Seconda puntata: Sol Invictus
Anno domini 1987: nascono i Sol Invictus di sir
Anthony Charles “Tony” Wakeford. Prego passare da queste parti per
capire cosa è il folk apocalittico.
Tony Wakeford fu buttato fuori dai Death in June
perché aderì al National Front, violando il dettame secondo cui nessuno nella
band avrebbe dovuto assumere pubblicamente posizioni di ordine ideologico. Ma è
lecito pensare che al di là di questa spinosa questione non vi fossero più le
condizioni affinché due personalità così forti, quella di Douglas Pearce
e quella di Tony Wakeford, potessero coesistere pacificamente nella medesima
dimensione artistica. Paradossalmente le forti divergenze avrebbero portato
entrambi al medesimo risultato, ossia un sound che si sarebbe emancipato
sia dal punk dei Crisis (dove i due avevano militato ad inizio carriera) che dal post-punk
dei primi Death in June, per orientarsi esattamente nella direzione opposta:
verso lo standard della ballata folk.
I sospetti per le forti simpatie destroidi di Wakeford non
furono affatto fugati quando in seguito, con il suo nuovo progetto Above
the Ruins (chiaro riferimento al pensiero del filosofo italiano Julius
Evola), nel 1985 partecipò alla compilation "No Surrender!"
a fianco di band dichiaratamente naziste come Skrewdriver e Brutal
Attack. Il Nostro, tuttavia, avrebbe in seguito rinnegato le scelte di quel
periodo (in particolare l'adesione al Fronte Nazionale Inglese),
dichiarandosi estraneo a posizioni guerrafondaie, razziste ed
antisemite. I cardini del suo pensiero, piuttosto, diverranno due. Da un lato una visione cinica della Storia intesa come un "flusso di sangue" che percorre da sempre la lotta fraticida dell'Uomo su questo pianeta, da Caino ed Abele ai giorni nostri. Dall'altro, come accaduto in parallelo con i Death in June del "rivale" Pearce, una ferma opposizione all'establishment ed uno sguardo nostalgico ancorato ad un passato visto come
un'arcadia di nobiltà tradita dal materialismo, dal pragmatismo e dalla
mancanza di valori del "Mondo Moderno", incarnato dalla
(non)cultura massificante e consumistica americana (vi ricordate di "The Death of the West"?).
Un apparato concettuale che, nel caso di Wakeford, si tradurrà in una musica
trovatoriale suonata con strumenti
tradizionali e spirito di menestrello: un folk ancestrale, sospeso fra cupezze medioevali e ruggine industriale, capace di richiamare sia incontaminate epoche
pre-adamitiche che desolanti scenari post-apocalittici.
Nel mitico Ep di debutto "Against the Modern World"
(altro riferimento alla produzione letteraria di Evola), come nel successivo
primo full-lenght "Lex Talionis", le scarne ballate dei
Sol Invictus erano ancora macchiate da elementi post-punk ed industrial.
Wakeford aveva riposto nella custodia il suo strumento, il basso, ed impugnato
la chitarra acustica: la sua preparazione tecnica era prossima allo zero, la
sua voce, a tratti insopportabile, sembrava quella di un tacchino a cui stanno
per fare la festa. Egli seppe tuttavia compensare queste carenze con una forte
passione ed una brillante scrittura. Con l'aiuto del bassista Karl Blake
(che rimarrà per molti anni ancora nell'organico dei Sol Invictus) e del
cantante Ian Read (che invece avrebbe presto abbandonato la nave per
fondare i suoi Fire + Ice, altro pilastro del neo-folk) prendevano
vita grandi classici come "Angels Fall", "Against the
Modern World", "A Ship is Burning", "Summer Ends"
(da "Against the Modern World") e "Black Easter",
"Kneel to the Cross”, “The Ruins", "Abattoirs
of Love" (da "Lex Talionis"): vividi affreschi dell'arte
struggente, dolorosa, romantica, ma anche fiera e combattiva di un indomito Wakeford,
"dritto fra le rovine", consapevole dell'inevitabile
sconfitta, ma pronto a vender cara la pelle.
La prima parte della produzione artistica dei Sol Invictus
soffriva però di una produzione approssimativa e di una evidente carenza di
attenzione a livello di esecuzione ed arrangiamenti. Ed è un vero peccato
perché i brani c'erano, eccome. Con "Trees in Winter", secondo
full-lenght ufficiale, pubblicato nell'anno 1990, si raggiungeva
finalmente un discreto equilibrio fra forma e sostanza: da un lato i brani
brillavano di una ispirazione superlativa, dall'altro essi venivano
confezionati per la prima volta in modo dignitoso grazie anche ad una
formazione allargata che, oltre al nucleo iniziale Wakeford-Blake-Read, vedeva
la presenza di Julie Wood (violino), Sarah Bradshaw (violoncello,
flauto e voce) e James Mannox (percussioni a mano). La presenza di
strumenti veri e propri che andavano a sostituire sintetizzatori e drum-machine
indubbiamente ha giovato alla resa complessiva. E i suoni, che rimanevano
grezzi ed artigianali, lungi dal costituire un elemento di fastidio come lo erano
stati in passato, conferivano ulteriore fascino all'arte decadente e visionaria
di Wakeford.
L'idea che ci si fa ascoltando queste note non è dissimile
da quanto ritratto (in modo astratto) in copertina: un paesaggio lunare in cui
alberi spogli e rinsecchiti gettano le loro braccia al cielo, un cielo plumbeo
e minaccioso. O vi è stata una tempesta, o essa è prossima a venire. L'ensemble
di musicisti è immerso in questo scenario, con lui nel mezzo, Wakeford, figura goffa,
imbolsita, senza più capelli, sorta di “Dorian Grey al contrario”: con i
segni del disfacimento sul proprio corpo, ma nobile ed incorruttibile nello
spirito. Se c'è una figura che nel metal può ricordare Wakeford, essa è quella di Quorton
dei Bathory: al pari dello svedese, Wakeford deve la propria forza ai
suoi limiti. Le sue dita obese scorrono faticosamente sulle corde della
chitarra, edificando così epici ed immaginifici accordi; la sua voce strozzata
dal pianto, partendo dal cuore e stracciando le corde vocali, si proietta oltre
le stecche, giungendo diretta al cuore dell'ascoltatore. Laddove Pearce camuffa
i suoi limiti tecnici ed esecutivi dietro ad una dignitosa compostezza,
Wakeford si getta senza ritegno nella sua arte, a costo di sbagliare. E la sua carriera
sarà piena di errori, sbavature, ridondanze, ingenuità, ma almeno in questo
album di sbagli se ne contano veramente pochi.
L'alternanza di Wakeford e Read dietro al microfono (in
pratica si spartiscono i brani) scongiura l'effetto-monotonia che due cantanti
così poco dotati tecnicamente potrebbero suscitare: il suggestivo ed evocativo
recitato di Ian Read (si pensi a due brani da brividi come "Sawney Bean"
e "Michael", la quale finirà di diritto nel repertorio dei
Fire + Ice del solo Read) fa da perfetto contraltare al canto rozzo e
tremolante di Waleford, e conferisce al tutto un alone magico ed ancestrale
(umori che saranno prerogativa del suo progetto personale).
I retaggi industriali delle origini sopravvivono solo
nella mesta introduzione della grandiosa opener "English Murder"
(un intro cacofonico che si stempererà nei desolanti arpeggi di chitarra
e nelle carezze ipnotiche degli archi) e nel pulsare ossessivo e marziale del
basso nell'altro super classico "Looking for Europe", l'unico
brano non folk del lotto. Per il resto quale protagonista assoluta del platter
si impone la chitarra acustica di Wakeford, efficacemente supportata da archi e
fiati, con i mesti colpi di tamburo di Mannox a fare da contorno e le
graffianti pennate di basso distorto di Blake (altro trademark
caratteristico del Sol Invictus sound) a rinvigorire le ballate senza
tempo della formazione inglese.
Tutti e dieci brani qui contenuti diverranno classici dei
Sol Invictus e di conseguenza del genere intero. Aggiungiamo dunque alla lista
dei titoli da citare la famigerata "Media" (presenza
immancabile ancora oggi in ogni concerto dei Sol Invictus che sia degno di tal
nome), "Gold is King" (introdotta dalla voce farneticante del
poeta Ezra Pound, altro riferimento culturale imprescindibile), "Here
We Stand" (impreziosita nel ritornello dall'ugola fatata della
Bradshaw - l'alternanza fra voce femminile e maschile diverrà uno stilema molto
utilizzato nel futuro della band), "Blood of Summer"
(incalzante folk-song animata dal flauto) e la sofferta title-track, che
chiude tragicamente il tutto. Menzione a
parte merita "Deceit", che a parere di chi scrive contiene uno
dei momenti più entusiasmanti dell'opera, ossia quando a sorpresa emerge
autorevole la voce magnetica di Read in un crescendo corale da brividi
(rompendo inaspettatamente lo schema secondo cui Wakeford e il collega si
spartiscono i brani).
Tolto il fondamentale (ma acerbo) Ep di debutto, in "Trees
in Winter" i Sol Invictus trovano il loro primo capolavoro, aprendo
di fatto una felice stagione che vedrà, album dopo album, la medesima
formula migliorarsi, grazie anche al contributo di musicisti incredibili (il
violino incantato di Matt Howden, la tromba solenne di Eric Rogers, la splendida
voce di Sally Doherty ecc.), i quali sapranno impreziosire la passionale
visione artistica di Wakeford.
Con album come "In the Rain" (1995), "The
Blade" (1997), "In a Garden Green" (1999) la musica
dei Sol Invictus si farà sempre più raffinata, magniloquente, ricca di
sfumature, sospinta dalle manie di grandezza di Wakeford: un viaggio quasi
trentennale che andrà a giovarsi delle esperienze maturate da Wakeford nei suoi
album solisti, in quelli confezionati con L'Orchestre Noir (una dimensione che vede il
Nostro svestire i panni del menestrello per indossare quelli del compositore
classico) e in una miriade di progetti paralleli che, fra musica
classica, reminiscenze jazz, folclore popolare e tradizione inglese,
sposteranno il baricentro artistico del Nostro verso un colto ed elegante folk
noir (così come ama definirlo Wakeford stesso) letteralmente fuori dal
tempo.
“But if
you’re looking for Europe, best look in your heart...”
Discografia
essenziale:
Sol
Invictus:
"Against
the Modern World" (1988)
"Trees
in Winter" (1990)
"The
Killing Tide" (1991)
"The
Death of the West (1994)
"In
the Rain" (1995)
"The
Blade" (1997)
"In a
Garden Green" (1999)
"The
Devil's Steed" (2005)
"The
Cruellest Month" (2011)
Tony
Wakeford:
"La
Croix" (1993)
"Cupid
& Death" (1996)
"Into
the Woods" (2007)
“Not All of
Me Will Die” (2009)
L'Orchestre
Noir:
"Cantos"
(1997)
"11"
(1998)
The
Triple Tre (con
Andrew King)
“Ghosts”
(2008)