Avete presente quelle saghe dei Grandi Capi, in cui ad un certo punto si imbocca una parabola discendente, o uno stallo, e gli equilibri cominciano a vacillare, perché chi sta intorno al capo non è più sicuro che abbia ancora un'idea precisa, una linea, e l'intenzione di andare avanti.
Ecco che tutti aspettano
che faccia un passo falso, che mostri una debolezza, un aspetto
controverso, qualcosa insomma che giustifichi un colpo di mano.
I Manowar sono da tempo
in fase di stallo artistico. Continuano ad esser capaci di sfornare
singoli brani efficaci e coinvolgenti, ma la linea della
semplificazione è diventata forse un fare di necessità virtù. In
mancanza di estro compositivo, da anni ormai si predilige una
struttura prevedibile, fissa direi, che può solo essere variata. E i
Manowar sono maestri di queste variazioni. Sono divenuti quasi gli
AC/DC del metal epico. La cosa che faceva storcere la bocca era invece
la magniloquenza sempre più invadente, ad esempio nel voler proporre
degli album che raccontano apparentemente una storia, con intermezzi
e intro, ma in realtà senza un'articolazione narrativa riconoscibile
sul piano musicale. Su tutto poi, un vocabolario epico decisamente
limitato, certamente formulaico come lo erano i vocabolari degli
antichi cantori, che però amavano anche condire sempre di vocaboli
nuovi i loro racconti, così da cambiarli, impreziosirli.
I Manowar no: dai tempi
di “Blood of the Kings” presero sul serio quello che voleva
essere un esperimento semiserio: comporre un nuovo testo usando frasi
e parole già usate in altre canzoni, o come titoli. Un brano corale,
in cui i Manowar ringraziavano tutti i paesi in cui avevano suonato,
e con cui chiudevano l'album Kings of Metal (1988).
Altri gruppi storici si
sono trovati in situazioni simili, da cui magari sono usciti con
umiltà o con mosse coraggiose. Gli Iron Maiden sono rinati a livello
artistico con "The Book of Souls", proponendo un disco lungo, sfaccettato,
e soprattutto da digerire lentamente, ma alla fine appagante.
I Judas a testa bassa ci mettono lacrime e sangue, cercando quasi un anonimato, un basso profilo per poi sfondare con la loro autenticità e solidità.
I Judas a testa bassa ci mettono lacrime e sangue, cercando quasi un anonimato, un basso profilo per poi sfondare con la loro autenticità e solidità.
I Manowar fanno il passo
falso del boss. Coerentemente con i loro atteggiamenti di sempre, ma
stavolta oltre la decenza, fanno proclami sull'uscita di questo EP.
Quattro brani, sì, ma perché – dice De Maio – sono già
talmente carichi e completi che non avrebbe senso esagerare in
quantità. Sarà il caso di roboare così spendendo un consenso
mai venuto meno, ma non certo massimo, e impegnando così le
aspettative del pubblico? Una presentazione che è già una specie
di scacco matto in termini di comunicazione: o si tratta di non
rendersi conto che, in presenza di una qualità buona, non occorre
gonfiare le aspettative, oppure si tratta di giocare il tutto per
tutto su un prodotto che conviene comunque gonfiare. In ogni caso,
l'ascoltatore già abbassa lo sguardo per l'imbarazzo al leggere i
proclami dei Manowar.
Infine, il possibile
passo falso: De Maio alla voce in un brano. Digerire questo dovrebbe
far supporre che gli altri tre brani (su quattro) siano davvero
massimi. Anzi, due, perché la prima è una intro. L'ascoltatore già
trema dentro: dei quattro brani annunciati come eccezionali, una è
un'intro, direi “la solita” intro sullo stile degli ultimi
Manowar. Non certo un brano.
Ed è qui che i picciotti
del boss si guardano in faccia e pensano che forse il grande capo sta
perdendo il senso della realtà, o non ha semplicemente più la testa
per andare avanti.
Due brani. Non pessimi.
Varianti di brani già sentiti. E qui “apriamo la busta” e ci
troviamo, al posto di quella gratifica strombazzata nelle
anticipazioni, un buono pasto per un hambuger e patatine.
Due brani, residui
dell'ultima produzione. Non rimbalzano. Non scoppiettano. Non
splendono. Non folgorano. Rimane l'ultimo, e qui i picciotti sono
ormai oltre il dubbio e l'amarezza; a questo punto sperano che il
boss faccia una mossa falsa, una volta per tutte. E accede proprio
questo: il boss si esibisce, un po' ubriaco e un po' sfiatato,
cantando “O sole mio” mentre gli orchestrali tentano di stargli
dietro. Immaginate una scena così, e a questo punto già si fa il
nome del futuro boss che lo scalzerà e ne prenderà il posto.
E parte “You shall die
before I die”. Canta De Maio. Oppure chiunque altro, con una
vocione artefatto, un brano slogan, in cui si recita solo la frase
del titolo, un mantra che ci conduce alla fine di un disco mai
iniziato.
Minimalismo epico.
Sembra quasi una presa in giro involontaria: “i Manowar finiranno prima che il metal finisca?”. Pare di sì, e ci metteranno altri due EP.
A cura del Dottore
Minimalismo epico.
Sembra quasi una presa in giro involontaria: “i Manowar finiranno prima che il metal finisca?”. Pare di sì, e ci metteranno altri due EP.
A cura del Dottore