"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

8 mar 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: FUNERAL

 


Quarta puntata: Funeral - “Tragedies” (1995) 

I norvegesi Funeral, almeno per quanto riguarda il loro splendido esordio “Tragedies”, sono comunemente annoverati fra le file del funeral doom, ma a mio parere questo avviene con una certa forzatura, in quanto la loro proposta per molti aspetti risulterebbe più vicina all’universo del gothic/doom così come era stato sdoganato in quegli anni da Paradise Lost e My Dying Bride. Ma rispetto ad altri alfieri del gothic doom di metà anni novanta, era evidente nella musica dei Funeral una propensione alla scrittura di brani molto lunghi ed una spiccata inclinazione per la lentezza esasperata: aspetti che in effetti avvicinano la band alla dimensione del funeral doom. 

Posizionati a metà strada fra i due mondi, alla fine decidiamo di includerli nella nostra trattazione; del resto, come non contemplare in una rassegna dedicata al funeral doom una band che ha scelto di chiamarsi proprio Funeral? 

Concediamoci dunque una parantesi di fresca beltà prima di ritornare negli abissi atroci del funeral doom più autentico. Non che qui ci sia molto da ridere, del resto un titolo come “Tragedies” è eloquente: gli umori sono pervasi da una indomita malinconia e la lunghezza dei brani non fa che indugiare in modo innaturale su quelle stessa malinconia, restituendo una sensazione di consolazione impossibile

Il binomio voce femminile-voce maschile (quella da usignolo di Toril Snyen e il growl corrosivo del bassista Einar Andre Fredriksen) farebbe subito pensare ai conterranei Theatre of Tragedy, che peraltro esordivano nel medesimo anno. Ma i Theatre of Tragedy erano autori di una proposta molto diversa, giocata soprattutto sulla contrapposizione fra growl e voce femminile (la famigerata formula “Beauty and the beast"). I Funeral, per i toni intimistici, sembravano invece più vicini ad un’altra realtà norvegese gravitante nell’empireo del doom del periodo: i Third and the Mortal

Lo stesso canto dimesso di Toril Snyen, distante anni luce dalla pomposità operistica della prima Liv Kristine Espenæs, era permeato di un umore arcano, folkish se vogliamo, che avvicinava la cantante alle delicatezze sonore della mitica Kari Rueslåtten. Certo, se i Third and the Mortal si portavano fuori dal carrozzone del death-doom, prediligendo una lettura del doom in direzione ambient-psichedelica, i Funeral su quel carrozzone presenziavano con grande fermezza, guardando al lato più affossante dei divini My Dying Bride

La splendida introduzione acustica dell'imponente brano d’apertura “Taarene”(oltre i dodici minuti) è un raggio di sole invernale, perfetto preludio alla possanza elettrica che la band mostrerà per tutta la durata dell’opera: chitarre massicce, talvolta intrecciate in melodie lacrimevoli, illuminano un cammino denso di pesantezza, ma privo di noia. La Snyen conduce le danze e il suo canto (solo in questa prima traccia in lingua madre – il norvegese) è di estrema suggestione: un canto etereo che rifugge ogni forma di auto-compiacenza e che affonda le radici nelle dense nebbie del folclore nordico. Dovremo aspettare tre minuti e mezzo per udire il latrato infernale di Einar Andre Fredriksen: sporadici saranno gli interventi al microfono del bassista, ma significativi e bastanti a ricondurre la proposta del quintetto nell’alveo del metal estremo.

In questo primo brano l’avvento del growl coincide con un ulteriore rallentamento, escamotage usato di frequente per imprimere ulteriore pesantezza alle composizioni, come anche l’utilizzo di riff spezzati che, come violente zappate, contribuiscono a rendere ancora più spossante e claudicante il cammino del pachiderma sonoro edificato dai cinque musicisti. 

La batteria di Anders Eek è efficacissima in questo: lenta, lentissima nell’incedere, ma prodiga di lunghe rullate e battute fuori posto, come del resto insegnava in quegli anni Rick Miah, indimenticato primo batterista della Sposa Morente. Il suono dei Funeral è solenne ma ruvido, non sconfina mai nel sinfonico, semmai preferisce rifugiarsi nella dimensione acustica: svariati gli inserti di chitarra classica, per i quali si è persino ricorsi ad un musicista ospite, tale Steffen Lundemo. I chitarristi titolari, Thomas Angell e Christian Loos, preferiranno invece consacrarsi alla causa elettrica, prodigandosi anche in veri assoli, cosa rara nel genere. 

C’è posto per molte cose nello spazioso palcoscenico di questi cinque brani pantagruelici (quasi un’ora la durata complessiva del platter). A ricondurre i Nostri alla dimensione più propriamente funeral doom è proprio questa assenza di fretta, quell’evolversi lento e per sfumature che sembra dare la giusta collocazione ad ogni elemento. 

Descrivere i singoli pezzi diviene inutile nella misura in cui essi si muovono lungo le medesime coordinate, ma con variazioni che tengono desta l’attenzione dell’ascoltatore. E' tuttavia doveroso citare, in questa circostanza, la greve lentezza di “When Nightfall Claps” (altri quattordici minuti di supplizio sonoro) dove effettivamente si registra una volontà di porsi su un fronte avanzato di esplorazione dell'Estremo rispetto alla direzione che stavano prendendo le altre band gothic metal del periodo, attratte dalle sirene di un più orecchiabile gothic-rock (fine che faranno di lì a breve anche i colleghi Theatre of Tragedy). 

E come tacere della bellezza della conclusiva “Moment in Black”, interamente lasciata alle grazie canore della Snyen? Il brano, che si dipana faticosamente per quasi dieci minuti, è un lento requiem in cui la pesantezza delle chitarre continua a dominare, prima accompagnate da funesti rintocchi di campana a morto e poi impreziosite dai volteggi di un violino, scelta stilistica che ovviamente fa venire in mente ancora una volta i sommi My Dying Bride. Ma credetemi, le analogie finiscono qui, perché la band sfoggia personalità e grande ispirazione. 

I Funeral rimangono degli outsider, con un bel debutto e poco altro di particolarmente signficativo. La storia del gothic metal non passa di certo da loro, ma sarebbe davvero un peccato fare a meno di questo “Tragedies”, da collocare senza se e senza ma fra i più brillanti lasciti di quell’universo in espansione che era il gothic metal ai suoi albori. 
 
Il cammino del Funeral, dopo questo folgorante debutto, avrebbe immediatamente virato verso un gothic metal più da manuale, con poca fortuna commerciale e con release discografiche centellinate nel tempo e funestate da frequenti stravolgimenti di line-up. Ma anche quando tutto poteva sembrare perduto (nel 2003, ahimè, si sarebbe registrato il decesso di ben due membri - prima Fredriksen e poi, a stretto giro, sarebbe stato il turno di Loos), la band avrebbe trovato la forza per proseguire fino ai giorni nostri con il solo Eek a rappresentare la formazione originaria. 

Ammesso che almeno in “Tragedies” i Funeral possano essere definiti funeral doom, di questo filone essi rappresentano indubbiamente il lato più gentile. Se avete ancora incertezze su quale deve essere la colonna sonora per il vostro funerale, bene, con “Tragedies” potete andare sul sicuro...