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27 giu 2022

FONDI DI DISCOGRAFIA - IL TRITTICO FINALE DEGLI STRAPPING YOUNG LAD

 


Spessissimo è il primo album della discografia di una band ad essere il suo eponimo.

Ma quando un gruppo già affermato titola un proprio album con il proprio monicker vuol dire che lo ritiene o come una sorta di nuovo inizio rispetto a quanto fatto precedentemente ovvero un disco particolarmente rappresentativo del proprio sound e/o della concezione musicale che in quel momento essa vuole esprimere. Insomma, qualcosa di importante.

Fatta questa premessa, ripeschiamo oggi un’artista da noi amato (e dal sottoscritto oserei dire “venerato”) e di cui abbiamo, non troppo tempo, fa analizzato puntigliosamente l’intera discografia. Ma, nel nostro inguaribile perfezionismo e per la nostra mania di completezza, oggi utilizziamo la rassegna sui Fondi di Discografia per “ripescare” il trittico finale degli Strapping Young Lad a 15 anni dalla pietra tombale posta dal Genio di Vancouver sul progetto col quale, peraltro, aveva sfondato nel cuore di fan e critica a metà anni novanta col violentissimo “Heavy as a Really Heavy Thing”. 

Gli ultimi tre studio-album, oltre ad essere di per sé meritori di ascolto e analisi, vanno a completare la nostra descrizione del “quadro deviniano” di cui sopra.

1. “Strapping Young Lad” (2003)

Dopo aver sospeso il progetto nel 1998 in seguito al definitivo “City”, Townsend decide nel 2002 di riaprire i battenti del Giovane Ragazzo Ben Piantato. Per la ripartenza opta, appunto, per un album eponimo che, lo diciamo fin da subito, non ci pare ricadere in nessuna delle due opzioni di cui all’introduzione di questo post. In questi 39’, Devin dimostra infatti di essere in grado di trovare un ottimo bilanciamento tra la prima fase della sua creatura e le nuove sonorità che aveva portato avanti negli anni precedenti con la sua carriera solista. Il risultato è coerente, “evolutivo” sia se inteso “semplicemente” come il 3° disco dei SYL sia se lo si vede all’interno di un unicum artistico di un singolo musicista. Non dimentichiamoci infatti che, appena poco prima, Devin aveva raggiunto la perfezione stilistico-compositiva con il suo ineguaglia(bile)to “Terria” (2001) e che un’opera così totale non poteva non avere conseguenze anche sul nuovo materiale targato SYL.

Anche se il Nostro, inizialmente, sembra quasi mettere a proprio agio chi si aspettava da questo disco il sound old-style di un capolavoro come “City”. I primi 10’ di “SYL”, infatti, sono una bella botta nei denti che rinverdiscono, con buona ispirazione, quanto fatto nei due album precedenti e che faranno la gioia di tutti gli amanti di quel death/thrash/industrial che la critica ha condensato nella definizione di extreme metal. Ma è con la seconda parte dell’album che qualche scoria della carriera solista entra prepotentemente nel songwiriting delle composizioni e che si esplicano al loro meglio nella strepitosa “Aftermath”, nella sinuosa “Force Fed” (nella quale cori townsendiani, clean vocals e aperture ariose di tastiera vanno a smorzare le intemperanze del sound) e nella conclusiva, ottima, “Bring on the Young”. 

Però, tirando le fila, il disco non ci convince fino in fondo, anche per una produzione un po' troppo fosca che pone enfasi sul lato più “raw” rispetto a quel sound contaminato e “futuribile” che era prerogativa della band. Tutto professionale, tutto più che buono ma quella pazzia, quella sottile vena ironica che attraversava le loro composizioni, quella loro capacità di essere “visionari”, viene qui a mancare, facendo risultare il tutto un pò scolastico. Non sarà un caso che le songs che più ci rimarranno in mente, e nel cuore, sono proprio quelle succitate, dove la band abbraccia sonorità più aperte, varie e imprevedibili e in cui escono dalla “tesi” di fondo per la quale, come affermato da Hoglan stesso, i SYL "non sono un industrial band (come asserito da molta critica specializzata, nda), ma una semplice metal band".

Insomma, un disco la cui creatività pare frenata, con la “sordina”. E, nonostante questo, un disco godibilissimo…

Voto: 7

2. “Alien” (2004)

Se a qualcuno fosse parso che “SYL” fosse un album un po' “imbrigliato”, beh, Devin e Gene sfornano di lì a due anni un full lenght che mette di nuovo d’accordo tutti: gli Strapping sono ancora i leader mondiali dell’extreme metal!

Inventiva, dinamismo, impatto, potenza…tutto torna nel successivo “Alien” nel quale il trademark della band si fonda in maniera più lineare e organica con le soluzioni che Devin stava provando con quella che ormai era diventato il progetto-madre della sua mente bipolare (nel 2003, ricordiamo, era uscito lo splendido “Accelerated Evolution” per la Devin Townsend Band). Il trittico di brani iniziale non lascia scampo alle orecchie dell’incauto ascoltatore e quando Devin decide di rallentare, lo fa nel migliore dei modi con la clamorosa “Love?”. Ma il disco è difficile da sezionare nei diversi brani che lo compongono perché riesce davvero a esprimersi come un continuum sonoro inscindibile. E questo anche quando i toni si fanno rilassati (finalmente, dopo quasi 35’ di botte da orbi!) con l’acustica “Two Weeks”.

Ma è solo un attimo, giacchè con la successiva “Thalamus” si torna a menare forte&pesante fino alla chiusura in bellezza di “Zen”, tra le top songs del platter.

Per chi scrive, il miglior album dei SYL dopo ”City”.

Voto: 7/8

3. “The New Black” (2006)

Pressati nei tempi di realizzazione dalla Century Media, Devin&co. sfornano l’anno successivo 42 minuti di denso extreme metal. Ancora una volta diverso da quanto prodotto in precedente, seppur nel solco di uno stile riconoscibilissimo, il disco appare un pò slegato stilisticamente, con le 11 songs che lo compongono che mancano a tratti di coerenza interna.

Rispetto al passato, oltre ad un recupero di un’ironia di fondo nei titoli (“Far Beyond Metal”, “Fucker”), nei testi (vedasi quello di “You Suck”) e in qualche bizzarra soluzione musicale piazzata qua e là (straniante quella simil-jazz di “The Antiproduct”), il platter risulta più accessibile, catchy e con soluzioni melodiche più marcate (riuscitissima, ad esempio, quella di “Almost Again”). 

Attenzione, i Nostri, pur probabilmente sapendo che questo era il “canto del cigno” della band (vedasi l’auto-incitamento “S-Y-L!” scandito a più riprese nell’ottima opener “Decimator”), non la prendono sotto gamba: Devin urla come un dannato spremendo la sua ugola, Gene Hoglan è il solito “atomic clock” e i fidi Byron Stroud e Jed Simon coadiuvano il loro mentore dandoci dentro che è un piacere. Il prodotto, alla fine della fiera, è piacevole e professionale (la conclusiva “Polyphony/The New Black” è una degnissima chiusura dell’album e della carriera) ma, rispetto ai suoi due predecessori qui trattati, lascia nelle orecchie un senso di “fine” e di “già-tutto-detto” (e a tratti di “tirato via”) che in parte inficia il risultato conclusivo.

Voto: 7

Che dire? Leggendo alcuni forum dedicati, si può denotare come esistano tanti fan che preferivano i SYL alla carriera solista di Devin. così come c'è chi la pensa all'opposto. 

Personalmente reputo che Devin, con "The New Black", abbia interrotto giusto in tempo l'esperienza-SYL. Un'esperienza che, nel suo arco complessivo, rimane imprescindibile nell'ambito del "nuovo" thrash/death in quanto capace di svecchiarne gli stilemi innervandoli con una visione "moderna" del fare musica estrema. Un approccio di cui Devin è senza dubbio uno degli alfieri più rappresentativi.

A cura di Morningrise

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