"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

20 apr 2019

MORBID FEST: UN PENSIERO SUL DEATH METAL...ED UNO SUI VITAL REMAINS...



Se fossi un fan sfegatato del death metal e leggessi questo articolo mi girerebbero non poco i coglioni. Fatta questa premessa, mi abbandono a questo mio libero sfogo, conseguenza diretta dell’ascolto di “Dechristianize” ed “Icons of Evil” dei Vital Remains

Tanto per iniziare i Vital Remains sono un gruppo storico e compiono quest’anno trent'anni di carriera, evento che verrà celebrato ad hoc con un tour. Penso di andarli a vedere, più che altro perché la loro esibizione si inserisce nella scaletta del cosiddetto Morbid Fest, capeggiato dagli I Am Morbid del veterano Dave Vincent. Ci sono poi gli inaffondabili Sadus (d'altra parte è sempre un piacere vedere dal vivo quel mostro di tecnica che risponde al nome di Steve DiGiorgio) e gli Atrocity, da cui ormai ci si può aspettare di tutto. Insomma, una serata “o bene bene o male male”, dove certezze sporadiche affogano in grandi interrogativi. 

Dei sedici musicisti che si avvicenderanno sulle assi, sei soli possono vantare un certo grado di storicità, o per lo meno anzianità in seno al death metal. Ma al di là del turnover più o meno fisiologico che ha investito le varie line-up (comprendiamo che non è facile suonare death metal per decenni...), sono altre le questioni che gettano inquietudine sulle nostre coscienze. Saranno ancora in forma i Sadus, che in fondo devono la loro fama ad un buon album rilasciato nel lontano 1992 (“A Vision of Misery”) e per aver prestato il bassista ai Death? In che veste invece si presenteranno i tedeschi Atrocity, che nel corso della loro esistenza hanno ballato fra death metal, folk, industrial, gothic e pop anni ottanta (vedasi il trascurabile album di coverWerk 80”)? Ma soprattutto, l’opinabile nuovo progetto di Dave Vincent saprà scrollarsi di dosso lo status di cover band dei Morbid Angel e l'accusa di costituire non altro che una vile operazione raschia-fondo-del-barile?

L’unico nome a me sconosciuto era quello dei Vital Remains. La mia curiosità è stata rinvigorita dal fatto che, in locandina, campeggia la scritta “30th anniversary show” a dare lustro al loro monicker. Ho dunque deciso di indagare, scoprendo che la band è sopravvissuta ai mille cambi di line-up (della formazione originale oggi troviamo solo Tony Lazaro alla chitarra ritmica), guadagnandosi uno status di tutto rispetto in ambito brutal-death metal, aiutati a livello di "popolarità" dalla presenza dietro al microfono di Glen Benton dei Deicide in occasione di un paio di album. 

In rete si leggono cose mirabolanti su di loro, ma più leggo e più mi rendo conto che il rischio è quello di trovarsi innanzi alla classica band sfigata che non è mai riuscita ad affermarsi nonostante il duro lavoro e la purezza degli intenti. Nel metal piacciono molto questi casi di gruppi duri e puri non molto noti ed affetti da sfortuna ricorrente (aggiungiamo alla loro storia lo strano caso dei tre loro cantanti morti in rapida successione fra il 2014 e il 2015). Tornando alla musica, apprendo su Wikipedia che la loro cifra stilistica parrebbe essere caratterizzata da composizioni dalla durata decisamente sopra la media ed inserti acustici dal flavour latino/spagnoleggiante (??). Ed allora andiamoci ad ascoltare questi geni incompresi del death metal! 

Riconosco il fatto di aver perso di vista il genere, avendolo abbandonato anni fa con i vari Nile, Ulcerate, Portal: band che, anche spingendosi in ambiti sperimentali e post-metal, cercavano di iniettare novità nel sound ortodosso ed esigente del death metal. Tornare oggi in quel mondo passando dai mattoni targati Vital Remains (album che superano abbondantemente l’ora di durata…), non è stata forse il miglior modo per farmi tornare voglia di death metal. Non ho niente da ridire sulla professionalità e la dedizione alla causa dei Vital Remains, fautori di una proposta indubbiamente complessa e ben suonata. Davvero non mi voglio accanire contro gente onesta, ma devo ammettere di aver veramente sofferto l’ascolto, ritrovandomi inerme innanzi ad una forma d’arte cieca innanzi alle esigenze dell'ascoltatore, figlia più del “metodo” che di una reale visione artistica. 

E’ come se i Nostri, in sala prove, avessero detto: questo riff va bene, mettiamolo; anche quest’altro è ok, ora troviamo il modo di farli stare bene insieme. E così via fino alla fine dell’album: un tour de force fatto di continui cambi di tempo, riff ed assoli che si susseguono senza mai perdere la brutalità come fine ultimo. Insomma, un procedere un po’ ottuso che sembra poter certificare la qualità di ogni singolo mattone, ma che non bada all’aspetto finale dell’edificio. Il tutto appesantito da quel gusto che ha il death metal nel reiterare i passaggi, ma senza quell’approccio concettuale che hanno certi altri generi (mi vengono in mente black metal o post metal) che invece nella reiterazione trovano sublimazione, ipnosi, catarsi. 

Questa è musica che va bene a piccole dosi, indubbiamente: assolutamente vietato ascoltarla distrattamente, in sottofondo. Pochissimi sono i guizzi che fanno drizzare il sopracciglio, mentre il mal di testa è assicurato!

Mi viene allora da ripensare a quanto invece era coinvolgente ascoltare, in tutte le occasioni, le band storiche del death metal americano come Death, Morbid Angel, Deicide, Obituary, le quali riuscivano ad esprimere il medesimo approccio ad altissimi livelli in brani di tre o quattro minuti al massimo. Dirò di più: non ho pregiudizi sul death metal, che ritengo abbia costituito un superamento del tharsh metal e non una sua semplice estremizzazione. Non solo grazie all’invenzione di nuove tipologie di riff, ma anche concettualmente, andando oltre il formato-canzone, creando atmosfere torbide e strutture intelligenti che, pur non ricorrendo all’uso pedissequo del ritornello (del ritornello inteso come qualcosa di distinguibile che si distingue nettamente dalla strofa) sapevano conservare un che di anthemico che rendeva i brani riconoscibili l'uno dall'altro (cazzo, “Rapture” la canto ancora oggi sotto la doccia!). 

La musica dei Vital Remains, senza mai essere realmente progressiva, si perde in fitti labirinti di molecole death metal: una sorta di "eterno ritorno" volto a rivivere in modo frenetico e compulsivo lo stesso identico istante. Uno stato delle cose che impone un impegno notevole all’ascoltatore, il quale, per coglierne i dettagli, deve dedicarsi ad un ascolto attivo, paziente e reiterato. La domanda pertanto diviene: abbiamo davvero tutto questo tempo per i Vital Remains? 

Menomale che al sessantaduesimo minuto di “Icons of Evil”, finalmente, spunta fuori un riff davvero geniale che potrebbe farci rivalutare l'intero ascolto e che quasi ci convincerebbe che in fondo questi Vital Remains davvero custodiscono qualcosa di speciale...

Ops, scusate, era la cover di “Disciples of Hell” di Malmsteen….