"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

7 set 2023

PENSIERI A CAZZO SUI CHAT PILE ED ALTRO (SEDICENTE LIVE REPORT)


- Amore, io vado...

- Dove vai? 

- Ad un concerto dei Chat Pile... 

- Ah, e chi sono? Cosa suonano? 

- Ehm, non so, fanno casino...

Queste le mie parole di congedo quando lunedì 14 agosto sono uscito di casa per recarmi al (The) Dome. E così, mentre magari voi ve ne stavate ancora in spiaggia a sorseggiare del mojito, io me ne andavo a vedere i Chat Pile, non proprio la stessa cosa.... 

Questo è anche stato l'unico appuntamento live di questa mia eretica estate concertistica. Eretica perché in una estate in cui si ha avuto il "Ritorno degli Dei", voglio dire, Pantera ed Iron Maiden a calcare nuovamente i palchi di mezzo mondo, la mia dimensione concertistica è iniziata e si è conclusa in un piccolo locale al cospetto di una band poco più che emergente e nemmeno metal in senso stretto. Ma del resto, più che eretica, questa non è stata manco un'estate, tenendo conto del tempo di merda che si è abbattuto su Londra quest'anno. Ecco dunque il resoconto di una serata musicalmente "strana" che, volendo, potremmo ancora definire metal, visto che ad aprire le danze abbiamo trovato un gruppo black, gli inglesi Dawn Ray'd, e niente meno che il mitico Iggor Cavalera con il suo nuovo progetto electro-noise Petbrick

La prendo larga perché a questo giro non ho molto da dire. Dopo anni di concerti a Londra, recandomi al locale che ospita l'evento, ho perso l'abitudine di dire "ah, anche quel tizio sta andando al mio stesso concerto" (come quella volta per esempio in cui tutti quelli pelati con la barba ed una felpa con il cappuccio che avvistavo per la via pensavo venissero al concerto dei Neurosis). Ma poi la dura legge della grande città mi ha presto insegnato che la città è appunto grande, la gente è tanta e che figurati se tutti i tipi strani che incontri per la strada devono per forza andare dove stai andando anche tu. Eppure questa volta ho avuto la netta percezione che quella ragazza mezza svampita, barcollante, dai capelli corti ossigenati e il pearcing sul viso incontrata in ascensore in metropolitana andasse a vedere i Chat Pile. Ne ho avuto quasi la certezza quando ha tirato giù un sorso dalla sua borraccetta e di ritorno sono stato investito da una fiatella ad alta gradazione alcolica. Ed infatti così è stato: quella ragazza me la sarei ritrovata al Dome a ben anticipare/rappresentare gli umori della serata, nonché a nutrire la quota ultra-minoritaria delle ragazze presenti all'evento...

Non ci crederete, ma ci sono meno ragazze qui stasera che in una serata con i Running Wild, cosa che lì per lì mi ha un po' lasciato stranito: non doveva essere una serata frizzante a base di sonorità ggiovani e cool? Di cool, in verità, ci sarà ben poco stasera, a partire dalla gente, tutta brava gente, ma dall'estrazione più varia:  l'immancabile nerd dagli occhiali spessi e la felpa gialla con il cappuccio; il rocker anni settanta con il giacchetto jeans, i folti favoriti, i capelli lunghi e la pelata; il blackster nordico dalle profonde orbite oculari e lo sguardo vacuo; la ragazzina naif con le scarpine da bambola, le calze a righe, la mantella, grandi occhiali e la cuffietta; lo smilzo personaggio hardcore con cappellino a visiera e T-shirt dei Converge; la tizia cyber-punk futurista sfrangiata mezza svestita, ed eccetera eccetera eccetera, potremmo andare avanti all'infinito - no target at all!

Faccio il mio ingresso nel locale mentre i Dawn Ray'd stanno ancora suonando. I Dawn Ray'd sono una giovane band di Liverpool formatasi nel 2015 ma già con tre album alle spalle. Dichiaratamente anarchici ed anti-fascisti, mi piace vederli come i Modena City Ramblers del black metal (sebbene la maglietta di "Nattens Madrigal" del chitarrista faccia ben sperare). Il trio (composto da un cantante violinista, un chitarrista ed un batterista - almeno hanno capito che il basso nel black metal è inutile!) è autore di un folk/black assai movimentanto e ben eseguito che tuttavia non mi entusiasma. Per quello che ci posso capire di black metal mi pare che accadano troppe cose: velocità variabile, atmosfere epiche, pause con violino dolente, cavalcate con violino saltellante, passaggi di chitarra arpeggiata, voce pulita processata in loop e poi doppiata dallo stesso cantante con lo screaming, e tanto altro. 

Devo dire, più in generale, che questi gruppi black metal di terra d'Albione non mi prendono per nulla e in questi anni me li sono spesso sorbiti come supporter nelle circostanze più disparate, sono ovunque come il prezzemolo, ma boh, credo che semplicemente black metal e UK non vadano molto d'accordo. Ancora più in generale, mi vien da dire che il black metal dal vivo non rende se non viene accompagnato da certi accorgimenti. Mi spiego meglio: il black metal non è (solo) impatto sonoro, è (anche) atmosfera. Ha faticato il black metal ad imporsi sulle assi di un palcoscenico, essendo inizialmente percepito con diffidenza da chi era abituato al sound massiccio ed impeccabile delle band death metal: gente seria dal collo enorme, piegata sugli strumenti, in jeans e maglietta dei Morbid Angel

Il black metal, fra gente pitturata e chitarre zanzarose, non convinceva, ma con il tempo ha saputo anch'esso guadagnare credibilità grazie a due fattori. Uno: l'avanzamento della tecnologia e la bravura di chi siede dietro al mixer, capace di riprodurre in un locale quei suoni irrimediabilmente da cantina. Due: tutta una serie di espedienti scenici come le tempestive zaffate di fumo, luci piazzate al punto giusto ed ovviamente le qualità "intrattenitrici" dei frontman nel reggere la parte dell'inguaribile misantropo (nel black metal meno dici meglio fai). I Nostri amici Dawn Ray'd, privati di tutti questi elementi, nonostante una buona tecnica esecutiva ed una proposta abbastanza originale, hanno dimostrato come è il black metal nudo. Più mettici l'inesperienza, il poco carisma, alla fine della fiera non mi hanno convinto per niente. Penso anche allo sproloquio finale del cantante che, "dall'alto dei suoi trent'anni", ha voluto per forza dispensare a tutti noi profondissimi consigli di vita. Vabbè, per quello che me ne può importare, non ero lì per loro....

Il nome successivo in agenda è Petbrick. I Nostri sono un duo composto da Wayne Adams (Big Lad, Death Pedals, Johnny Broke - per chi fosse interessato ad approfondire il personaggio) e Iggor Cavalera, che certo non ha bisogno di presentazioni. Il sound-check è approssimativo, con un Iggor svogliato che assesta un paio di colpi al suo kit di pentole ed Adams (un ragazzino con maglia gialla e tuta rossa dell'Adidas) che sorseggia una birra e chiacchiera allegramente a bordo palco con un altro tizio. La situazione mi indispone perché il tutto appare come la classica operazione della serie ottengo il massimo con il minimo, tanto si fa casino e quel che viene viene.

Ebbene, tutto il mio disappunto si smaterializza appena Iggor tocca il suo strumento. La prospettiva cambia totalmente e di colpo mi ritrovo a pendere letteralmente dalle sue bacchette. L'ex batterista dei Sepultura picchia duro, ma picchia tanto, sfonda letteralmente i tom. Il primo pezzo è una sorta di introduzione, si muove su un apocalittico quattro quarti, ma non si perde tempo e già con il secondo brano si inizia a correrre con un up-tempo ostinato che sa coniugare la furia hardcore, la determinazione del death metal e la freddezza della musica industriale. Il Nostro agita la testa a tempo, ora guarda a destra ora a sinistra e sembra letteralmente in trance. Mi piace questo "tocco" brutale da vecchia scuola: del resto, se questa gente ha fatto la storia del metal estremo, un motivo ci deve essere. 

Iggor opera dunque nelle sue consuete tre o quattro modalità espressive: quattro quarti, up-tempo, blast-beat ed ovviamente le immancabili escursioni tribali (un paio in tutto), convincendo sempre, dimostrando un equilibrio esecutivo ed un gusto ritmico che rende giustizia alla sua fama. Siamo ormai abituati a celebrare i soliti Dave Lombardo, Pete Sandoval, Gene Hoglan, gente che, pur in un contesto di violenza, ha saputo compiere un percorso di ricerca, creare un linguaggio, forgiare nuovi stilemi che sarebbero divenuti standard. Non ci dobbiamo tuttavia dimenticare che la storia della musica estrema è passata anche attraverso le braccia di artigiani come Iggor Cavalera che, fra istinto e volontà di migliorarsi album dopo album, avrebbero supportato in modo credibile lo sviluppo del metal estremo in quel laboratorio prodigioso che si ha avuto fra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta.

Potremmo anche tacciare di pressappochismo il Nostro che suona in un progetto electro-noise-industrial, come se suonare in un gruppo death o thrash o punk o hardcore o di elettronica spinta sia la stessa identica cosa, tanto l'importante è pestare. Oppure potremmo riconoscere la coerenza e la genuinità, la solidità artistica di un musicista che aveva questo nel sangue, la brutalità, e che niente altro poteva e può tutt'ora fare. E' Iggor il senso di questo progetto, con il suo collo taurino, gli occhiali che all'occorrenza inforca per scrutare in un monitor dalle misteriose funzionalità, con le sue braccia possenti che colpiscono duramente la pelle dei tamburi, perfetto nel dare consistenza alle visioni/manipolazioni sonore del compare in consolle.

Insomma, l'antipasto si è rivelato ben più gustoso del previsto, ma adesso passiamo al piatto forte della serata: i Chat Pile. Dei Chat Pile, in teoria, non posso che parlar bene: il loro "God's Country" si è rivelato a conti fatti una dei dischi rivelazione dell'anno scorso, costituendo una miscela tanto esplosiva quanto originale di noise-rock, post-punk e delirante sludge. Quanto i Nostri siano e facciano metal non ci importa, sebbene il logo in stile black metal voglia in qualche maniera (anche ironicamente) strizzare l'occhio ad un pubblico di settore. Sul palco, invece, i Nostri sembrano quattro ragazzotti appena usciti da un centro sociale, casual nel look quanto nell'atteggiamento. 

Si materializzano sul palco e manco ce ne rendiamo conto. Ad un certo punto l'attenzione ricade su un tizio che parla al pubblico e che poi si sarebbe rivelato Randy Heier (il cantante): presenza nella media, capelli corti, baffetti, pantaloncini e maglietta, pancia da bevitore. E' ridotto maluccio il Nostro e sembra già affaticato prima ancora di iniziare. Chi ha amato il buon Randy su disco, i suoi soliloqui deliranti (si pensi ai mirabolanti nove minuti di "grimace_smocking_weed_jpeg") rimarrà deluso stasera, oscillando il Nostro fra voce sfiatata (non udibile) e stonata. A torso nudo, incurante di un fisico tutt'altro che scolpito, il Nostro non ha fatto altro che passeggiare avanti indietro sul piccolo palco come un pazzo in una cella di isolamento, anzi no, come un toro in calore in un recinto, anzi no, come un pesce rosso nella sua boccia, strofinandosi la testa continuamente con la mano libera e trasmettendo fatica e nevrosi ad ogni passo. 

In un angolo a secernere riff memorabili abbiamo un dimesso e ripiegato su se stesso ma efficace Griffin Sansone, mentre a guadagnare maggiore visibilità sulle assi è il bassista Austin Tackett, figura sorridente e rassicurante, camicia a quadri e capello/barba brizzolati. Egli suona con energia il suo strumento, imbastendo l'impalcatura rugginosa dei brani e rivelandosi il pezzo meglio della congrega, braccato a breve distanza da un impeccabile Aaron Tackett alla batteria (che indossa la caratteristica maglia sportiva con il logo della band), preciso e potente quanto basta per rinvigorire (o spezzare, a seconda dei casi) i miasmi elettrici esalati dagli amplificatori. 

Il set è principalmente spartito fra i brani dell'ultimo full-lenght e quelli dell'EP "Remove Your Skin Please" del 2019: in un marasma sonoro assai indistinto emergono una energica riproposizione di "The Mask" e una tostissima "Dallas Beltway", ma stasera gli episodi singoli sembrano contare poco (non solo stasera, credo, visto che la scaletta viene cambiata continuamente - e questo porta onore alla band, che almeno mostra un po' di entusiasmo nel riproporre il proprio repertorio senza dare l'impressione di svolgere il classico compitino seguendo scalette scolpite nella pietra). Gli episodi non contano, si diceva, si annullano, smarriscono l'identità, perché la musica dei Chat Pile sul palco perde consistenza, riversandosi sul pubblico come una matassa di frattaglie elettriche, aperture melodiche, momenti di quiete e sconquassi improvvisi, il tutto accompagnato dal crooning spompato di Heier - quando si degna di avvicinare la bocca abbastanza vicino al microfono per farsi sentire. Solo nel finale con la apocalittica "Garbage Man" si ha la parvenza di quell'imponenza teatrale che aveva caratterizzato su disco la musica del quartetto dell'Oklahoma, con il buon Randy finalmente a terra che si contorce ripetendo allo sfinimento l'ultima parola del testo.

La performance (un'oretta?) arriva al suo termine abbastanza velocemente, non contando ahimè molti momenti da ricordare. Sarà forse stata una serata storta, chissà, ma nel complesso i Chat Pile mi sono sembrati abbastanza "alla frutta" (strano pensarlo di una band di ventenni). Il tutto però è anche ampiamente comprensibile: i Nostri saranno sullo stesso il palco anche il giorno dopo (doppio sold out londinese, mica seghe i ragazzi!), con chissà quante date alle spalle e chissà quante ancora da fare. La vita da tour è una vitaccia, indubbiamente sfiancante e i Nostri, considerate la scarsa esperienza e la giovine età, non possiedono ancora quel mestiere che gli permette di gestire con equilibrio lo stress di questo successo improvviso e l'impegno fisico e mentale che ne consegue. Non sono d'aiuto le dinamiche dell'odierna music industry, praticamente incentrata sull'attività dal vivo - oramai principale fonte di reddito per musicisti ed addetti ai lavori. 

Ma va bene così: questi quattro ragazzi non hanno altro che da arrivare sani e salvi alla fine del tour, reggere il vuoto che ne conseguirà, non stappare bottiglie di vino alle 11 del mattino ed avere i nervi saldi per sfornare un secondo dignitoso lavoro senza subire troppo le pressioni da parte di pubblico, critica e casa discografica... 

Più facile a dirsi che a farsi...