"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

2 ott 2023

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: I SHALT BECOME

 



Nona puntata: I Shalt Become - "Wanderings" (1998) 

V'è chi considera "Wanderings" degli I Shalt Become il primo full-lenght di depressive black metal della storia. All'opinione pubblica piacciono queste definizioni trancianti, peccato solo che gli I Shalt Become manco ne fossero consapevoli di essere gli iniziatori di un nuovo genere. E chissà, manco adesso lo sanno. Del resto siamo ancora nel 1998, la dicitura depressive non era ancora di diffuso utilizzo, anzi neppure esisteva, e negli Stati Uniti il black metal stentava ad affermarsi. E' lecito credere che all'epoca l'album sia stato ignorato dai più in quanto prodotto underground di una scena minore, salvo poi essere celebrato successivamente fra formaggi stagionati e pregiate marmellate dai Grandi Intenditori dell'Internet

Originario dell'Illinois come Andrew Lee Harris dei Judas Iscariot (tanto che ci potremmo chiedere che cazzo di problemi c'hanno in Illinois), S. Holliman ha avviato il progetto in gran solitudine, come da migliore tradizione. Registrava nel 1997 la demo "In Withering", per poi dare alle stampe il primo album l'anno successivo: il qui presente "Wanderings". 

Non è stato amore a prima vista con il pubblico del black metal e tutt'oggi si leggono in rete recensioni tiepide nei confronti di "Wanderings". In un contesto di tentativi volti a trovare nuove strade dopo il tramonto della dorata stagione del black metal scandinavo, la proposta un po' derivativa (chi ha detto Burzum?) del buon Holliman ha sicuramente peccato di semplicità e ripetitività agli occhi di un ascoltatore di musica estrema a cavallo dei due millenni. E' innegabile tuttavia che nel lavoro in questione si vadano a portare avanti con forza e determinazione nuclei di idee che solo in seguito sarebbero divenute cliché stilistici di molte band che, del black metal, avrebbero prediletto lo scavo esistenziale. 

Genio o cialtrone? Difficile esprimere una opinione decisa al riguardo, di certo la valutazione rimane estremamente soggettiva. La copertina, inscenante il classico versante montano ricoperto di conifere con i due uccellacci del malaugurio che si stagliano in volo in un pallido cielo grigio, è un ovvio rimando alle ambientazioni care alle formazioni norvegesi. Impressione che non cambia premendo il tasto play del lettore: dopo una introduzione strumentale di un minuto e mezzo (una fosco arpeggio di chitarra) si avventano su di noi ruvide distorsioni dal sapore ambient e la mente non può non andare alla cascata di frastornante elettricità con cui si apriva "Filosofem" di Burzum

L'impronta burzumiana è palese fin dai primi istanti della opener effettiva "Fragments" dove un arpeggio marcissimo viene fagocitato dall'immancabile riff ricorsivo che si ripercuote nel vuoto (una stanca drum-machine si degnerà di partire dopo quasi un altro minuto e mezzo di sfogo elettrico fine a se stesso). Il rantolo filtrato di S. Holliman è un ulteriore rimando al Vikernes del suo ultimo album registrato prima della incarcerazione. Il linguaggio, in definitiva, è in tutto e per tutto burzumiano, estremizzato ulteriormente nelle sue componenti più degradate ed eteree. E certo i suoni lo-fi, ai limiti dell'accettabilità, rincarano la dose.  

I brani sono brevi, in media si muovono fra i tre e i quattro minuti, con la sola eccezione dei quasi sette di "Winter Lights", in cui tuttavia non accade niente di rilevante. Raramente si contemplano accelerazioni e a tal riguardo è opportuno segnalare l'eccezione costituita dalla velocissima "Labyrinthine", a parere di chi scrive il momento più intenso del platter: le due linee di chitarra si accavallano in struggenti intrecci mentre drum-machine e voce vengono risucchiate dal fragore delle distorsioni. Il valore aggiunto delle undici tracce che compongono il tomo (tutte molto simili fra loro) è l'armonizzazione di più linee melodiche che si dispongo a strati in un contesto di rarefazione sonora, con esiti che in certi casi non sono troppo distanti da soluzioni che qualche anno più tardi descriveremo con il neologismo blackgaze

L'intransigenza della proposta è tuttavia croce e delizia dell'intera operazione: indiscutibile, da un lato, è il fascino trasudato da questi sofferti "vagabondaggi" sonori che descrivono, con tratto espressionista, affranti paesaggi dell'anima. D'altro canto non si può non percepire una certa fatica nel portare a termine l'ascolto, tanto più che la durata dell'album è decisamente contenuta (solo 38 minuti di afflizione sonora). L'eccessivo minimalismo e l'impiego delle stesse soluzioni stilistiche (arpeggio elettrificato + riffing ossessivo + tempi cadenzati + voce impalpabile) costituiscono forse il limite più evidente di questo lavoro, ma del resto la monotonia è parte integrante di una visione artistica di tal fattispecie. 

I testi, infine, sono criptici, poetici e pur non riguardando direttamente i temi tipici del DBM, costituiscono un valido complemento alle atmosfere lugubri del disco, muovendosi sul piano della pura astrazione e dell'interiorità (del resto un monicker come I Shalt Become - Diventerò - è eloquente nell'anticipare la vocazione spirituale della visione artistica professata). Non che i testi facciano la differenza: al di là che sono incomprensibili ad orecchio umano, sono anche molto brevi, a volte compaiono solo alla fine del brano lasciando ampi spazi alla musica, rendendo di fatto le tracce più vicine a dei bozzetti strumentali che a delle composizioni strutturate. 

Come detto in apertura, la musica degli I Shalt Become finisce per suonare depressive senza esserlo in modo consapevole. Del resto l'artista in questione non si è mai proclamato facente parte del movimento, né allora né poi: vi sarà uno iato di dieci anni fra il primo e il secondo album e da un certo punto in poi Holliman sembrerà volersi allontanare dalle sonorità minimali dell'esordio, indirizzandosi verso i lidi di un symphonic black metal fondato sulle tastiere. A partire da "Poison" del 2010 il progetto diverrà un duo, annettendo in organico un batterista in carne ed ossa: aspetto, questo, che getterà un'ulteriore distanza rispetto  ai confini con il DBM. 

Dunque genio o cialtrone? Se devo essere sincero, un leggero fastidio uditivo e qualche sbadiglio hanno sempre accompagnato l'ascolto di questo album. Vi ho ricercato i germi del genio ma vi ho sistematicamente trovato l'intransigenza di un personaggio nella media che ha saputo confezionare un lavoro dall'indubbio fascino e dalla innegabile coerenza stilistica. Non nego che per entrare nel giusto mood mi sono il più delle volte fatto aiutare dalla penombra, dalle sigarette (quando ancora fumavo) e da qualche bicchiere di vino. 

Ah, quanta nostalgia per quelle mie mie serate misantropiche da scapolo di mezza età...