Da un po' di tempo a questa
parte ci affligge una questione in particolare: quale futuro si riserva per
il metal? Abbiamo provato a rispondere prendendo in considerazione una band
relativamente giovane, riconoscendo nella sua musica il consolidarsi di nuove
tendenze che potessero dare fiorenti prospettive al nostro genere preferito.
Abbiamo dunque parlato degli inglesi Haken in quanto band e del neo-progressive
in quanto sotto-genere capace di incanalare le energie più vive del momento. Abbiamo
poi osservato le gesta degli americani Between the Buried and Me, i
quali, con modalità diverse, ci hanno fornito un'interpretazione analoga di
metal progressivo inteso come contenitore in cui far convergere una
miriade di influenze: da quelle più classiche (e radicate nella tradizione del
rock degli anni settanta) a quelle più moderniste, sconfinando persino
nell'elettronica.
Chiudendo un ipotetico
cerchio, torniamo dalla nostra parte dell'oceano e parliamo dei norvegesi Leprous
e del loro capolavoro "Bilateral".
Fondati nel 2001, essi
giungevano nel 2011, con questo album, alla consacrazione definitiva,
dopo essersi fatti notare con il promettente debutto "Tall Poppy
Syndrome", uscito due anni prima. "Bilateral", a detta degli
stessi autori, rappresenta il picco sperimentale della loro carriera e non è un
caso che dietro alla produzione vi sia lo zampino di una vecchia volpe
come Ihsahn, che li volle a tutti i costi come gruppo spalla in tour
e che da quel momento si è rivelato essere un importante sponsor per i
Leprous. Ma nemmeno questo è un caso, visto che il cantante/tastierista della
band Einar Solberg aveva fatto parte della primissima formazione degli Emperor
in qualità di tastierista. Due premesse importanti, perché ci fanno capire come
il prog-metal dei Leprous attinga anche da quel calderone di band che hanno
solcato la terra dei fiordi, dando dell'estremo un'interpretazione libera ed
avanguardistica (Arcturus, Winds, ultimi Borknagar ed
appunto gli Emperor). Ma attenzione: le band appena citate costituiscono
solamente una delle varie (e tante) componenti del sound multiforme
dei Nostri. Multiforme ma anche omogeneo, in quanto il quintetto sfoggia
una fluidità sinfonica, una imprevedibilità, una schizofrenia che sono ben
radicate in un armonico, scorrevole e ben levigato flusso di elementi, che poi,
a guardar bene, è il tratto comune di molte band norvegesi.
Diversi sono dunque gli
elementi mutuati dal metal estremo: in "Thorn" troviamo
l'ugola al vetriolo del mentore Ihsahn (presto seguita da contorti volteggi di
una bella tromba jazzata, come a voler richiamare in modo esplicito
quelle contorsioni avanguardistiche che sono tipiche della carriera solista
dell'ex leader degli Emperor); in"Waste of Air" veniamo
immediatamente investiti da uno spietato blast-beat e da chitarre
sfrigolanti in perfetto stile black metal; sparse per tutto il platter,
infine, ricorreranno sovente piccole dosi di screaming o growl.
Ma questi sono solo schizzi in un affresco ben più complesso e
particolareggiato: quello che è infatti chiaro fin dai primissimi istanti della
title-track (posta in apertura) è che il multivitaminico
progressive dei Leprous, come già visto con Haken e Between the Buried
and Me, fa incetta di gustosi ingredienti provenienti da mondi diversi ed
apparentemente inconciliabili. Quindi non troveremo solo l'eredità dei grandi
del rock progressivo o del prog-metal (Dream Theater e Pain of
Salvation su tutti), ma anche l'influenza del rock “barocco” dei Queen,
tracce di Tool, Muse, Mars Volta e persino le ultime novità
in materia di djent. Insomma, il "classico prog totale" che fa
accadere di tutto ad ogni piè sospinto, oliato con quella fluidità tipicamente “norvegese”
a cui si faceva riferimento prima (un approccio che potremmo definire "arcturusiano")
ed ammaestrato con una perizia tecnica davvero rara (si guardi alle
funamboliche partiture strumentali della conclusiva "Painful Detour"
- roba che mozza letteralmente il fiato).
Bene, tutto chiaro,
splendido, lampante, no?
Ed invece niente è chiaro: le ombre rimangono fitte sul futuro del metal! Ebbene,
dopo qualche giorno trascorso a tu per tu con il neo-progressive dei
vari Haken, Between the Buried and Me e Leprous, siamo presto passati
dall'esaltazione alla noia, o meglio, siamo pervenuti ad una strana sensazione
di insensibilità e di incapacità di esaltarci, perché in questo neo-progressive
accadono troppe cose, per questo dopo un po' alle nostre orecchie queste
prodezze suonano insipide (come in un mondo in cui vi sono solo bellissime
donne: dopo un po' ci assuefacciamo e nemmeno ci voltiamo più a guardarle). E
questo stato di cose non può essere il futuro del metal.
Può essere sicuramente un
ambito interessante da approfondire, un terreno che può dare gustosissimi
frutti, ma queste pur valide band non possono sobbarcarsi sulle spalle le sorti
del metal intero, assumere quel ruolo guida che per esempio i fautori del thrash
metal negli anni ottanta, o del power nei novanta, hanno assolto con
gran senso di responsabilità. E poi il neo-progressive (nell'interpretazione
che ne danno le tre band di cui stiamo dibattendo) non è musica che possono
suonare tutti: impossibile dunque che il metal si rigeneri e ristrutturi
battendo una strada percorribile solo da un'avanguardia di fighetti da
conservatorio.
Probabilmente è il
presupposto iniziale da cui siamo partiti ad essere sbagliato: mettersi infatti
oggi alla ricerca della next big thing del metal, ossia di una
band capace di cambiare il volto del metal, come in passato è successo con Metallica,
Pantera, Dream Theater o Tool, è una pratica obsoleta e
fondamentalmente inutile. Già a guardare gli ultimi tre lustri ci si rende
conto di come le cose si siano andate a complicare: da un lato la contaminazione
a farla da padrona e la conseguente morte dei generi classici; dall’altro
band validissime ed innovative che non hanno saputo attirare
l'attenzione per più di tre album di fila (una miriade di passetti in avanti e
laterali che non hanno sancito la creazione vera e propria di nuovi paradigmi)
e l'assenza assoluta di nuovi campioni che sappiano semplificare gli
scenari per renderli più comprensibili a tutti.
Ecco dove sta il problema:
nel metal contemporaneo si incorre sempre più spesso in musicisti ipertecnici e
con una vasta cultura musicale che permette loro di compiere le connessioni più
azzardate (roba nemmeno concepibile venti anni fa…). Ognuno fornisce così
generosamente il proprio contributo: grande gioco di squadra, tattiche
sopraffine, innumerevoli passaggi in area, ma nessuno che, al momento
opportuno, è in grado di dare la zampata vincente (figuriamoci quel colpo di
mano à la Maradona che potrebbe risolvere la partita).
Fateci caso: tutte le
rivoluzioni, nel metal come nel rock, sono state “semplici”. Metallica, Slayer,
Anthrax, per esempio, sono stati geniali nel coniare un nuovo linguaggio
(il thrash metal), ma poi alla fine quello che facevano era elementare,
tanto che è stato rifatto da altre miliardi di band, sia in campo thrash che in
campo death (e non è che quegli ambiti pullulino di virtuosi). Idem i Pantera
che delinearono un nuovo modo di suonare thrash metal, tanto che tal modo di
suonare fu poi descritto con un termine nuovo di zecca (il groove metal),
a cui presto sarebbe seguito un altro genere ancora, il nu-metal (il
metal degli anni novanta, ricordiamolo, sta ai Pantera come il cinema degli
anni novanta sta a Tarantino). Eppure cosa avranno mai fatto i
Pantera? Riff massicci e quadrati riproposti in serrata successione e
ritmiche pompanti con cambi di tempo all’unisono con la chitarra. Ma lo hanno
fatto per primi e lo hanno fatto meglio degli altri. Ultimo esempio: cos'è
la rivoluzione post-hardcore se non l’aver coniugato hardcore e
lentezza/pesantezza/psichedelia sabbathiana? Una cazzata, eppure l'hanno
fatto solo i Neurosis, che diverranno i capofila di una popolazione di
musicisti che segneranno la storia del metal degli anni zero (Isis, Cult
of Luna ecc.).
Più una formula è facilmente
replicabile e più l'idea che vi sta dietro avrà diffusione. Non è detto quindi che i
movimenti più nutriti siano quelli più geniali, ma alla base di essi vi è
sempre un'idea che funziona. Nell'era di internet abbiamo tante
informazioni ma poche idee. La conclusione è ovvia: si sviluppa il
neo-progressive. Musicisti talentuosi, partiture spericolate e tanta tanta
carne al fuoco. Ma il cuore? Giustamente il nostro Morningrise, pur
elogiando i grandi Between the Buried and Me, sottolineava una certa freddezza
nella loro musica: non il freddo glaciale del black metal, né il gelo
squallido di chi, come nell'industrial, volutamente tratteggia scenari
di mesta alienazione metropolitana. No, il freddo interiore di una
compagine di ragazzi che sa fare tutto e che non ha da dire nulla di
particolarmente urgente, se non "quanto ci divertiamo a suonare" (che
per l'amordiddio è cosa legittima e sacrosanta…).
Il neo-progressive dunque può
esser visto come un sontuoso centro commerciale iper-fornito in cui
possiamo, in una volta sola, trovare tutto quello che ci serve: supermercati
per la spesa, negozi per lo shopping, palestre per tenersi in forma,
cinema multisala per vedere l'ultimo film in 3D, sale giochi per svagarsi, fast-food
per uno spuntino, ristoranti chic per una cena d'affari, cinese,
giapponese, tailandese, ogni palato può trovare soddisfazione. ,Ma ogni singolo
servizio/intrattenimento di questo fantastico centro commerciale luccica irrimediabilmente
di quelle superfici patinate e brilla di quei sorrisi forzati che sono esposti
in bella mostra per estorcerti denaro. Non fraintendiamoci: nel neo-progressive
c'è gente onesta che di soldi ne vede proprio pochi, è solo che nel troppo
fare ("perché siamo troppo colti e bravi per non poter fare a
meno di incorporare ogni sonorità che ci
passa per la testa") si finisce per strafare. E in
questo affannarsi spesso non si ha il tempo di sedersi e riflettere su
quello che vogliamo essere e su dove vorremmo andare.
E infatti questi gruppi,
grazie alla solida ed incrollabile razionalità che ispira le loro gesta,
faranno sempre album ben suonati e sopra la media, ma probabilmente non
riusciranno mai a colpire nel segno, a lasciare il segno. Essi continueranno ad
incrociare-macchiare-contaminare, quando invece dovrebbero plasmare queste
loro influenze, sezionarle e rielaborarle con personalità e con la
consapevolezza di appartenere al presente (e non al passato). Provare dunque
ad incarnare il ruolo del vero artista: l'artista che, con uno sguardo
diverso da quello della persona comune, tramite la propria sensibilità,
sa cogliere prima di altri i tratti, gli umori, le criticità del proprio tempo.
E, tramite i mezzi espressivi a propria disposizione, restituire
un'immagine intellegibile a tutti.
Se Raf cantava
"Cosa resterà degli anni ottanta", noi non possiamo che cantare cosa
rimarrà degli anni dieci. Non lo sappiamo, ma abbiamo paura che rimarrà ben
poco: non perché manchino le band veramente valide, ma perché viviamo in una
fase storica così veloce e convulsa che ci è impossibile capirla, e in essa
distinguere le costanti dalle variabili. Forse dovremmo allontanarci ancora un
po' e guardare il presente fra qualche anno, senza fasciarsi la testa prima di
rompercela…