Di veri geni il black
metal ne ha visti pochi, forse cinque o sei: Euronymous, Dead,
Varg Vikernes, Fenriz, Nocturno Culto e qualcun altro.
Eppure il black metal, se suonato in maniera ispirata, fa sembrare un po' tutti
dei geni, forse per via della massima che dice: "Poco sforzo, grande
risultato". Ed infatti solo i veri artisti riescono a fare grandi cose
con mezzi scarsi, e questo è proprio il caso del black metal, genere minimale e
strafottente per eccellenza, ma che sa regalare grandi emozioni.
Il "genio" di cui
parliamo oggi è Jef Whitehead, in arte Wrest.
Wrest è indubbiamente uno dei
massimi esponenti del filone U.S. Black Metal ed è principalmente noto
per il suo progetto-madre Leviathan, avviato nel 1988, ma che
discograficamente ha visto la luce solo nel 2003 con il debutto "The
Tenth Sub Level of Suicide". Depressive Black Metal, tanto per
intenderci, anche se i nostri lettori avranno oramai capito che lo sviluppo
statunitense del black metal (Weakling in testa) si va ad arricchire di
nuovi elementi: post-rock, drone-ambient, psichedelia. Il
tutto ovviamente degradato in un contesto lo-fi e il più delle volte
riplasmato con pressappochismo esecutivo. Perché se il black metal ha insegnato
qualcosa, questa cosa è il principio: "Va' dove ti porta il cuore".
E un maestro di questo approccio, che potremmo definire anche "buona la
prima" o meglio ancora, "alla vaffanculo", è proprio
Wrest, factotum di se stesso (egli suona tutti gli strumenti e produce i suoi
lavori), capace di far convergere una miriade di generi e stili in un unicum
dotato di senso.
Nel 2004 usciva "Tentacles
of Whorror", che è il primo album di cui vorrei parlarvi, ed anche il
primo dei Leviathan che ebbi modo di ascoltare (per questo vi sono rimasto
affezionato in modo particolare). È il classico album "che dura una
vita", pieno zeppo di roba e in cui non capisci mai dove finisce un pezzo
e dove ne inizia un altro. Ma il flusso è buono e Wrest, alla faccia del suo
malumore, è un grande intrattenitore. Si parla di depressione, suicidio,
ma io a Wrest non gli credo, perché è troppo brillante per essere uno che passa
le giornate a pensare a come ammazzarsi. Magari la musica è per lui un mezzo
per esorcizzare il mal di vivere, chi lo sa, quel che è certo è che Wrest non è
un proprio un tipo "tutto casa e chiesa", considerato che ha avuto
più di un problema con la giustizia: una volta per la detenzione di droghe (per
cui si è fatto anche la galera) e una volta per violenza nei confronti della
sua ex (per cui è stato processato ma anche giudicato innocente). E l'album
"True Traitor, True Whore" pare ispirarsi proprio a questa
vicenda giudiziaria.
Sia come sia, come
ascoltatore ho udito lavori che emanavano vibrazioni più negative. Non che qua
ci diverta, intendiamoci: "crostoni metal" che galleggiano moribondi
in un mare dark-ambient, passaggi putrescenti, assalti frontali, un po'
di blastbeat qui, un po' di doom qua, un po' di thrash là,
una voce filtrata dispersa in riverberi ed effetti di ogni tipo tanto da
divenire incomprensibile (ancora più incomprensibile di quanto possa essere uno
screaming "ordinario" nel black metal), il tutto immerso in suoni
marci come si deve. Insomma: la classica ricetta del depressive. Solo che il
Nostro, a differenza per esempio dell'esimio collega Malefic degli Xasthur
(che semmai incanala le sue energie solo e solamente verso orizzonti di agonia
e mestizia sonora), mostra una verve creativa che rende la sua musica
coinvolgente e, credetemi, imprevedibile.
Perché laddove il depressive,
anche quello più ispirato, pecca di prevedibilità (il piacere che si ha
ascoltando quel genere sta più nell'espressività che nell'idea in sé),
Leviathan è un progetto che custodisce molte frecce nella propria faretra. E
così, aggirandosi in scenari di degrado assoluto, capiterà di imbattersi in passaggi
sensazionali che pescano sapientemente dal post-rock, dal rock in generale,
dal metal in senso ampio, ovviamente filtrati attraverso i suoni e la
negatività pretese dal genere. Passaggi sensazionali che all'improvviso
schiudono mondi non preventivati che ci ripagano di attese estenuanti, vuoti
siderali o caotica furia incontrollata. Ma non è tanto l'effetto sorpresa,
quanto la bravura di Wrest nel disporre i pezzi del suo collage, nel
saper collocare il tassello giusto (per forma, velocità ecc.) al momento
giusto. È come se la sua musica, più che basarsi sulla qualità dei “singoli
mattoni”, trovi un equilibrio soddisfacente nell'alternarsi dei vari momenti (come
se un passaggio ostico trovasse un senso grazie alla distensione data dal
passaggio successivo, e viceversa). Un giochetto che potrà magari durare
quindici minuti, ma quando fai dischi che mediamente durano più di un'ora, ed
ogni volta stupisci, allora vuol dire che cosa da dire c'è ne hai.
L'impressione è che Wrest sia
uno di quegli “artisti di quantità” dal riff facile e dai mille
assi nella manica: uno che, a scapito del suo campo d'azione (che vorrebbe il
totale disprezzo per se e per gli altri), cerca e trova, grazie al suo subdolo
narcisismo, un terreno condiviso di comunicazione con l'ascoltatore. Perché
evidentemente gli piace piacere, anche se fa di tutto per sortire l'effetto
contrario. Oppure è proprio quel che vuole, del resto non si campa d'aria!
Il progetto Lurcker of
Chalice presenta le stesse caratteristiche, estremizzando il modus
operandi. Wrest si occupa sempre di tutto, il range delle influenze però
si amplia, cosicché nel potpourri ci troviamo anche industrial, suoni
rituali e folk. Per folk intendiamo dosi discrete (soprattutto nella
seconda parte dell'opera) di truce cantautorato americano come i Neurosis hanno
insegnato ad iniettare nel post-metal, con quelle ritmiche marziali che un po' fanno
folk apocalittico. Del resto la casa discografica ha promosso il prodotto
descrivendolo come "Neurosis meet Blut Aus Nord meet
Death in June". Il risultato però non cambia: "Lurcker of
Chalice" targato 2005, ad oggi l'unico lavoro rilasciato dal
progetto (pare che ve ne siano altri quattro pronti, ma non si sa se vedranno
mai la luce - tipica dichiarazione strafottente da black-metallaro
nichilista), coinvolge e "diverte" quanto i Leviathan. E Wrest
dimostra di saper metabolizzare e sputare "alla sua maniera" altri
generi musicali, sempre tenendo il black metal come "rancido
contenitore". Confermando inoltre la sua capacità (non comune) di
sminestrare riff e melodie con estrema disinvoltura. E saper condire il
tutto con qualche trovata veramente riuscita, come per esempio l'idea di
accompagnare, durante un momento acustico, il cupo canto tenorile con il
gracchiare black metal in sottofondo. Con mille soluzioni come questa (e non è
cosa facile infilzarne così tante) il Nostro trova sistematicamente il
successo.
Ad aggiungere gloria alla gloria,
ecco l’illustre collaborazione con i Sunn O))): sempre nel 2005 Wrest
presterà la sua voce in un paio di pezzi di "Black One" in cui
Anderson e O'Malley rileggeranno in salsa black metal il loro
classico drone-doom-ambient (territorio non del tutto estraneo al
Nostro). Questo detto fra parentesi.
Arriviamo dunque al super-gruppo
Twilight, formazione che ha annoverato al suo interno, oltre che Wrest,
altri importanti esponenti del black metal americano come Imperial dei Krieg,
Sanford Parker dei Minsk e Blake Judd dei Nachtmystium,
e personaggi che non ti aspetteresti come Aaron Turner degli Isis
e addirittura Thurston Moore dei Sonic Youth (a dimostrazione di
come in America i confini fra black metal, post-metal e noise rock si possano
"pacificamente" confondere). Di questa operazione, Wrest è stato uno
degli azionisti di maggioranza, avendo partecipato a tutti e tre gli album
rilasciati e soprattutto perché in essi ha suonato batteria, basso, chitarra e
synth, dando un discreto contributo all'economia del suono complessiva.
Nel 2010 usciva "Monument
to Time End", secondo album nonché il migliore dei Twilight. In esso
prendeva forma un post-black metal che sapeva attingere da un po' tutti
i background degli artisti coinvolti, ma che, grazie alla presenza di
Turner, si dirigeva verso sonorità più epiche e maestose, allargando la propria
visuale allo stoner ed al post-hardcore. L'album, inutile dirlo,
è nel suo genere un capolavoro e rappresenta sicuramente uno dei dieci
titoli da possedere in materia di post black metal: un esito scontato se si
pensa ai personaggi coinvolti. Rispetto ai minestroni "cotti" in
solitudine da Wrest, il lavoro in questione suona meno dispersivo, maggiormente
dotato di organicità, con brani che hanno un capo e una coda, e a volte anche
dei climax al loro interno. Ma c'è molto del tocco di Wrest in "Monument
to Time End": c'è il suo songwriting brillante, c'è sopratutto la
sua capacità di azzeccare il ritmo giusto, il riff perfetto, la melodia
accattivante, il passaggio necessario per digerire meglio il tutto.
Non è un genio Wrest, egli è semmai
uno che anche al minimo dell'impegno, o al massimo della sgradevolezza, nel
bene o nel male, riesce a comunicare comunque qualcosa, come Vittorio Sgarbi
o Gianfranco Funari. Alla faccia della misantropia...