“È colpa tua! Sei stato te! Giuda!”
Derek Sherinian è stato additato, per anni dopo “Falling into infinity”
dei Dream Theater, come il responsabile dei mali della band di Petrucci, la
causa delle negatività del pianeta, il motivo delle ingiustizie del mondo e
nessuno lo ha mai perdonato, e anzi è stato per quell'album stigmatizzato.
Per noi che
seguiamo spesso le cause perse degli ultimi, ci troviamo a riabilitare
agli occhi del mondo bacchettone questo tastierista che realizza uno dei suoi
migliori dischi con “Mythology”.
La formula temutissima è quella di un disco strumentale (eccezione fatta per
l’ultima traccia) con numerosi ospiti, da Zakk Wylde a Steve Lukather, si
passano in rassegna chitarristi di diversa estrazione e ognuno regala il
proprio tocco all’arte sfaccettata delle composizioni di Derek.
La colpa primigenia di Sherinian è quella di possedere un animo metal aperto; se vogliamo connotarlo con un gusto potremmo dire che è un sound agrodolce quello che viene dalle
note di “Mythology”. Come quando ti siedi in un bel ristorante indiano e sei
deciso a sperimentare qualche piatto dal nome accattivante, ma nella zuppa che
ti viene servita arriva improvvisamente un aroma variegato di troppe spezie, o
assaggi una fragola avvolta nelle cipolle. Ecco questa sensazione di straniamento accompagna il lavoro
di Derek che non annoia mai, nonostante sia un album strumentale non arriva mai
il tedio della ripetizione ossessiva di note dalla tastiera.
Sa fare un passo indietro, comporre e dare il giusto spazio
a tutti, così da essere bilanciato nella sua esposizione sonora. Emerge, in
queste note da grande autore, lo stesso gusto di un album di Satriani, ma con minor
spocchia e tanta piacevolezza sonora. “One way or the other” presenta ad
esempio un momento progressivo di grande qualità con il violino accompagnato
dalla chitarra di Holdsworth, che ricorda i maestri progressive degli
anni Settanta.
Il problema infine non sta nella sua presenza in “Falling
into infinity”, ma nella scelta dei Dream Theater di chiamarlo, perché la
contaminazione che vive nelle orecchie di Derek si comprende fin da subito che
poco c’entra con Petrucci & co.
Non ascoltate insomma la vox populi su Derek, perché è come
quel passante che decide di andare a Manhattan la mattina dell’11 settembre, è
la persona sbagliata nel momento sbagliato nel posto sbagliato, ma non ha colpe
e anzi in questo caso ci regala un disco interessante.
Voto: 7
Canzone top: “Day of the dead”
Momento top: la performance di Steve Lukather in “Goin to church”
Canzone flop: “The River Song”
Anno: 2004
Etichetta: Armoury Records
Dati: 9 canzoni, 45 minuti