I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '90)
1998: "A FALLEN TEMPLE"
No, i Rotting Christ non sono
l’unico gruppo greco che si è ritagliato uno spazio importante nel panorama
metallico mondiale. Certo, la band dei fratelli Tolis è senz’altro la più
famosa e longeva. Ma un altro gruppo ellenico non da meno (anzi…) sono
sicuramente i Septic Flesh (oggi Septicflesh).
Dopo essersi sciolti nel 2003,
all’indomani del loro sesto full lenght, “Sumerian Deamons”, la band dei
fratelli Antoniou si è riunita 5 anni più tardi sfornando dischi a cadenza triennale,
tutti abbastanza apprezzati da pubblico e critica. Ultimo in ordine cronologico, il più che valido "Titan" (2014).
A cura di Morningrise
Forse i SF non sono (o non
sono più) una cult band in senso stretto: esistono, sono vivi e vegeti. E come detto sono pure
prolifici. Non solo: sono stati messi sotto contratto dalla Season of Mist e
con loro hanno collaborato produttori del calibro di Peter Tagtgren e Logan
Mader (si, si, lui...l’ex seconda ascia dei Machine Head!).
Ma nel 1998 la
situazione era diversa e questo “A Fallen Temple” di certo non fu un disco
particolarmente di successo, non ottenendo l’attenzione che meritava. Eppure
AFT, per chi scrive, fu davvero una bella e inaspettata rivelazione.
All’epoca, già da qualche anno
erano salite alla ribalta sonorità heavy/sinfoniche, grazie soprattutto ai
capolavori dei maestri Therion (“Theli” su tutti). La band di Christofer
Johnsson ebbe un’altra particolarità e cioè quella di immergere
quell’innovativa proposta musicale in un immaginario e
un’iconografia che rimandava ai culti e alla mitologia delle religioni pagane,
che davano all’insieme un mood fortemente esoterico e mistico.
I SF riprendono quell'approccio musicale e concettuale therioniano ma sorprendono non solo per la grande
creatività e freschezza del songwriting ma anche e soprattutto per la
scioltezza con la quale mescolano assieme stilemi dark/gothic, heavy classico, ariose
aperture sinfoniche (sempre misurate e mai ridondanti) e retaggi del death/doom
dei loro esordi.
Come detto i Therion, ma anche i
Paradise Lost (che verranno omaggiati, nella riedizione di AFT nel
2014, con la cover di “The Last time”) possono essere due buone chiavi di
lettura per approcciarsi al mondo dei Septic Flesh; ma state tranquilli: siamo
lontanissimi dal plagio e questo lo si capisce già dai primi minuti del platter,
vibranti di una personalità e originalità evidenti.
Il disco è suddiviso formalmente,
e anche musicalmente, in tre parti: The new order – Testimonial – End of the
circle.
La prima esprime
mirabilmente le innovative caratteristiche che abbiamo su descritto:
“Brotherhood of the Fallen Knghts”, “The Eldest Cosmonaut” e “Marble Smiling
Face” (che bei titoli, tra l’altro!) sono i tre pezzi senza dubbio più riusciti
del disco, perfettamente bilanciati nelle diverse anime che li agitano. Al
growl cavernoso di Spiros Antoniou,
che accompagna le parti più pesanti, e alle due clean vocals (quella del chitarrista/tastierista
Sotiris Vayenas, e quella del guest
singer, Kostas Tzanokostakis), che al
contrario emergono nelle parti più ariose e melodiche, si affianca la
splendida voce femminile dell’altra guest singer, Natalie Rassoulis, eterea e delicata come poche. Quattro voci
quindi che accompagnano, alternandosi e mischiandosi, i diversi umori musicali.
La seconda sezione è invece
quella più tirata, che paga pegno al trascorso death della band. I pezzi
infatti sono una riedizione di un EP pubblicato nel 1991 e di difficile
reperibilità. Cosa che spinse i greci a rieditarli e ad inserirli in AFT. Sono
brani fisiologicamente più diretti, semplici, ma comunque efficaci, buonissimi
esempi di un death con influenze dark/goth.
“Temple of the lost race”,
“The crypt”, “Setting of the two suns” ed “Erebus” rappresentano quindi un
quadrilatero massiccio, che investe l’ascoltatore inchiodandolo al suolo. Ma qui i SF sorprendono perché capaci anche in questo contesto di far tirare il respiro all’ascoltatore
con rallentamenti arpeggiati, assoli melodici e partiture di tastiere che vanno
a sottolineare i momenti topici delle songs. Quattro pezzi che ricordano le
cose migliori presenti nello splendido “Clouds” dei Tiamat (1992), ma, e questo
è da sottolineare, composti un anno prima del capolavoro della band svedese!
Ma le sorprese non sono finite: per
trasportarci di nuovo verso alte vette emotive, ecco arrivare infine la terza
sezione che ritorna ad atmosfere più sinfoniche, sognanti, ma anche operistiche. “Underworld” infatti, il brano ivi contenuto (suddivisa
in due parti, la prima delle quali era già inserita in "The new order"), è
infatti a tutti gli effetti Opera, con un cantato/recitato a più voci (una per ogni “personaggio”
della storia narrata), accompagnato da musica classica.
Ricordo che in un primo tempo questa suite (integrata, nella versione di AFT del 2014, da una “Part III” più un “Finale” per un totale di oltre mezz’ora di
musica) fu quella che più mi spiazzò negativamente perchè mi sembrava un corpus
inserito a forza nella struttura del disco, estemporanea e che creava
disomogeneità. Successivamente, dopo ripetuti ascolti, posso dire che ne è
l’elemento distintivo, di maggior qualità e che in realtà rappresenta un
aspetto fondamentale della variegata proposta dei SF. Fondamentale perché da
essa scaturisce l’anima più tragica e teatrale dei SF che rendono omaggio,
declinandolo in versione metallica, alle proprie origini elleniche e alla tragedia greca classica. Una dimensione, questa
operistico-teatrale, che non fa altro che esprimere una vitalità fatta di colpi
di genio e di “trovate” non convenzionali, a volte bizzarre e/o spiazzanti, ma sempre affascinanti, che non ritroveremo
più, almeno a questi livelli, nel symphonic death del post-reunion. Un
symphonic sicuramente ben composto e suonato, contenutisticamente valido ma
anche più canonico, meno sorprendente.
Di certo i SF ebbero la
“sfortuna” di piazzare questo platter appena due mesi prima
dell’uscita dello strepitoso “Vovin” dei Therion, che, ricordo ancora bene, per
tutta l’estate del '98 e oltre tenne banco sulle riviste specializzate,
oscurando qualsiasi altra uscita dello stesso filone.
E fu un peccato, perché AFT
avrebbe meritato una maggiore considerazione. Perché è un disco "ricco", vibrante; forse a tratti immaturo, ma quanto mai vitale.
Espressione
dell’ennesima sfaccettatura di quella contaminazione dei generi metal,
caratteristica che abbiamo preso come guida per il nostro viaggio attraverso gli anni novanta.