Cosa
può avermi spinto ad assistere ad un concerto degli Epica?
L'idea, anzitutto, di poter
vedere dal vivo Amalia Bruun, in
arte Myrkur, chiamata a supportare
gli olandesi. Poi l'attrazione morbosa che ultimamente l'universo femminile esercita
su di me, e stasera di donne sul palco ne avremo ben tre: Cammie Gilbert degli Oceans
of Slumber, la già citata Amalia
Bruun ed ovviamente la reginetta della serata Simone Simons. Infine, la convinzione comprovata (e ho in mente i Therion, visti lo scorso febbraio) che
un bel concerto di symphonic metal è
sempre un vero toccasana per lo spirito…
Per via della estenuante fila
(condita dal consueto berciare dei buttafuori che si rivolgono a tutta questa brava gente come se fosse un'orda di hooligan), quando entro nell’ampio Kentish Town Forum gli Oceans of Slumber sono già sul palco
che suonano. Lo dico subito: mi aspettavo di più. Già da subito si capisce che
c'è qualcosa che non va: sarà solo una mera questione di suoni (rimbombanti e
non perfettamente equalizzati), ma nel corso del breve set (una mezz'ora circa in cui vengono presentati cinque brani,
tutti dall'ultimo album "The
Banished Heart") il sestetto americano non riesce quasi mai a centrare
il bersaglio.
Chissà, forse mi ero solo
fatto un'idea sbagliata della Gilbert,
che mi ero prefigurato come una specie di Alicia Keys del metal estremo: minuta e forse inibita da una platea così nutrita,
la Nostra, lungi dall'imporsi come la reginetta del “soul” applicato al metal,
non mostrerà un grande carisma, e la sua voce, a tratti incerta, mai riuscirà
ad emozionare, nonostante l’innegabile buona volontà.
Non aiutano gli altri sul
palco, non proprio belli a vedersi e contraddistinti da espressioni facciali
semplicemente inqualificabili. Ma a parte questo, è la musica a non convincere:
il post-metal degli Oceans of
Slumber non mostra infatti, da un punto di vista strumentale, peculiarità degne
di nota, indugiando a tratti in un doom à
la My Dying Bride che suona
inevitabilmente retrò per una proposta che intenderebbe guardare avanti.
Chi invece non ha bisogno di
consigli su come approcciarsi al proprio pubblico è la bella Amalia Bruun, reginetta per davvero, ma
del marketing. La sua presenza è annunciata dall'immancabile agrifoglio sul
microfono e la bandiera dalla Danimarca, per l'occasione disposta verticalmente
a richiamare una croce rovesciata, che non dispiace mai sebbene poco ci
azzecchi con l'immaginario pagano a cui si rifà il progetto Myrkur.
La sua apparizione è preceduta
da feedback e riff al tremolo, situazione introduttiva che alimenta le
aspettative, fino a quando la Nostra si materializza intonando una nenia a
cappella ("The Serpent").
Dopo le incertezze degli Oceans of Slumber vederla muoversi sul palco è uno
spettacolo per gli occhi, non tanto per la bellezza, quanto per la meticolosità
con cui ogni dettaglio della sua performance
viene definito e servito sul piatto, a partire dai tre energumeni incappucciati
a farle da contorno. Sebbene i musicisti che indossano costumi di scena uguali od
abbinati mi abbiano sempre puzzato di roba pianificata a tavolino, il tutto è
perlomeno funzionale a risaltare l'esile figura della bionda cantante: polsino
nero nella sola mano sinistra che, oltre a creare una amabile asimmetria, si
ricollega al nero della lunga veste volta a richiamare l'irrinunciabile flavour
ancestrale, ed al nero di un face-painting
minimale (in realtà una striscia a mo' di mascherina sugli occhi) a metà strada
fra black metal ed alta
moda.
Quanto alla musica, in circa un’oretta
la nostra propone il meglio del suoi due dischi: un repertorio che nel suo
piccolo annovera almeno due o tre classici. Già dall'opener "Ulvinde"
(singolone di lancio dell'ultima fatica rilasciata "Mareridt", con tanto di videoclip) si capisce che la Nostra vorrà principalmente concentrarsi sul cantato
pulito, limitando al minimo la pratica dello screaming, che verrà impiegato in un paio di frangenti. Nell'ulveriana "Onde Born" la Nostra imbraccia persino la chitarra elettrica,
come a voler scacciare l'idea di bella
statuina, mentre in "Maneblot"
(momento top per chi scrive) la bella
danese percuoterà un tamburo chiaramente evocatore del folclore del Nord Europa:
il brano in questione si trasformerà poi in un travolgente tour de force dove blastbeat
persistente e gelidi riff duelleranno
con l'eterea voce, fondendosi in un amalgama impogabile come accade nella migliore tradizione black metal.
"Villemann og Magnhild" è
l'immancabile chiusura a base di sola voce e percussioni.
Nel suo piccolo tutto è stato
al posto giusto, dai movimenti studiati alla voce deliziosamente angelica a
fare da contraltare alla ruvida e dissonante elettricità, passando da una scaletta
perfettamente bilanciata fra momenti duri ed altri più evocativi. Quanto alla
voce c'è da ammettere che essa ha retto più del necessario, tanto che viene il
sospetto che il microfono sia stato taroccato per amplificare qualità vocali
non proprio eccellenti. Per il resto non si può certo dire che la Brauun abbia
carisma da vendere: a tratti è pure sembrata impacciata, o per lo meno non del
tutto calata nella parte, tradendo, a momenti, qualche atteggiamento da
passerella. Ma se anche in più di un frangente si è palesato il dubbio che si
sia trattato di uno show e di un personaggio montati ad arte, poco ci importa,
perché a vincere è stato il black metal: la velocità, l'alone mistico,
la capacità di emozionare che possiede
questo genere anche solo come riproposizione di cliché.
Ma ovviamente fino ad adesso
abbiamo scherzato: tutti qua sono venuti per gli Epica, che si appresteranno ad essere i protagonisti di un evento a
dir poco grandioso (e lo si intuisce già da come viene allestito il palco, con
tanto di pedana sopraelevata per batterista e tastierista).
L'inevitabile introduzione
sinfonica dà il tempo ai musicisti di fare il loro pomposo ingresso, uno alla
volta, dall'acclamatissimo Arian Van
Weesenbeek, che per primo prende posizione dietro alle pelli, fino a lei,
la tanto attesa Simone Simons. La
buona Simone come front-woman
appartiene indubbiamente alla scuola della conterranea Anneke Van Giersbergen: di una bellezza più semplice che
lussuriosa, curata nell'aspetto ed aggraziata nei gesti, la rossa conquista il
pubblico più per i sorrisi e per le capacità vocali (eccelse), che per un
ostentato sex appeal da femme fatale. Anche lei, come le altre
due signore della serata, non brilla per un carisma travolgente (i modi di fare
sembrano quelli della classica brava ragazza laureata in marketing, ed anche il
look sembra confarsi più ad un dress code da party aziendale che a quello di una arena metal), ma le si vuol bene lo stesso. E poi è anche vero che
gli Epica si sono imposti come squadra e per un sound corale in cui ogni componente dà il suo fondamentale
contributo.
La scaletta pesca in modo
omogeneo da tutto il repertorio della band, con un occhio di riguardo per gli
ultimi full-lenght, "The Quantum Enigma" e "The Holographic Principle". Su
questo ultimo aspetto, però, non posso fornire una descrizione esageratamente
dettagliata, visto che non sono un profondo conoscitore del repertorio dei
Nostri e comunque l'alcool in corpo non mi rende certo un falco in grado di
cogliere gran parte delle sfumature (ammesso che ve ne siano in una proposta
così massimalista ed infarcita di orchestrazioni). Posso tuttavia
tranquillizzare i fan degli Epica non
presenti, garantendo loro che stasera sarebbero rimasti pienamente
soddisfatti: sul palco si muovono con sicurezza e disinvoltura veri
professionisti, ed i suoni puliti valorizzano la loro proposta, che tuttavia,
nella mia incompetenza, percepisco come assai omogenea. Per questo mi vedo
costretto a concentrarmi su dettagli secondari, come i sorrisoni dispensati dai membri della band e i loro siparietti.
Vero mattatore della serata si rivelerà il tastierista Coen Janssen, le cui scorribande per la pedana al "primo
piano" saranno a dir poco spettacolari, senza contare le sue incursioni al
"pianoterra" imbracciando una pittoresca tastiera a tracolla (c'è
solo da domandarsi se abbia suonato effettivamente o se sia stata tutta scena,
con le basi preregistrate a parargli il culo).
Più in generale si percepisce
un grande scambio fra band e pubblico, e se anche a tratti mi è parso di trovarmi
in un ritrovo di boyscout, come
faccio io ad elevarmi su un piedistallo e giudicare quelle adorabili ragazze
dai capelli verdi che, con gli occhi lucidi dalle emozioni, cantano i testi a
memoria? "Forever and ever"
è il tormentone che più mi rimane impresso, ma non sarà solo il ritornello dell’hit "Cry for the Moon" a fondere le voci degli spettatori a quella
di Simone.
In particolare i bis
scateneranno il putiferio con una "Beyond
the Matrix" che vede il pubblico intero a saltare e battere le mani
all'unisono. Potrei dire che tutto questo mi suona troppo coreografato per
essere un impeto spontaneo ed improvvisato, e sarei pronto a scommettere che se
andassi a guardare un DVD della band, o qualche video su YouTube, mi imbatterei
nella identica scena, ma - ripeto - chi sono io - vecchio, ubriaco, fan di Burzum e del True Norvegian Black Metal - per giudicare questa gioiosa
espressione di sentimenti positivi?
Non mancherà nemmeno il pogo: ad
un certo punto si aprirà una voragine fra la calca per dare modo ai più
esaltati di spintonarsi in un groviglio umanoide di discrete dimensioni: certo,
di fronte a queste scene puerili Hanneman
si sarà di sicuro rivoltato nella tomba, perché, anche in questo momenti, sulla
violenza e l'odio ha prevalso il sorriso (ed in fondo il tutto si è consumato
nell'arco di trenta secondi…).
Ma chi sono io per giudicare?
Innanzi alla magniloquenza di "Consign
to Oblivion" bisognerebbe solo stare zitti: tutto accade in questo
brano, o meglio, tutto accade in ogni suo minuto. E quando, dopo una assai
lunga assenza, ricompare sul palco Simone per agganciarsi con angelici
vocalizzi e chiudere in bellezza il concerto, capisco che tutto è perfetto così
com’è, che tutto è dove deve essere. E che gli Epica si strameritano il posto
d'onore che hanno in quel metal trasversale che piace a tutti, belli e brutti.
Bravi!
P. S: Se solo per un momento
posso discostarmi da questo coro di consensi, mi permetto di affermare che
questi growl buttati qua e là un po'
da chiunque, ora da un chitarrista, ora dall’altro, poi dal batterista e nel
finale persino dal tastierista, suonano come un oltraggio al metal estremo:
quello vero, dove il growl non era
uno sfizio per inasprire un vassoio di meringhe, ma una responsabilità da
portare avanti con sacrificio. Rendiamo dunque onore (ancora una volta) al
grande Chuck Schuldiner che, sillaba
dopo sillaba, behold dopo beware, nei suoi Death si è sgolato fino all'esaurimento nervoso, tanto che alla
fine si è dovuto concedere, per sfinimento, al metal classico dei Control Denied e cercare un cantante
che lo sostituisse...