"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 apr 2019

VIAGGIO NEL METAL ASIATICO - SURFANDO TRA LA "PLASTICA" DELLE MALDIVE




Sin da ragazzo, nel mio immaginario, assieme alle Seychelles, le Maldive sono da sempre associate alla vacanza da sogno, la meta inarrivabile (perché troppo cara), il viaggio esotico per antonomasia. E non dev'essere solo un mio pensiero, posto che gli italiani, ancora oggi, sono i turisti più numerosi in assoluto che frequentano i 26 atolli maldiviani.

Rispetto a questa visione adolescenziale, l’arcipelago asiatico è salito alla ribalta dell'attenzione dei media anche per questioni diverse da quelle turistiche. Le immagini dei miasmi di Thilafushi, alias rubbish island (l'isola adibita a ricettacolo di tutta l'immondizia dei resort per occidentali), hanno fatto scalpore; così come il rischio-sommersione dell'intero arcipelago dovuto al riscaldamento globale e al conseguente innalzamento degli oceani. E se a tutto questo sommiamo una certa restrizione delle libertà civili (a partire dalla negazione delle libertà di culto e un rigido codice comportamentale per le donne), il golpe militar-islamico del 2012, e, da ultimo, l’alto numero di foreign fighters maldiviani che sarebbero andati a combattere per l’Isis in Siria, possiamo capire come le Maldive, non siano solo quell’idilliaco paradiso naturale descrittoci nelle brochure delle agenzie di viaggio.


Ma passiamo al sodo musicale: meno di 350.000, abitanti, un terzo dei quali residenti nella capitale Malè. Ed è quindi normale che le poche tracce metalliche presenti provengano solo da qui. Thrash, melo-death e heavy classico i generi maggiormente “affrontati”.

Decidiamo di partire proprio da quest’ultimo con i Fasylive (nome di m…a) power trio che, nonostante la loro attuale esistenza (?), non riescono più a pubblicare alcunchè da 12 anni. La loro ultima testimonianza, il full lenght “Vengeance” (2007) rilasciato da un’etichetta malese, presenta un heavy dagli influssi a volte power a volte hard rock. I video sono ovviamente girati direttamente in spiaggia o in mezzo alla vegetazione retrostante (con annessa finta pioggia monsonica); o addirittura usando minimali effetti video subacquei, col cantante/chitarrista che sfoggia assoli mentre i pesci di barriera gli gironzolano attorno. Apprezzabili e professionali.

Cominciamo a fare sul serio con i Mystic Wonders e il loro “Prophecy of the chosen” del 2014, ad oggi prima e unica testimonianza sulla lunga distanza della band. Partono secchi con una strumentale che mette in mostra le buonissime capacità tecniche dei Nostri, facendo sfoggio di articolate trame technical death. Quando si comincia con i pezzi cantati, ci ritroviamo davanti a un growl ben impostato e a un sound ricollegabile a un moderno melo-death, slegato da quello scandivano novantiano. In certi momenti, i MW si lasciano attrarre in territori power/epic con cantato pulito (che sulle note alte stona non poco), facendo il verso ai tanti figliocci dei Rhapsody & co.

Chi, pare, siano invece riusciti a "bucare" sul mercato sono i Nothnegål che per il loro “Decadence” (2012) hanno firmato addirittura per la francese Season of Mist. Anche qui però rimaniamo delusi: la professionalità e la cura nell’artwork sono di alto livello ma il sound proposto è quell’ibrido di groove e nu-metal dalle venature industrial, con tanto di growl monocorde, che personalmente detesto e di cui abbiamo le orecchie piene. Non a caso i Nothnegål (altro nome di m…a!) non sono più riusciti a pubblicare altri lavori.

Per cercare qualcosa di più ruspante, bisogna spostarsi sui Dittorehead, band defunta e autrice di un unico EP nel 2010 (“Damnation”), registrato di merda e derivativo del thrash ottantiano ma che almeno fa muovere le chiappe in modo genuino e divertente.
Se i Serenity Dies sono, come i Dittorehead, anch’essi defunti (speriamo in serenità), il thrash maldiviano è unicamente rappresentato dai Tormenta che, da quello che si può giudicare da ciò che gira in rete, sono i beniamini musicali di Malè. Il loro EP “Tormented Souls”, ad oggi unica prova discografica, in 28’ mette in mostra buone capacità tecniche, discrete idee compositive e un thrash, che se da un lato mostra il fianco sul lato della creatività, si fa ascoltare con piacere grazie anche a qualche inserto tribale à-la-Sepultura.

Concludiamo con una doppia eredità: i Sacred Legacy e gli Shahyd Legacy.

Dietro questi due progetti c’è il guitar hero maldiviano, Ahmed Shahyd (che aveva messo lo zampino già nei Mystic Wonders). I Sacred Legacy propongono un prog/power/melo death di buona fattura, suonato egregiamente e con produzione professionale (con una voce in growl che onestamente zavorra il tutto), seppur non particolarmente innovativo e legato all’ormai canonico riffing ultracompresso e batteria a pale di elicottero, trademark di tanto metal del XXI sec che onestamente ci ha sfasciato gli zebedei…

La legacy che porta il suo nome invece, dopo “Through the ashes” del 2015, si ripresenta due anni dopo con “Gatesway”: si migliora mixaggio e produzione per un disco interamente strumentale (quello precedente lo era in gran parte, ma con alcune tracks cantate da guest singers), sempre di matrice power, ma con un’impronta maggiormente neoclassical, basato su uno shredding esasperato. Buone linee melodiche, scrittura varia e tendenzialmente ispirata. Ecco, arrivati al 4° brano ci rompiamo le palle perché la sensazione deja-vu, per noi navigati metallari over 40, è forte. Soverchiante, direi. E di emuli di Malmsteen, Impellitteri e Michael Romeo non ne sentiamo il bisogno o la mancanza.

Insomma, niente da fare…speravamo che, spostandoci verso est rispetto al Metal Petrolifero del Vicino Oriente, avremmo trovato un metal distintivo, “diverso”, con qualche riferimento tribal/folkish della zona. Non dico un metal “atollico” (orrendo neologismo), ma che almeno potesse essere ricondotto in qualche modo all’area geografica natia. Invece, ahinoi, nisba. Professionalità, cura dell’artwork e tecnica di base più che sufficiente, fanno delle Maldive l’ennesimo paese in cui ritroviamo sonorità generalistiche e stilemi "universali", che potremmo ascoltare in qualsiasi paese occidentale di solida tradizione metallara.

Se quindi ci eravamo approcciati al metal maldiviano con l’idea di imbatterci in una tipologia dello stesso esotica e straniante, ci dobbiamo ricredere; sentendoci, alla fine del viaggio, come quel turista che, con i bagagli pronti per la partenza, sotto sotto sente di non essersi allontanato troppo da casa. Con l’idea che la plastica non invada solo materialmente l’isola di Thilafushi, ma anche figurativamente le sale di registrazione di Malè…

A cura di Morningrise

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