"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

23 set 2018

VIAGGIO NEL METAL ASIATICO: IL PRISMA METALLICO DELLA BIRMANIA



Myanmar. La scena metal è nella vecchia capitale, Yangoon. Neanche tutta, perché il gruppo principale che esamineremo alla fine si è trasferito in Australia. E' la prima volta che Metal-Archives toppa e fornisce uno spaccato né esaustivo né rappresentativo della scena metal birmana. Ci sono altri archivi che suppliscono, ma di solito il rapporto è inverso: Metal-Archives fonte principale, altri archivi ad integrare con qualche gruppo minore. Per la Birmania il gioco si fa duro.

Prima di tutto rifacciamoci la bocca con un po' di brutal, che serve come uno spazzolino per riportare il palato musicale al punto di partenza. Brutalità e asetticità fanno l'effetto di un gargarismo con bicarbonato

I Self-Butchered (grandissimo nome) hanno diversi brani all'attivo, ma soprattutto propongono “intestini ripieni di parassiti” che tutti voi riconoscerete subito come cover degli Abominable Putridity, moscoviti. E sento anche echi di Vietnam, con una linea vocale “uiiii” “uiii” “iiiiii” che ho già recensito

I Deiwa Dehiti provano a fare canzoni col brutal e quasi ci riescono. Hanno il vizio degli indocinesi (non sappiamo ancora se tale vizio sia esteso all'intera Asia): si compiacciono di coverizzare altri gruppi e propongono queste cover come materiale del proprio repertorio. Da questo difetto però nasce una chicca e cioè la riproposizione di "Angel of Death", resa convincente in versione brutal, sebbene in questa veste divenga inoffensiva, sempre per la questione umanità/disumanità. Un Araya che narra di atrocità ammiccando all'ascoltatore, per esempio, è disturbante; una voce brutal anonima avvolta nel suo bozzolo sonoro, invece, è sicuramente schifosa, ma non pone una questione morale: è espressione impersonale di uno stato della materia e non di un moto dell'anima.
Per chi volesse fare una scorpacciata di brutal birmano, segnalo anche Genocide, FoneDireKore, Senanga Privuta, Pazaw Thwi, Resurrection ov Ortho

Gli Asura Land ispirano il loro nome ad una figura mitologica del buddismo: un mostro gigante dalle diverse facce. Per prestar fede al loro nome, i Nostri vagano da un genere all'altro. Se doveste incontrarli (nel frattempo si sono trasferiti a Bangkok), non fate gaffe: loro credono di suonare black metal, come dichiarano nel profilo Facebook (ma già in questa circostanza si confondono citando come principali fonti d'ispirazioni Dying Fetus e Cattle Decapitation). Ogni tanto in effetti c'è del black metal (più depressive che altro), ma l'effetto è come se riproducessero l'ultimo album degli Immortal per mezzo degli altoparlanti di un villaggio turistico a Ferragosto: c'è qualcosa di troppo vivace, di sinceramente solare, di leggero nel black soggettivo di questi Asura Land. Non saprei dire se si tratta della consueta confusione dei generi o di una vera e propria vocazione (propenderei per la seconda). 

Anche gli Athurakel, per esempio, fanno sostanzialmente un blackened death, ma si sente che vogliono dialogare ed è proprio l'interattività che segna un limite tra il metal umano (in cui si comunicano emozioni) e quello disumano (in cui si affermano emozioni). Il black propriamente detto rientra in quest'ultima categoria, al di là di ogni diatriba tra burzumiani e euronymousiani in merito a cosa sia la disumanità o a chi sia più dotato in disumanità. 

Per non parlare dei Jeksetra, che dopo un paio di brani votati al black (ma abbastanza minimali), scoprono le carte con “Independence from the Nanzhao Empire”: un brano decisamente più fantasioso e articolato, posto decisamente dall'altra parte della barricata dell'umano. Ed è in questa incertezza che prendono forma dei generi ibridi, tipo il blackened brutal dei Pazaw Thwi con “Suicidio sotto il ciliegio” che finisce per somigliare al modulo del melodic death metal. In particolare ricordano i Dark Tranquillity spartani, quelli di "The Mind's I". E non è incapacità, perché, credetemi, i birmani sanno suonare il black metal se ci si mettono d'impegno. Per dire, il vocalist dei già citati Athurakel si concentra seriamente:  sceglie un altro nome (Ooo Zaw), indossa una felpa nera con cappuccio dei Carpathian Forest, intitola il pezzo “Interiorism” ed in effetti viene fuori per davvero del black metal (ma così siamo buoni tutti…). 

Sempre sul death melodico abbiamo i Last Days of Beethoven, dal cui monicker si capisce finalmente che il birmano sguazza nella dimensione umana e comunicativa. Ma cosa faceva Beethoven negli ultimi giorni? A quanto risulta beveva e la sua cirrosi procedeva verso l'ultimo stadio. Sarà questa una metafora dell'emozione sfigurata del death metal melodico? Melodia e strazio, rabbia e struggimento? Alla fine però tutto ciò fa l'effetto del barbone alla stazione: blatera delle cose a tratti incomprensibili, in genere ostili, magari salta fuori qualche frase a effetto, o la bestemmia di rito, però dopo qualche minuto di ascolto attento e incantato, ti defili pensando: “Vabbè, uno sproloquio senza capo né coda!”. 

Ecco: l'efficacia nel death metal, che hanno per esempio i Morbid Angel, è il darti l'idea che, oltre a grugnire, lo stiano facendo a partire da un'inizio e verso una fine, con un senso compiuto (e non è vero ovviamente). Qui invece c'è molto effetto imbuto: all'inizio un grande turbinio, ma poi le spire si restringono e si va a finire sempre nello stesso punto, ossia un “non-punto” inconcludente. La brevità dei brani aiuta, ma non risolve questa illusione del brutal, che non basta a se stesso, ma richiede degli elementi caratterizzanti. 

Ci si può disintossicare rimanendo sul posto con gli Architects of Misery, che propongono dei pregevoli brani di thrash metal, in cui scelgono di non mettere la voce. Interlocutoria come soluzione, ma probabilmente saggia, dato che il growl come ingrediente va bene su tutto, ma a un certo punto ammazza i sapori, che qui invece si apprezzano (ditelo agli Hellbreeze, che sono validi, ma mettono il growl come fosse prezzemolo...). 

Veniamo invece alla vera sorpresa del lotto: i Weizador. Questo gruppo, presentato erroneamente come “black metal atmosferico”, è un gruppo sostanzialmente di metal classico, a tratti doom, a tratti più furioso, che utilizza più timbri vocali. Possono ricordare i My Dying Bride o gruppi di death melodico e, se si fa lo sforzo di immaginare una voce sempre pulita, persino gruppi di metal classico. Le linee vocali non sono asservite al resto, ma si sviluppano secondo una propria iniziativa ed è questo il coraggio che paga di più. Invitiamo a confrontare le due versioni disponibili in rete di “Blood Legend”, una più spontanea, l'altra più elaborata e filtrata. Ebbene: è la prima versione che colpisce, una vera e propria canzone in cui le inflessioni orientali si riconoscono, l'orchestra metal c'è tutta, ma le chitarre sono in primo piano e la voce racconta qualcosa (in poche parole: epic metal). La seconda versione è apprezzabile e altrettanto riconoscibile, ma più uniformata alle sonorità attese per un brano a cavallo tra il death metal e il doom. 

Cambiando alcuni fattori si capisce quindi come si possa in Birmania saltellare tra i generi in maniera naturale. Lo fanno gli Weizador con versioni dello stesso brano, lo fanno i Deiwa Dehiti che suonano in chiave brutal "Angel of Death", emblema del thrash metal “muscolare”.

L'unità del metal quindi esiste, e la ricerca di identità di questi gruppi orientali, che agisce sulla radice comune come un prisma modifica il colore alla stessa luce, lo conferma. 

A cura del Dottore