"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

10 feb 2017

SOLITUDINE: CRISI DI UN METALLARO DI MEZZA ETA'



 

Ho sempre ritenuto che l'essenza del metallaro sia una condizione interiore, tanto forte è il legame che questo genere intesse con il singolo ascoltatore. Tuttavia l'amore per il metal ci spinge sovente ad uscire dal nostro guscio di solitaria passione e a confrontarci con la dimensione sociale, situazione che ho sempre vissuto con disagio ed estraneità nei confronti dei miei "simili", chiedendomi talvolta se certe brutture, in realtà, albergassero anche in me e se tutto ciò non fosse altro che uno specchio.

Parto da una nota positiva: vivere a Londra ti permette di poter vedere dal vivo chiunque, perché tutti passano da Londra. Un caso lampante è stato quello degli scozzesi Fvnerals, di cui fra l'altro abbiamo già parlato sul nostro blog. Era appena ottobre scorso che li scoprivo attraverso una recensione del loro ultimo album, "Wounds": incuriosito mi chiesi se sarebbero passati in città! Non mi stupì più di tanto il fatto che avrebbero suonato due giorni dopo, fra l'altro gratis, in un pub in Camden Town, l'Unicorn. Per motivi personali, tuttavia, non potetti partecipare all'evento.

Dopo aver rosicato per qualche tempo ho avuto infine questo gennaio l'occasione per redimermi: avrebbero suonato i Mirrors for Psychic Warfare (trascurabile progetto noise-ambient di Scott KellyNeurosis - e Sanford Parker - Minsk e molti altri) all'Underworld, ma all'ultimo momento, probabilmente per il fatto che non sarebbe andati a vederli un cane, l'evento viene spostato al più modesto Unicorn. Sempre per motivi personali non sono potuto andare, ma avendo avuto l'occasione di dare un'occhiata al programma del locale, cosa scopro? Che i Fvnerals avrebbero suonato la domenica successiva, ovviamente gratis. Magie di Londra.

Mi dirigo dunque all'Unicorn, è domenica sera e in quanto domenica sera l'umore non è dei migliori. Cammino per una fredda highway con gli occhi sulla mappa del telefono, finalmente arrivo all'Unicorn, che si rivela un ampio pub in tipico stile inglese con un bel palco.

E' in corso il sound-check e riconosco subito le note doom dei Fvnerals. Ed è subito delusione: Tiffany Strom non è la fascinosa dark-lady che mi aspettavo, ma una ragazzina semplice semplice munita di felpa con cappuccio e con una voce veramente scarsa. Anzi, non ha voce. Non mi stupisco invece della pochezza scenica di Syd Scarlet, spilungone nerd dal capello da fraticello, giovanissimo e in felpa con cappuccio anche lui. Mi sa che la felpa con il cappuccio è la divisa ufficiale di questi anni. Io non me la sono mai messa nemmeno per fare ginnastica.

Ok, non affrettiamoci in giudizi prematuri, in fin dei conti è solo il sound-check. Andando al bagno per pisciare mi rendo conto che il locale è ancora semi vuoto: qualche gruppetto sparso di avventori c'è, al banco si intravedono persino degli over-cinquanta, ma secondo me è gente che non c'entra un cazzo con il metal, costituendo la base degli abituè del locale alle prese con la birretta della domenica sera.

Purtroppo mi rendo presto conto che ci saranno ben due inutili gruppi spalla ed ahimè anch'essi dovranno fare i loro sound-check. Ragazzi in felpa e cappuccio si avvicendano sul palco, i suoni che escono dal mixer non sono dei più incoraggianti, ma più che altro mi esaspera la lentezza con cui il tutto si trascina avanti, in particolare questi batteristi che smontano e rimontano il loro strumento un milione di volte, portandosi appresso ogni volta ‘sti cazzo di piatti.

Ordino una birra per passare il tempo. La classica inguardabile metal-lady assai in carne (capello lungo e colorato, occhiali e -of course - felpa con cappuccio) è seduta accanto a me al bancone e con fare dottoresco passa dalla lettura di un libro alla consultazione del cellulare, dove scorrono veloci le notifiche di Facebook o Whatsapp. Il locale piano piano si riempie, un tipo sui quarantacinque portati male si avvicina alla donna-cannone e si presenta, la batteria viene smontata ancora una volta, la terza band si appresta a fare il suo fastidioso sound-check. Esco furiosamente dal pub alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Non c'è nulla, le poche insegne luminose indicano un fast-food di infima qualità, un ristorante cinese ed un mini-market. Opto per quest'ultimo, ma quando addento l'economicissimo rollino ripieno di falafel freddo di frigorifero rimpiango il mediocre pasto caldo che perlomeno avrebbe potuto offrirmi il fast-food, per questo mi immergo nella sua fredda luce al neon e mi procuro, più per gola che per fame, una porzione di patatine fritte che finirò di mangiare senza fretta all'esterno dell'Unicorn a concerto iniziato.

Il primo gruppo sono gli Earth Moves, fautori di un post-metal melodico assai maturo che va dal blast-beat al rallentamento esasperante. Non male per essere dei principianti, però quando guardo il cantante una strana indisposizione mi sale alla gola: è infatti a dir poco avvilente osservare quel poco più che venticinquenne dimenarsi sul palco, con il ciuffo da emo che gli copre metà del viso, con quel growl strozzato un po' nu-metal, con quell'atteggiamento artificioso a metà strada fra Jonathan Davis e il buon vecchio Conte.

La mente corre involontariamente a quella buonanima di Leonard Cohen, riverso scomodamente sulla sua sedia ortopedica che recita con voce cavernosa e distrutta dalle sigarette, e con una naturalezza e un distacco dalla vita che sono agghiaccianti, "You want it darker, we kill the flame", o anche "Hineni hineni, I'm ready, my Lord". Che abissale differenza si impone fra l’immagine di un poeta visionario con oramai entrambe le gambe nella fossa (Cohen sarebbe morto di lì a poco, e mentre cantava ne era consapevole) e quella che mi si para davanti agli occhi, con protagonista un giovanissimo e il suo dolore artefatto. Certo, sono cresciuto a pane e giovani che si lamentano dietro ad un microfono, ma quando in modo così lampante il dolore diviene un cliché stilistico, non posso non valutarlo con gli occhi dell'ironia. Ma al di là di quel dettaglio infastidente, il tutto diviene in breve noioso ed insignificante: il maggiore pregio dell'esibizione è quello di finire assai in fretta.

Mi guardo intorno e la mia vista si posa sulle persone, che in effetti sono aumentate, finendo per riempire in modo dignitoso il locale: 88% giovanissimi, il resto vecchi disadattati, fra cui forse io. Il fatto è che finché ero giovane, mi facevano simpatia questi indomiti vegliardi che nonostante il peso degli anni riuscivano a non cedere alle lusinghe della vita borghese, continuando a rockeggiare, a comportarsi e a conciarsi come se avessero vent'anni. Oggi, con gli occhi della vecchiaia, questi figuri mi mettono angoscia, perché ne riconosco la tristezza nello sguardo: una nota di stupida tristezza che una volta era mascherata dalla maglietta dei Cirith Ungol, dalla buzza enorme o dai capelli lunghi con la pelata dietro.

Ok, il metal è una fede, ma non vorrei che per certe persone diventi una abitudine dettata dalla rigidità innanzi al cambiamento, un sistema di comportamento imposto dalla incapacità di gestire problemi più complessi, indotto dal disagio nel doversi conformare con quelli della loro età. Ho visto integerrimi metallari che per un pelo di topa si sono venduti alla discoteca, quindi non venitemi a raccontare 'sta storia dei duri e puri. Perché se perdi i capelli non puoi continuare a portarli lunghi, perché se il tuo metabolismo cambia non puoi continuare a mangiare salsicce e tracannare birre. E se non c'è un partner o un datore di lavoro a farti notare che sei impresentabile (anche se sei un fottuto programmatore o un ingegnere informatico che lavora "dove non batte mai il sole"), allora vuol dire che o sei solo, o frequenti esclusivamente disadattati come te. Tutta colpa del sistema, anche la forfora e la puzza d'ascelle.

Allora meglio il panciuto e stempiato tecnico del suono che mangia hamburger e tira giù pinte come se non ci fosse un domani, ma che, con occhio vigile ed estrema agilità, nel momento del bisogno, lesto salta sul palco e dispone microfoni, gira manopole, attorciglia cavi ed aggiusta amplificatori, coniugando lavoro e passione.

Nel frattempo attaccano i Cavalcades. Un bimbotto con la felpa con il cappuccio boccheggia come un pesce in mezzo al palco e mi viene da mettere le mani nei capelli. La voce del cantante all'inizio non si sente per nulla; nei pezzi seguenti le cose miglioreranno un poco, ma sinceramente anche i Cavalcades fanno cacare, salvo qualche cambio di tempo azzeccato che movimenta un dark-rock che vorrebbe tanto assomigliare ai Katatonia, ovviamente non riuscendoci lontanamente.

Eccoci finalmente ai Fvnerals: almeno la cantante s'è messa una specie di tunica e la cosa mi incoraggia, però è una noia tremenda vederla srotolare fili, chinarsi per terra e predisporre la sua strumentazione. Ma non avevano già fatto il sound-check? I tre spendono dunque altro del mio tempo ad aggeggiare con marchingegni ed amplificatori e vedere il batterista che si aggira per il palco con i piatti in mano è a dir poco frustrante.

Nel mio intimo sono quasi tentato di prendere il culo ed andarmene, ma alla fine penso: se tanto mi dà tanto, se dunque dalla felpa con il cappuccio si passa alla pseudo-tunica, allora anche la musica sarà migliore di quanto strimpellato ad inizio serata. E in effetti i suoni sono nitidi e corposi, le luci creano atmosfera, "Wounds" mi era garbato, in fondo son qui per loro...ma basta con le cazzate: diciamo subito che il concerto sarà un disastro!

Introduzione dronica, pathos, la speranza che finalmente stasera ascolteremo qualcosa di decente, poi però qualcosa va storto e la musica non parte: i tre appaiono interdetti, non sanno che pesci prendere, ecco dunque che il fonico come una scheggia fionda sul palco, preme qualche banale pulsante e tutto sembra andare a posto.

Si riparte: introduzione dronica, pathos, qualche sbadiglio e...altro problema tecnico, altro momento di glaciale imbarazzo. La tipa si capisce che non ci capisce un cazzo di jack ed amplificatori, il chitarrista ha un involontario gesto di stizza e si capisce che vorrebbe spaccarle la chitarra sulla testa, ma si contiene mordendosi il pugno perché sa che se siamo qui è perché siamo dei segaioli e ci piace l'idea che ci sia una rappresentante del gentil sesso sul palco. Il fonico è nel frattempo di nuovo a togliere e mettere spine, finalmente si parte.

Il fatto è che i Fvnerals sono meglio su disco, non per motivi meramente tecnici, ma perché quel vedo-non-vedo, che nei dischi minimalisti ed evanescenti tutto-riverberi-effetti-sovraincisioni-e-ritocchi, funziona benissimo in studio, dal vivo rende decisamente meno: sul palco il re è nudo, conta l’efficacia delle idee e non la magia del tasto di pianoforte in lontananza. Tolto questo aspetto i Nostri sarebbero anche decorosi, con in prima fila un Syd Scarlet che si conferma un chitarrista creativo ed ispirato, peccato che si dimostri attento più che altro a spostare il piedino qua e là sulla pedaliera degli effetti, perdendo di vista il fatto che si trova nel mezzo di un concerto e che dovrebbe invece preoccuparsi di coinvolgere il pubblico con i suoi riff. Con la metà di quei riff i Sunn O))) ci hanno tirato su una intera carriera, a dimostrazione di come sia importante, quando si suona doom, ricreare dal vivo quell'atmosfera rituale capace di tenere sveglio il pubblico e distogliere la sua attenzione dai limiti di una proposta volutamente monotona.

Tradotto: e togliti quella cazzo di felpa con il cappuccio ed indossa un saio, faresti migliore figura! Come se non bastasse il Nostro non ha la scaltrezza di capire che non può interrompere la musica per un nonnulla ed ogni volta chiamare l'instancabile sonico perché non gli torna un suono o non gli funziona un cavo che collega i pedali degli effetti. Cazzo! Suona, improvvisa, inventati qualcosa, accidenti ai nerd!

In confronto il batterista, sebbene il suo compito sia dannatamente più semplice (quattro quarti al rallentatore, con colpi di piatti qua e là a fare scena), ne esce meglio: come presenza richiamerebbe persino il Nick Holmes dei tempi d'oro, però potrebbe evitare di sdraiarsi sulla minuscola batteria ogni volta che picchia a doppia mano sui tom. Questa impressione di uomo-sfinito-esistenzialmente, d'altra parte, un po' cozza con il fatto che fino ad un momento prima era stato avvistato fra il pubblico a tracannare birre e baccagliare tutte le ragazze che gli capitavano a tiro.

Quanto a Tiffany, è la vera delusione della serata: zero carisma, scarsa nel maneggiare il basso e, ahimè, voce inesistente. L'impressione, alla fine, è che costei non sia altro che una ragazzetta timida che i problemi tecnici, la serata storta, forse le mestruazioni, chi lo sa, hanno spinto a chiudersi in se stessa, intimorita, quasi paralizzata, davanti ad una platea di gentiluomini che dietro ad un imbarazzato silenzio, con pazienza e comprensione, hanno saputo tollerare ogni inciampo della band. Negli occhi della front-woman si legge chiaramente il bisogno che tutto questo finisca il prima possibile. E in effetti poco dopo il suo desiderio sembra esaudito, visto che non pare trascorsa nemmeno mezz'ora che con un filo di voce e quasi vergognandosi annuncia l'ultimo brano della serata.

Niente bis, niente cazzi, Syd smonta il suo armamentario incazzato nero, non rivolgendo lo sguardo né al pubblico né ai due compari, mentre Tiffany con la coda fra le gambe inizia anche lei a sbaraccare. Il batterista ringalluzzito è già con i piatti in mano che si apre un varco fra la gente, che silenziosamente si riversa in direzione bancone.

Quanto a me, provo quasi una sensazione di sollievo e non aspetto neanche che dal mixer inizi ad uscire della musica, che sono già fuori sulla via di casa. Fa freddo, il vento picchia ostile dietro le orecchie e penso che quasi quasi mi ci vorrebbe una felpa con il cappuccio...