"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

28 lug 2016

TRE OPERE PER CAPIRE WREST, L'ULTIMO GENIO DEL BLACK POST-MODERNO




Di veri geni il black metal ne ha visti pochi, forse cinque o sei: Euronymous, Dead, Varg Vikernes, Fenriz, Nocturno Culto e qualcun altro. Eppure il black metal, se suonato in maniera ispirata, fa sembrare un po' tutti dei geni, forse per via della massima che dice: "Poco sforzo, grande risultato". Ed infatti solo i veri artisti riescono a fare grandi cose con mezzi scarsi, e questo è proprio il caso del black metal, genere minimale e strafottente per eccellenza, ma che sa regalare grandi emozioni.

Il "genio" di cui parliamo oggi è Jef Whitehead, in arte Wrest.

Wrest è indubbiamente uno dei massimi esponenti del filone U.S. Black Metal ed è principalmente noto per il suo progetto-madre Leviathan, avviato nel 1988, ma che discograficamente ha visto la luce solo nel 2003 con il debutto "The Tenth Sub Level of Suicide". Depressive Black Metal, tanto per intenderci, anche se i nostri lettori avranno oramai capito che lo sviluppo statunitense del black metal (Weakling in testa) si va ad arricchire di nuovi elementi: post-rock, drone-ambient, psichedelia. Il tutto ovviamente degradato in un contesto lo-fi e il più delle volte riplasmato con pressappochismo esecutivo. Perché se il black metal ha insegnato qualcosa, questa cosa è il principio: "Va' dove ti porta il cuore". E un maestro di questo approccio, che potremmo definire anche "buona la prima" o meglio ancora, "alla vaffanculo", è proprio Wrest, factotum di se stesso (egli suona tutti gli strumenti e produce i suoi lavori), capace di far convergere una miriade di generi e stili in un unicum dotato di senso.

Nel 2004 usciva "Tentacles of Whorror", che è il primo album di cui vorrei parlarvi, ed anche il primo dei Leviathan che ebbi modo di ascoltare (per questo vi sono rimasto affezionato in modo particolare). È il classico album "che dura una vita", pieno zeppo di roba e in cui non capisci mai dove finisce un pezzo e dove ne inizia un altro. Ma il flusso è buono e Wrest, alla faccia del suo malumore, è un grande intrattenitore. Si parla di depressione, suicidio, ma io a Wrest non gli credo, perché è troppo brillante per essere uno che passa le giornate a pensare a come ammazzarsi. Magari la musica è per lui un mezzo per esorcizzare il mal di vivere, chi lo sa, quel che è certo è che Wrest non è un proprio un tipo "tutto casa e chiesa", considerato che ha avuto più di un problema con la giustizia: una volta per la detenzione di droghe (per cui si è fatto anche la galera) e una volta per violenza nei confronti della sua ex (per cui è stato processato ma anche giudicato innocente). E l'album "True Traitor, True Whore" pare ispirarsi proprio a questa vicenda giudiziaria.

Sia come sia, come ascoltatore ho udito lavori che emanavano vibrazioni più negative. Non che qua ci diverta, intendiamoci: "crostoni metal" che galleggiano moribondi in un mare dark-ambient, passaggi putrescenti, assalti frontali, un po' di blastbeat qui, un po' di doom qua, un po' di thrash là, una voce filtrata dispersa in riverberi ed effetti di ogni tipo tanto da divenire incomprensibile (ancora più incomprensibile di quanto possa essere uno screaming "ordinario" nel black metal), il tutto immerso in suoni marci come si deve. Insomma: la classica ricetta del depressive. Solo che il Nostro, a differenza per esempio dell'esimio collega Malefic degli Xasthur (che semmai incanala le sue energie solo e solamente verso orizzonti di agonia e mestizia sonora), mostra una verve creativa che rende la sua musica coinvolgente e, credetemi, imprevedibile.

Perché laddove il depressive, anche quello più ispirato, pecca di prevedibilità (il piacere che si ha ascoltando quel genere sta più nell'espressività che nell'idea in sé), Leviathan è un progetto che custodisce molte frecce nella propria faretra. E così, aggirandosi in scenari di degrado assoluto, capiterà di imbattersi in passaggi sensazionali che pescano sapientemente dal post-rock, dal rock in generale, dal metal in senso ampio, ovviamente filtrati attraverso i suoni e la negatività pretese dal genere. Passaggi sensazionali che all'improvviso schiudono mondi non preventivati che ci ripagano di attese estenuanti, vuoti siderali o caotica furia incontrollata. Ma non è tanto l'effetto sorpresa, quanto la bravura di Wrest nel disporre i pezzi del suo collage, nel saper collocare il tassello giusto (per forma, velocità ecc.) al momento giusto. È come se la sua musica, più che basarsi sulla qualità dei “singoli mattoni”, trovi un equilibrio soddisfacente nell'alternarsi dei vari momenti (come se un passaggio ostico trovasse un senso grazie alla distensione data dal passaggio successivo, e viceversa). Un giochetto che potrà magari durare quindici minuti, ma quando fai dischi che mediamente durano più di un'ora, ed ogni volta stupisci, allora vuol dire che cosa da dire c'è ne hai.

L'impressione è che Wrest sia uno di quegli “artisti di quantità” dal riff facile e dai mille assi nella manica: uno che, a scapito del suo campo d'azione (che vorrebbe il totale disprezzo per se e per gli altri), cerca e trova, grazie al suo subdolo narcisismo, un terreno condiviso di comunicazione con l'ascoltatore. Perché evidentemente gli piace piacere, anche se fa di tutto per sortire l'effetto contrario. Oppure è proprio quel che vuole, del resto non si campa d'aria!

Il progetto Lurcker of Chalice presenta le stesse caratteristiche, estremizzando il modus operandi. Wrest si occupa sempre di tutto, il range delle influenze però si amplia, cosicché nel potpourri ci troviamo anche industrial, suoni rituali e folk. Per folk intendiamo dosi discrete (soprattutto nella seconda parte dell'opera) di truce cantautorato americano come i Neurosis hanno insegnato ad iniettare nel post-metal, con quelle ritmiche marziali che un po' fanno folk apocalittico. Del resto la casa discografica ha promosso il prodotto descrivendolo come "Neurosis meet Blut Aus Nord meet Death in June". Il risultato però non cambia: "Lurcker of Chalice" targato 2005, ad oggi l'unico lavoro rilasciato dal progetto (pare che ve ne siano altri quattro pronti, ma non si sa se vedranno mai la luce - tipica dichiarazione strafottente da black-metallaro nichilista), coinvolge e "diverte" quanto i Leviathan. E Wrest dimostra di saper metabolizzare e sputare "alla sua maniera" altri generi musicali, sempre tenendo il black metal come "rancido contenitore". Confermando inoltre la sua capacità (non comune) di sminestrare riff e melodie con estrema disinvoltura. E saper condire il tutto con qualche trovata veramente riuscita, come per esempio l'idea di accompagnare, durante un momento acustico, il cupo canto tenorile con il gracchiare black metal in sottofondo. Con mille soluzioni come questa (e non è cosa facile infilzarne così tante) il Nostro trova sistematicamente il successo.

Ad aggiungere gloria alla gloria, ecco l’illustre collaborazione con i Sunn O))): sempre nel 2005 Wrest presterà la sua voce in un paio di pezzi di "Black One" in cui Anderson e O'Malley rileggeranno in salsa black metal il loro classico drone-doom-ambient (territorio non del tutto estraneo al Nostro). Questo detto fra parentesi.

Arriviamo dunque al super-gruppo Twilight, formazione che ha annoverato al suo interno, oltre che Wrest, altri importanti esponenti del black metal americano come Imperial dei Krieg, Sanford Parker dei Minsk e Blake Judd dei Nachtmystium, e personaggi che non ti aspetteresti come Aaron Turner degli Isis e addirittura Thurston Moore dei Sonic Youth (a dimostrazione di come in America i confini fra black metal, post-metal e noise rock si possano "pacificamente" confondere). Di questa operazione, Wrest è stato uno degli azionisti di maggioranza, avendo partecipato a tutti e tre gli album rilasciati e soprattutto perché in essi ha suonato batteria, basso, chitarra e synth, dando un discreto contributo all'economia del suono complessiva.

Nel 2010 usciva "Monument to Time End", secondo album nonché il migliore dei Twilight. In esso prendeva forma un post-black metal che sapeva attingere da un po' tutti i background degli artisti coinvolti, ma che, grazie alla presenza di Turner, si dirigeva verso sonorità più epiche e maestose, allargando la propria visuale allo stoner ed al post-hardcore. L'album, inutile dirlo, è nel suo genere un capolavoro e rappresenta sicuramente uno dei dieci titoli da possedere in materia di post black metal: un esito scontato se si pensa ai personaggi coinvolti. Rispetto ai minestroni "cotti" in solitudine da Wrest, il lavoro in questione suona meno dispersivo, maggiormente dotato di organicità, con brani che hanno un capo e una coda, e a volte anche dei climax al loro interno. Ma c'è molto del tocco di Wrest in "Monument to Time End": c'è il suo songwriting brillante, c'è sopratutto la sua capacità di azzeccare il ritmo giusto, il riff perfetto, la melodia accattivante, il passaggio necessario per digerire meglio il tutto.

Non è un genio Wrest, egli è semmai uno che anche al minimo dell'impegno, o al massimo della sgradevolezza, nel bene o nel male, riesce a comunicare comunque qualcosa, come Vittorio Sgarbi o Gianfranco Funari. Alla faccia della misantropia...