Io
non c'ero, ma avrei voluto tanto esserci. Correva l'anno 1992 e in
una vasta area messa a disposizione dall'Aeroporto di Reggio Emilia si
celebrava la quinta edizione di quello che è stato il "papà" del Gods
of metal: il leggendario Monsters of Rock nella sua declinazione
italiana.
La
nostra rubrica "Io non c'ero" oggi non si adagia come consueto
sul divano davanti allo schermo di un pc portatile, ma si addentra nei meandri
della memoria per rispolverare i ricordi di un all’epoca adolescente che, non potendo
partecipare all'evento, lo seguì da "lontano" con lo stesso sguardo trasognato
che ha un bambino davanti ad una vetrina di un negozio di giocattoli. Una
vetrina di ricordi rinverdita dalle “immagini” recuperate da internet ed
accompagnate da qualche riflessione maturata in vecchiaia...
Partiamo
da Videomusic: con un prodigarsi che oggi sarebbe impensabile per MTV,
l’emittente italiana preparò l'evento con settimane di anticipo, facendo girare
in fascia serale i videoclip delle band partecipanti e poi, non paga, proseguì
a deliziarci nei giorni successivi al concerto, trasmettendo corposi video-estratti
delle varie esibizioni. Proprio su quei mini-speciali, sparsi a caso nel
palinsesto estivo di Videomusic e che io guardavo avidamente, si basano queste mie
memorie (a beneficio dei nostri lettori faccio presente che si può accedere a
queste immagini cliccando qui: la resa visiva non è il massimo, ma quelle
immagini sgranate e mosse hanno un fascino genuinamente artigianale che rende davvero
interessante la visione).
Vediamo
dunque quali sono stati i protagonisti della giornata. Per dovere di cronaca
faccio presente che Danzig e Gun, ancora presenti sui manifesti
pubblicitari, dovettero annullare la loro partecipazione all'evento all'ultimo
minuto, con mio gran dispiacere, visto che ero un fan sfegatato di Glenn
Danzig, il quale fu estromesso dall'evento per via di un suo comunicato in cui istigava
il pubblico a prendere a bottigliate gli Warrant, hair metal band fuori tempo
massimo (mitico Danzig!).
Il compito
di aprire le danze spetta a Pino Scotto, a me all’epoca sconosciuto, nonostante
si portasse dietro una certa storicità per i suoi trascorsi nei Vanadium.
Benché il sole picchi con violenza sulle teste degli astanti, il pubblico
reagisce bene al rock energico del Pino Nazionale, che adempie
perfettamente al suo compito di officiante degli onori di casa. L'unica domanda
che mi pongo è: in anni in cui anche il mio gatto aveva uno pseudonimo in
inglese, perché è rimasto "Pino Scotto"???? Oggi costui sarà anche
un personaggio trash che, grazie alla sua carriera di presentatore televisivo,
si è fatto fra i più giovani la fama del paladino del rock'n'spaghetti,
ma il dovere di cronaca mi impone di calarmi nei panni del “me” del 1992, che
accolse con un sorriso questa roba del “Pino-Scotto-chi?” a calcare lo
stesso palco delle glorie che hanno fatto la storia dell'heavy metal”. È
come dire: “Stasera grande serata di poesia con ospiti eccezionali come Charles
Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud e Girolamo
Colombaioni. Qualcosa non torna…
Procediamo
dunque oltre: ecco che subito dopo, con ancora il sole altissimo nel cielo,
fanno il loro ingresso dei giovanissimi Pantera, alla vigilia del successo
planetario che riscuoteranno con il fresco di stampa "Vulgar Display of
Power". Data la posizione “in basso” nel bill della giornata,
il set è concentratissimo e pesca ovviamente dagli ultimi due album, dando
ovviamente maggiore spazio alla produzione recente (“Fucking Hostile”, “Mouth
of War” e compagnia bella), ma con una bella "Cowboys from Hell"
sparata nel finale. I Nostri condensano in sei pezzi la loro carriera
(omettendo la leggendaria "Cemetary Gates", forse troppo lunga
e complicata da riproporre, ma prontamente sostituita dalla nuova “ballad”,
nonché singolo, "This Love"), già dimostrando quella maturità
che a brevissimo permetterà loro di divenire la portentosa macchina da guerra
che cambierà per sempre il thrash e probabilmente il metal in generale (si veda
alla voce “nu metal”). Forse i ragazzi sono un po’ troppo saltellanti e magari
qualche posa più seriosa avrebbe giovato ad un grande guitar-hero come
Diamond Darrell, ben fornito di pantaloncino corto, scarpa da tennis bianca
e barbaccia intrisa di sugo come la traduzione texana giustamente richiede. Phil
Anselmo, che indossa una maglietta dei Deicide (ed è tutto dire
riguardo alla violenza sfoggiata sul palco dalla band) si difende meglio,
mostrando grinta e il physique du role adatto alla circostanza, con
quella faccia da schiaffi che gli è congeniale. Si aggira con la sua consueta
antipatia sullo stage e, stando alla testimonianza attendibile di un mio
amico che era presente, sputa come un lama, tanto che il mio amico si è
ritrovato costantemente costretto a spostarsi sotto il palco per mantenere sempre
la debita distanza dal cantante ed evitare gli sputi, generosamente riversati
sul pubblico. Cosa che non faccio fatica a credere, visto che, se la memoria non
mi inganna, il nostro arriva persino a soffiarsi il naso con immancabile
candelotto di “dinamite verde”.
Sui Warrant
non mi esprimo perché non me ne frega un cazzo. Procediamo dunque con i Testament,
che se ne erano appena usciti con "The Ritual", accolto
all'epoca con qualche mugugno per l'ammorbidimento dei suoni (sulla falsa riga
di quanto fatto l’anno prima dai Metallica con il “Black Album”).
Dite quello che vi pare, ma erano questi i veri Testament e non quel super
gruppo successivamente costruito a tavolino con guest di lusso come Lombardo,
Murphy e DiGiorgio. Giunta alla vigilia del capolinea della sua
avventura, la prima incarnazione dei Testament proponeva a Reggio Emilia un bel
compendio della propria carriera, con tanto di ballatona (l'ottima
"The Legacy", l'episodio più riuscito dello scialbo "Souls
of Black"), alla faccia del thrash-quasi-death proposto
successivamente. Una band completa, quindi, con Alex Skolnick a
sciorinare classe a profusione alle sei corde e il sempre ottimo Chuck Billy
ad arringare le folle. Ma soprattutto con un repertorio pieno di classici
come "Disciples of the Watch", "Practice What You
Preach" e "Alone in the Dark". Con in più un paio di
pezzi nuovi davvero niente male (il singolo "Electric Crown" e
l’ottima "So Many Lies").
E’
ancora giorno e montano sul palco i Megadeth, i veri Megadeth, intendo,
e non quelli che siamo abituati a vedere da vent’anni a questa parte.
Formazione storica con Marty Friedman e Nick Menza, e scaletta
mozzafiato. Mustaine e Friedman sfoggiano delle camicie inguardabili,
tanto che sembra di essere alla sfilata della nuova collezione primavera-estate
di tovaglie a quadretti. Ma cosa vogliamo rimproverare, del resto, a gente che
ha fatto "Rust in Peace"? Si parte proprio con "Holy
War" e, sempre da "Rust in Peace", verranno pescate le
celeberrime "Hangar 18" e "Lucretia" e,
credetemi, vederle suonare da chi le ha composte è tutta un’altra cosa
(impressionante la prova dietro alle pelli di uno instancabile e velocissimo
Menza). Il resto della scaletta si divide fra vecchi classici, come "Peace
Sells" e "In my Darkest Hour", e gli estratti da
"Countdown to Extinction", un repertorio che raggiunge il suo
apice con "Symphony of Destruction" chiamata a chiudere le
danze (prima dei bis con "Anarchy in the UK"). Perdoniamo
dunque il solito grugnito infastidente di Mustaine, unico punto debole di una performance
memorabile: anche i Megadeth sono la Storia del Metal e nel 1992 si
trovavano sicuramente nel loro momento di massimo splendore, ma per sprezzarli
per davvero bisogna amarli e conoscerli, perché i loro brani sono complessi e
non di facile presa. Per questo, nonostante il valore e la storicità, essi non
sono mai riusciti ad accaparrarsi l’ambito ruolo di headliner nei
festival metal. Procediamo oltre.
Scende
l'oscurità ed entrano in scena i Black Sabbath nella formazione con Ronnie
James Dio. Che dire, oggi ci si fa giustamente le seghe per il "The
End Tour" con Ozzy, ma non dev’essere stata affatto una brutta
esperienza vedersi i Black Sabbath con solo venti anni di vita sul groppone invece
che quaranta (!!!), e con una scaletta strepitosa che pescava oculatamente da
album come "Heaven and Hell" e "Mob Rules"
(sacrificando, com'è giusto che sia, i classici con Ozzy, inni immortali del
metal che quella sera non saranno stati troppo rimpianti, visto che mai si sono
adattati all'ugola diversissima di Dio). Che Dio sia Dio, dunque, ed Ozzy Ozzy.
Rivedere quelle scene oggi fa impressione, perché sembra di assistere a chissà
quale mitico evento degli anni ottanta, ed invece era il Monster of Rock a Reggio
Emilia, dove per un soffio non siamo potuti andare. Dio sfoggia fin dal sul
ingresso un carisma che è indirettamente proporzionale alla sua bassa statura,
mentre Iommi, sguardo serio, fronte madida di sudore e baffo a spazzola, è la
perfetta via di mezzo fra un pornoattore degli anni ottanta ed un giocatore di
calcio della Roma dei settanta. E, soprattutto, fa cose meravigliose alla
chitarra. Apprezzabile l'esecuzione dei brani (ben quattro) dal buon "Dehumanizer"
(ma quanto sarà bella "Computer God" con Dio che ringhia come
un cinghiale in cattività?). Ma a dare le emozioni più forti sono "Children
of the Sea" (da lacrime) e l'immensa "Heaven and Hell",
scelta come inevitabile chiusura. Un set risicato, se si pensa che
stiamo parlando dei Black Sabbath, ma del resto non furono loro gli headliner,
bensì gli Iron Maiden… Oggi sarebbe impensabile un festival con due headliner
del genere, in quanto si tenderebbe a porli in due serate differenti per
massimizzare i profitti. Dev’essere dunque stata una cosa strana vedere gli
Iron dopo i Sabbath (i cui concerti oggi sono sold-out con mesi di
anticipo), ma forse siamo noi che vediamo con gli occhi disillusi di oggi cose
che invece una volta accadevano veramente.
Gli Irons
erano freschi freschi di "Fear of the Dark", l'ultimo
album con Bruce Dickinson, prima della reunion che sarebbe avvenuta
otto anni dopo. La loro, fra tutte, è l'esibizione che incuriosisce di meno: a
parte la lunga chioma di Dickinson, infatti, non vi sono grandi differenze con
i gig di oggi. Beninteso, questo è un merito degli inglesi, perché negli
anni essi hanno saputo conservare la loro capacità di allestire grandi show.
Anche la scaletta non presenta grandi differenze con le attuali, essendo un
concentrato di classici degli anni ottanta, con qualche
"sopravvissuto" dal presto accantonato "No Prayer for the
Dying" (le comunque apprezzabili "Tailgunner" e
"Bring your Daughter to the "Slaughter") ed un ovvia
attenzione all'ultima fatica discografica, che andava doverosamente promossa.
Se dunque gli spettatori del Monster da un lato si dovettero sorbire brani
inutili come "Be Quick or Be Dead", "From Here to
Eternity" e la melensa ballata "Wasteing Love" (mamma
mia che palle!), dall’altro ebbero la fortuna di poter assistere ad una suggestiva
"Afraid to Shoot Strangers", ma soprattutto il privilegio di poter
assaggiare per la prima volta dal vivo la leggendaria "Fear of the Dark",
destinata a diventare un classico intramontabile.
Concludiamo
le nostre riflessioni con il bollettino di guerra. Non rispondono all’appello
tre grandi nomi qui citati: Diamand Darrel (ucciso a colpi di fucile da
uno squilibrato nel 2008), Ronnie James Dio (morto per un tumore due
anni dopo) e Nick Menza (scomparso di recente per un arresto cardiaco).
Due di essi hanno avuto per lo meno la fortuna di esalare l’ultimo respiro
mentre facevano la cosa che di ogni altra amavano: suonare. Che tutti e tre
siano benedetti nella gloria del metal.