere che ad ogni uscita Ihsahn debba
indicare una Nuova Via per il Metal? Debba spiazzare con composizioni
avanguardistiche, sempre più sfuggenti e arzigogolate? E’ giusto pretendere
sempre maggior genialità a un artista che ne ha dimostrata già così tanta,
allietando le nostre orecchie da un decennio a questa parte? No, credo proprio
di no…e arrivo a una conclusione: è come se Ihsahn, dopo essersi superato
continuamente, dopo aver fatto sempre album meravigliosi diversi l’uno
dall’altro, sperimentando e mischiando generi e sottogeneri, sia arrivato ad un
limite, “Das Seelenbrechen” appunto. E si sia detto: aspetta un attimo. Caspita
dove sono arrivato! Quasi non mi oriento più…sai che faccio? Torno un attimo
indietro e mi riposo. Mi metto comodo negli ambienti a me più famigliari. Li
riassumo, li reintroietto. E cerco di sistematizzarli. Così, per mia
tranquillità, per fare un bilancio di questi 40 anni di vita, più della metà
passati a suonare.
E lo voglio mettere in chiaro:
tutto questo ci sta, è naturale e legittimo. Non per forza di cose bisogna continuare a
navigare negli spazi più estremi del mare metallico, sperimentando di continuo.
Ci si può anche fermare un attimo, tornare un po’ alle origini. E Ihsahn l’ha
fatto, e non in modo banale, ma centellinando qua e là tutto il portato delle
sue esperienze musicali.
Vedo in definitiva "Arktis." come una fisiologica pausa di serenità, utile a Ihsahn a
ritornare in futuro, col prossimo full-lenght, più geniale ed emozionale che
mai.
Mi raccomando Vegard…prenditi tutto il tempo che ti serve, eh? Non c’è
fretta…nel frattempo io vado a inserire nel lettore “Eremita”…
Voto: 7,5
Canzone top: “Celestial violence”
Momento top: i 30” centrali di “My heart is of
the North”
Canzone flop: “Until I too dissolve”
Etichetta: Candlelight
Anno: 2016
Dati: 10 canzoni, 48 minuti