"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

30 ott 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: FUNERAL TEARS

 


Ventisettesima puntata: Funeral Tears - "Your Life My Death" (2010) 

Come già detto per i Remembrance, giunti a questo punto della rassegna non è facile parlare di funeral doom ed evidenziare adeguatamente le specificità di certi artisti: mi riferisco, in particolare, a coloro che sono portatori di un suono ortodosso ed aderente in pieno agli standard del genere. 

Ciò ovviamente non significa che suddetti artisti non siano meritevoli di essere approcciati, anzi, come si diceva, se abbiamo deciso di includerli nella nostra rassegna il motivo è proprio perché ne vale la pena. E pazienza se non sappiamo cosa scrivere al riguardo! Del resto, quando le dita arrancano lungo la tastiera del pc alla ricerca di parole o anche concetti che restituiscano freschezza al lettore dopo avere trattato una venticinquina di altri album dello stesso genere, la cosa più semplice da fare è lasciar “parlare” la musica, ascoltare il disco e farsi un’idea propria. Ma il nostro problema rimane tale: come approcciarsi per iscritto ai Funeral Tears?

Possiamo partire dicendo che vengono dalla Russia, anzi, che proviene dalla Russia, visto che si parla di una sola persona, tale Nikolay Seredov. Il Nostro sembra cavarsela assai bene con tutti gli strumenti e con il debutto “Your Life My Death” (anno 2010) confeziona un prodotto completo, bilanciato e - cosa da rimarcare - ispirato nella scrittura, tanto da divenire un piccolo classico nella storia recente del funeral doom. 

Come già visto con Comatose Vigil ed Abstract Spirit, il funeral doom russo si presenta spesso nella sua accezione più compatta, pragmatica, aderente ai dettami tipici del genere senza perdersi in grandi divagazioni. Non si sottrae alla suddetta regola il progetto Funeral Tears, che fin dal monicker sembra voler rivendicare la fiera appartenenza al genere. E certo un titolo come “Your Life My Death” non lascia adito a dubbi in merito agli umori contenuti nelle cinque lunghe tracce proposte (con durate che oscillano fra gli otto minuti e mezzo e i quasi dodici). 

Quello che tuttavia possiamo dire a favore del buon Seredov è che il Nostro riesce ad incarnare la quintessenza del funeral doom, senza ricordare in modo particolare questo o quel nome, muovendosi in un luogo indeterminato collocato tra gli Shape of Despair e i Catacomb. Egli risulta decisamente a fuoco nello sviluppare la sua musica, complice probabilmente il fatto di avere il controllo assoluto del processo creativo. I brani sono dotati di una loro ragion d’essere, distinguibili l'uno dall'altro, impreziositi da linee melodiche ricercate e temi che si ripetono al momento giusto: componenti, queste, che rendono fruibili composizioni caratterizzate da tempi assai lenti e riff corpulenti. Il mix è letale e, pur costeggiando i confini della asfissia, regge per la maggior parte dell'album e solo nello scorcio finale, comprensibilmente, l'opera inizia a mostrare qualche crepa, rischiando di esondare verso i lidi della prolissità. 

Vengono qui rielaborate le lezioni dei primi Paradise Lost e dei primissimi Katatonia (forse richiamati anche dallo stile della copertina, chissà), con una chitarra solista spesso presente ad illuminare il cammino (si pensi all’ottima openerCold Winter Wind” – aperta, non a caso, dal sibilare del vento) e circostanziati, ma provvidenziali, interventi di chitarra arpeggiata a dare “aria” a certi passaggi (emblematico l’esempio della bellissima title-track, ove gli arpeggi guadagnano spazi importanti inserendosi nelle trame vischiose della chitarra ritmica). 

Le tastiere ci sono, ma non ricoprono quasi mai il ruolo delle protagoniste, fungendo da cupo involucro chiamato ad ispessire ulteriormente il suono. Dalla voce non v’è da aspettarsi grandi variazioni, si ha il classico growl profondissimo tipico del funeral, che certo non scomporrà chi è avvezzo a tali sonorità. Rispetto ad altri “scarichi di lavandino”, il Nostro riesce tuttavia a dare un certo grado di espressività ai suoi grugniti, padroneggiando molto bene le sue corde vocali e raggiungendo risultati degni di nota sia in termini di potenza che di “dinamica”, nel senso che non si ha mai l’impressione di un "gorgogliare senza senso" in sottofondo, ma anzi si ha la sensazione che qualcuno stia addirittura cantando! Quello di Seredov sembra il lamento di un titano che, in modo sommesso, ci fa partecipi dei suoi insanabili dolori, andando ad esasperare intriganti scenari gothic-doom di matrice novantiana

Che si tratta di una one-man band lo si percepisce per la rigidità con cui vengono seguiti certi schemi che sono inequivocabilmente frutto di una mente unica, ma come impatto sembra di avere a che fare con una band vera e propria, sia per la qualità esecutiva che si registra in tutti i reparti (certo, la batteria si muove attraverso moduli elementari, ma lo fa con intelligenza e senso della misura) sia perché il Nostro decide intelligentemente di eludere i mali dell’eccessivo minimalismo (a volte anche ostentato) che offre in genere chi agisce in solitaria. Non vi è dunque da aspettarsi una eccessiva ripetitività né estenuanti derive ambient a diluire il tutto: in nemmeno 51 minuti si hanno condensate idee e soluzioni che alla fin fine rendono l’ascolto scorrevole, ammesso che si sia propensi ad acclimatarsi entro l’atmosfera di disperazione e totale assenza di speranza che pervade l’album. 

Insomma, a me questi Funeral Tears non dispiacciono, ovviamente rimangono pane per i denti dei super-appassionati del genere, ma mi sento di consigliarli a tutti coloro che del funeral doom amano un approccio ponderato, pragmatico e privo di dispersioni. 

(Vai a vedere le altre puntate della rassegna)