"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

29 nov 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: EYE OF SOLITUDE

 


Trentesima puntata: Eye of Solitude - "Canto III" (2013) 

Agli Eye of Solitude piace vincere facile: copertina pittoresca, concept sulla Divina Commedia, funeral doom potente, melodico, schietto; i My Dying Bride come stella polare. 
 
Siamo nel 2013, del resto, quando oramai il funeral doom era già stato mangiato, digerito e defecato da molti. I Nostri poggiano indubbiamente sulle spalle dei giganti che il genere lo hanno creato, sviluppato e perfezionato, ma il pregio di “Canto III” è uno e fondamentale, ossia quello di essere un ottimo album. Gli Eye of Solitude, in fondo, non sono neanche dei nani, in quanto capeggiati da Daniel Neagoe che è indubbiamente un profilo di alta levatura nei ranghi del genere. 
 
Daniel Neagoe è infatti un nome che ritroviamo spesso nell'ambito del funeral doom degli ultimi dieci anni: in molti (mi immagino quanti...) lo avranno notato fra le fila dei più celebri Clouds, all-stars band che nella sua storia ha incluso, giusto per fare i nomi più noti, anche membri di Shape of Depair e Pantheist, band in cui lo stesso Neagoe ha militato per certi periodi in qualità di batterista, oltre che in una miriade di altre formazioni che è impossibile citare senza dilungarsi troppo. 
 
Un personaggio estremamente attivo e prolifico a livello discografico: in questo mare di collaborazioni, gli Eye of Solitude sono la sua band ufficiale. Il progetto nasceva nel 2010 come one-man band, dove il Nostro si faceva carico di tutti gli strumenti. Nel 2013, solo tre anni dopo e già tagliato il traguardo del terzo full-lenght, non siamo più in Romania (paese di origine di Neagoe), ma a Londra, e riscopriamo gli Eye of Solitude come una band vera e propria, con ben sei elementi in organico. Neagoe, ancora leader indiscusso ed incaricato della scrittura di musica e testi, si posiziona dietro al microfono, concedendosi in questa release il lusso di ricoprire il ruolo di vocalist a tempo pieno. 
 
“Canto III” è il suo capolavoro personale: niente di particolarmente innovativo od originale, si diceva in apertura, ma tutto molto ispirato e ben realizzato. L’adesione ai cliché del genere è ferma e decisa, a partire dai classici sessantasei minuti di durata del platter divisi in sei lunghe tracce che vanno dai quasi quattordici minuti della superba openerAct I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)” ai quasi nove della conclusiva “Act VI: In the Desert Vast”. 
 
La band si inserisce nel filone "melodico" del funeral doom, insieme a realtà come Shape of Despair e Pantheist, dove appunto Neagoe aveva prestato servizio, sviluppatori di una visione artistica che muoveva dalle prelibatezze gotiche dei My Dying Bride. Più che una influenza diretta, Aaron Stainthorpe e soci offrono una chiara direzione a Neagoe, il quale opta per un sound tanto magniloquente quanto romantico, come professato dalla Sposa Morente nelle sue vesti più arcigne (penso ad un “The Dreadful Hours”). 
 
Ovviamente il tutto viene amplificato, esteso ed estremizzato secondo le esigenze del funeral doom: abbiamo chitarre rocciose ed avvolgenti tappeti di tastiere, abbiamo immancabili pause di chitarra arpeggiata o, in maggior misura, di pianoforte. E abbiamo anche un canto “bipolare” che passa dal growl più cruento ad un sentito recitato, e persino momenti in italiano (state tranquilli che non si scappa dall’immancabile “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”). 
 
Se tuttavia c’è una cosa in cui gli Eye of Solitude si distinguono dagli altri è il fatto che non temono di premere il piedino sull'acceleratore. Nel loro suono, infatti, la componente death metal è molto pronunciata e guadagna ampi spazi nelle composizioni, le quali, in genere, ad un certo punto esplodono ed iniziano a correre all’impazzata, con mitragliate di doppia-cassa anche troppo invadenti. Il growl da "marmitta truccata" di Neagoe ben si sposa a queste accelerazioni, offrendo una interpretazione quasi brutal (anzi, togliamo pure il quasi). Ma attenzione, il modus operandi è quello tipico di chi suona funeral doom: il death metal rimane un elemento funzionale nell’inasprimento di determinati passaggi, ma la sua integrazione con il resto avviene fluidamente, senza strappi né in modo cinicamente calcolato per far sprofondare l’ascoltatore ulteriormente nell’abisso (come accade per esempio con i disturbanti Evoken). Anzi, questi momenti sono quasi da salutare con liberazione, offrendo un utile diversivo entro l'economia del suono complessivo. I musicisti, del resto, dispongono di un discreto bagaglio tecnico, allestendo con precisione e perizia architetture sonore assai articolate e con svariati cambi di ambientazione (troveremo persino degli assoli di chitarra, merce tutto sommato rara da queste parti). 
 
Tali sforzi, e compositivi ed esecutivi, sono finalizzati a supportare l‘ambizione, non da poco, di mettere in musica l’Inferno Dantesco. Se la Divina Commedia è un’opera complessa e dai molteplici livelli di lettura, nel caso degli Eye of Solitude la sua trattazione non poteva che essere modellata intorno ai moduli espressivi del funeral doom, quindi privando l’opera di Dante Alighieri del suo carattere più pirotecnico, se mi passate l'espressione. L’Inferno per gli Eye of Solitude non è un luogo caotico, frastornante, claustrofobico, e non è una dimensione polifonica, non rispecchia una narrazione che straripa di allegorie, di immagini, di parole. Gli Eye of Solitude procedono con ordine, fermezza, rigore, cosa che da un lato toglie fascino alla messa in scena, appiattendola, ma che al tempo stesso assicura un ascolto alquanto scorrevole (sempre se ci scordiamo che si sta parlando di funeral doom): il sound offre così una discreta palette di colori, rendendo la narrazione mai eccessivamente prolissa o monotona e giocando la partita sull’alternanza fra pieni e vuoti. 
 
Suoni caldi e potenti sorreggono intrecci fantasiosi di chitarra, che oscillano fra riff imponenti e linee melodiche che richiamano i primi Katatonia o anche certe cose del black. I provvidenziali break atmosferici, centellinati con una certa regolarità, incoraggiano all'ascolto partecipe e mettono in evidenza le buone capacità vocali di Neagoe, sorta di Akerfledt degli Inferi. Solo raramente si rasenta la pacchianeria, con qualche singulto proveniente dall’oscurità o screaming disperati che dovrebbero provenire da corpi divorati dalle fiamme. Fra i molti momenti memorabili, si segnala la lunga escursione pianistica di “Act II: Where the Descent Began”, una reale discesa negli abissi attraverso il rintocco sconsolato dei tasti d’avorio, lo struggente volteggiare di un violino e il sentito contributo dietro al microfono da parte dell’ospite Anton Rosa: un capolavoro nel capolavoro che davvero immerge l’ascoltatore in una dimensione oscura e desolante fatta di solitudine, supplizi indicibili e sofferenza eterna. 
 
Il cono del riflettore si restringe sul piano del dolore, visione pessimistica che potrebbe essere estesa, secondo l’ottica della band, al senso della vita stessa, della stessa esistenza umana, e non solo circoscritto alla pena da scontare una volta che si è morti. Come la bellissima copertina dell’album, ritraente un Caronte che lotta contro le onde dello Stige, forse un po’ scontata ma di indiscutibile impatto, così la musica degli Eye of Solitude offre ottime intuizioni melodiche baciate da una produzione impeccabile: un’altra sfumatura/non sfumatura dell’ottenebrante universo del funeral doom...

P.S. Chi ci ha seguito con attenzione sa che è stata nostra abitudine completare ogni sezione (di dieci titoli) con un lavoro più approcciabile degli altri. "Canto III" risponde a questa esigenza, e con esso vogliamo dare un ultimo zuccherino a tutti coloro che non si sentono proprio a loro agio nei panni dei cultori del funeral più duro e puro. Ma sarà solo la questione di sessantasei minuti (la durata dell'album) perché non paghi di averne viste di tutti i colori (ma soprattutto fra il grigio e il nero!), adesso intendiamo gettarci nel baratro di una appendice di degrado assoluto dove il funeral supera letteralmente se stesso. Al dolore, del resto, non v'è scampo....

Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate...

To be continued...