I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’90)
1997: “OMNIO”
“Signore e signori, smontiamo
baracca e burattini, riponiamo nel cassetto i nostri lettori cd, mandiamo in
soffitta gli hi-fi e smettiamo qua di ascoltare metal. Tanto, cosa proseguiamo
a fare? Cosa ci può/potrà essere di più bello, di superiore, di più…perfetto di
questo dischetto che abbiamo tra le mani!!? Cosa mai lo potrà superare? Questo
è il massimo! E quindi tanto vale fermarsi qua…”.
Ebbene si, lo ammetto: sono stati
questi i pensieri che mi sono passati convintamente per la testa quasi 20 anni
fa quando ascoltai “Omnio” degli In The
Woods…Vale a dire quello che per parecchio tempo ho considerato il disco
più bello ed emozionale che avessi mai ascoltato fino ad allora, non soltanto a livello metallico,
ma in assoluto nella mia vita! Esagerato? Forse si; anzi sicuramente si.
A cura di Morningrise
Per fortuna, il metal, com’è
ovvio, non sarebbe terminato con “Omnio”. E innumerevoli altre perle ci sono
state donate da moltissime band appartenenti ai sottogeneri più disparati.
Però, anche a distanza di questi
20 anni, non ho cambiato idea su questo abnorme album. Che reputo, in una
cerchia non numerosissima di eletti, degno di meritare un “10 e lode”.
Abbiamo già trattato la band di Kristiansand relativamente alla classifica dei migliori brani lunghi del metal, descrivendo con il nostro
Mementomori la straordinaria “Yearning the Seeds of a New Dimension”. Già in
quei 12 minuti e mezzo, la band (formata dai componenti degli ottimi Green
Carnation che, rimasti orfani del bassista Tchort, fondatore degli stessi GC e poi abbandonati per entrare negli Emperor, ebbero l’intuito di formare gli In the
Woods…) dimostrava una classe fuori dal comune, una volontà di allargare i
confini del Black Metal con robuste ed eleganti partiture prog/psychedelic
rock. Ma “Heart of the Ages”, il disco contenente come opener quella splendida
traccia, rimaneva di fatto un disco black, seppur fortemente sperimentale e
teso a superare gli stilemi classici del genere.
E’ due anni dopo, con “Omnio” che gli ITW compiono un salto
evolutivo straordinario, recidendo quasi completamente le influenze estreme per
darsi ad un metal inclassificabile e libero, assolutamente personale,
decisamente d’avanguardia. Riporto a tal proposito le illuminanti parole del
collega: “gli ITW sganceranno dal loro corpus sonoro la componente black metal
come se fosse un’inutile zavorra, per avviarsi lungo un sentiero senza più
schemi, animata da uno spirito di ricerca ed una libertà espressiva che raramente
troveremo altrove…”
L’impatto con l’incipit dell’album è di quelli
devastanti, che tramortiscono, rimanendo scolpiti indelebilmente
nella Storia della nostra musica preferita: “299 796 km/s” è qualcosa di
indicibile, le parole di mia conoscenza non bastano per descrivere questo
quarto d’ora di pura perfezione. Un devastante intreccio di svariati elementi
che si alternano e si integrano in un songwriting sempre in movimento,
spiazzante ma sempre bilanciato. Gli ITW ci accolgono in questa sorta di tour
de force dell’anima con un leggiadro e malinconico violino che fa da apripista,
appunto, a “299 796 km/s” (non altro che la misura della velocità della luce) che dopo poco
si anima in una prima parte tirata in cui ci si rende subito conto che è stato abbandonato quell’acutissimo screaming usato in passato e che, a mio modo di
vedere, costituiva un punto debole del loro debut. La voce di Jan Transeth è declamatoria, calda e
profonda, non tecnicamente perfetta, ma assolutamente calzante col mood
dell’opera. Ritroviamo nel primo terzo del brano gli ultimi retaggi, le
ultimissime reminiscenze black, con una brusca accelerata al minuto 2 e 30”
supportata da riff in tremolo con doppia cassa prima che arrivi quello che
forse è il momento top dell’intero disco, cioè lo stacco al minuto 3 e 51”: il riff di cui sopra è lasciato a sfrigolare un paio di
secondi, l’aria rimane immota e subito dopo tornano in primo piano gli archi,
soffusi, eterei, in un bridge strumentale di rara genialità che guida l’ascoltatore,
con l’accompagnamento di un toccante arpeggio elettrificato, verso un poetico
intermezzo cantato a due voci da Jan e la soprano Synne Larsen. Il testo potrebbe concorrere senza problemi ad una gara
di poesia: "In a way I perceive myself as my own god, my own master and my own slave / I am but a thrall towards my own desires / just when it all seems so hopelessly to break free from what I have done / I will try, do it all over again / and flow with the waves like the sun / I draw parallels between intuitions and istincts / I carried since dawn when the dusk comes / I would like to see I was wrong / though I still am a thrall towards my own desires". Lascio a voi la traduzione: lacrime...
Potremmo già chiudere qui,
appagati nel nostro profondo, e siamo appena arrivati al minuto 8… . E invece
ci attendono, per fortuna, ancora 55 minuti di meraviglie, montagne russe
emotive tra partiture gothic, inserti folk, altri di musica classica, blocchi ambient e persino stilemi operistici incastonati, in un coerente ossimoro sonoro, in strutture puramente metal. “I am your flesh” e la breve e stupefacente “Kairos!” sono
fulgidi esempi di quanto detto.
E non è ancora finita visto che,
dopo “Kairos!”, un solo-riff di struggente malinconia ci guida a questi versi:
If the earth was a
willow / and you were one too / would earth be weeping so gentle and so true /
if I was a garden / whereas you could grow / would you hand me your braches /
and grant me your love?
E’ “Weeping willow” e altre
lacrime sgorgano senza freno: top song irripetibile che metterà a dura
prova le vostre coronarie…
Ma la vena prog dei Nostri,
comunque già espressa a profusione nei primi 4 brani, si estrinseca in tutta la
sua magniloquenza nella finale title track, canzone monstre di oltre 25’
(divisa in tre parti. “Pre”, “Bardo” e “Post”) e nei quali gli ITW rendono
omaggio ai loro numi tutelari (King Crimson, Pink Floyd, Jefferson Airplane)
pur padroneggiando la materia con straordinaria personalità e credibilità. 25
primi che passano in un batter d’occhio tanta è la qualità di ogni singolo
passaggio, tanto è il coinvolgimento di ogni singola nota.
“Omnio” sancisce quindi la
nascita di un metal d’avanguardia (ma in realtà di una Musica Totale al contempo
dentro e fuori dal Metal) che non troverà eguali neppure in quel magico e
fecondo 1997. Un anno in cui ”fecero il botto” altre band d'avanguardia di seminale
importanza: in primis gli Arcturus del fenomenale “La masquerade infernale” (uscito
proprio due settimane dopo “Omnio”), riconosciuto capolavoro dell’avant-metal.
E assieme agli Arcturus come non citare altre due straordinarie band norvegesi:
i Solefald che pubblicavano in quell’anno lo straniante “The Linear Scaffold”, e i
Ved Buens Ende di “Those who caress the
pale”.
Ma “Omnio” è qualcosa di più, di
diverso; che comprende e supera anche questi capolavori avantguarde: troppo
avanti, troppo geniale, troppo sperimentale.
E forse proprio per questo, il destino
dei Nostri era quasi segnato: non potendo riscrivere un “Omnio”, gemma unica e
irripetibile, nel 1999 pubblicarono un album ancora più ostico e lontano dal
sound con cui il pubblico li aveva conosciuti: in “Strange in Stereo”, infatti
di metal rimaneva quasi niente, per abbracciare ancora più compiutamente un
prog rock etereo e sognante, forse troppo autoreferenziale.
Dopo un album raccolta di B-sides
e lo splendido “Live at Caledonien Hall”
(2003), riepilogo in quasi 2 ore e mezzo del meglio prodotto dalla band nel suo
decennio di vita, i membri degli ITW abbandonarono il progetto per ritornare a
suonare con i Green Carnation (sfornando peraltro ottime cose, e ribadendo che
la classe non si era esaurita con l’esperienza degli ITW).
Omnio…un termine che rimanda al latino omne –
omnis (omnia al plurale), termine che sta a indicare l’”intero”, il “tutto”,
“di ogni genere/tipo”.
Ed è esattamente ciò che si ritrova in questi 63’ di
musica: ogni cosa.