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5 giu 2019

MANOWAR - THE FINAL BATTLE - IL PETARDO CHE NON SCOPPIA



Avete presente quelle saghe dei Grandi Capi, in cui ad un certo punto si imbocca una parabola discendente, o uno stallo, e gli equilibri cominciano a vacillare, perché chi sta intorno al capo non è più sicuro che abbia ancora un'idea precisa, una linea, e l'intenzione di andare avanti.
Ecco che tutti aspettano che faccia un passo falso, che mostri una debolezza, un aspetto controverso, qualcosa insomma che giustifichi un colpo di mano.


Manowar sono da tempo in fase di stallo artistico. Continuano ad esser capaci di sfornare singoli brani efficaci e coinvolgenti, ma la linea della semplificazione è diventata forse un fare di necessità virtù. In mancanza di estro compositivo, da anni ormai si predilige una struttura prevedibile, fissa direi, che può solo essere variata. E i Manowar sono maestri di queste variazioni. Sono divenuti quasi gli AC/DC del metal epico. La cosa che faceva storcere la bocca era invece la magniloquenza sempre più invadente, ad esempio nel voler proporre degli album che raccontano apparentemente una storia, con intermezzi e intro, ma in realtà senza un'articolazione narrativa riconoscibile sul piano musicale. Su tutto poi, un vocabolario epico decisamente limitato, certamente formulaico come lo erano i vocabolari degli antichi cantori, che però amavano anche condire sempre di vocaboli nuovi i loro racconti, così da cambiarli, impreziosirli.

I Manowar no: dai tempi di “Blood of the Kings” presero sul serio quello che voleva essere un esperimento semiserio: comporre un nuovo testo usando frasi e parole già usate in altre canzoni, o come titoli. Un brano corale, in cui i Manowar ringraziavano tutti i paesi in cui avevano suonato, e con cui chiudevano l'album Kings of Metal (1988).

Altri gruppi storici si sono trovati in situazioni simili, da cui magari sono usciti con umiltà o con mosse coraggiose. Gli Iron Maiden sono rinati a livello artistico con "The Book of Souls", proponendo un disco lungo, sfaccettato, e soprattutto da digerire lentamente, ma alla fine appagante.
I Judas a testa bassa ci mettono lacrime e sangue, cercando quasi un anonimato, un basso profilo per poi sfondare con la loro autenticità e solidità.

I Manowar fanno il passo falso del boss. Coerentemente con i loro atteggiamenti di sempre, ma stavolta oltre la decenza, fanno proclami sull'uscita di questo EP. Quattro brani, sì, ma perché – dice De Maio – sono già talmente carichi e completi che non avrebbe senso esagerare in quantità. Sarà il caso di roboare così spendendo un consenso mai venuto meno, ma non certo massimo, e impegnando così le aspettative del pubblico? Una presentazione che è già una specie di scacco matto in termini di comunicazione: o si tratta di non rendersi conto che, in presenza di una qualità buona, non occorre gonfiare le aspettative, oppure si tratta di giocare il tutto per tutto su un prodotto che conviene comunque gonfiare. In ogni caso, l'ascoltatore già abbassa lo sguardo per l'imbarazzo al leggere i proclami dei Manowar.

Infine, il possibile passo falso: De Maio alla voce in un brano. Digerire questo dovrebbe far supporre che gli altri tre brani (su quattro) siano davvero massimi. Anzi, due, perché la prima è una intro. L'ascoltatore già trema dentro: dei quattro brani annunciati come eccezionali, una è un'intro, direi “la solita” intro sullo stile degli ultimi Manowar. Non certo un brano.
Ed è qui che i picciotti del boss si guardano in faccia e pensano che forse il grande capo sta perdendo il senso della realtà, o non ha semplicemente più la testa per andare avanti.

Due brani. Non pessimi. Varianti di brani già sentiti. E qui “apriamo la busta” e ci troviamo, al posto di quella gratifica strombazzata nelle anticipazioni, un buono pasto per un hambuger e patatine.
Due brani, residui dell'ultima produzione. Non rimbalzano. Non scoppiettano. Non splendono. Non folgorano. Rimane l'ultimo, e qui i picciotti sono ormai oltre il dubbio e l'amarezza; a questo punto sperano che il boss faccia una mossa falsa, una volta per tutte. E accede proprio questo: il boss si esibisce, un po' ubriaco e un po' sfiatato, cantando “O sole mio” mentre gli orchestrali tentano di stargli dietro. Immaginate una scena così, e a questo punto già si fa il nome del futuro boss che lo scalzerà e ne prenderà il posto.

E parte “You shall die before I die”. Canta De Maio. Oppure chiunque altro, con una vocione artefatto, un brano slogan, in cui si recita solo la frase del titolo, un mantra che ci conduce alla fine di un disco mai iniziato.

Minimalismo epico.

Sembra quasi una presa in giro involontaria: “i Manowar finiranno prima che il metal finisca?”. Pare di sì, e ci metteranno altri due EP.

A cura del Dottore