Meno quattro: Anathema - "Serenades" (1993)
E’ strano trovare un nome come quello degli Anathema all'interno di una rassegna sul funeral doom. E’ strano perché da almeno cinque lustri la band inglese non ha più niente a che fare con il metal estremo, ed oggi si trova in una posizione assai distante persino dal metal in generale, grazie ad un processo di mutazione costante che ha finito per condurla dalle parti dei Radiohead (altro nome che non vorremmo mai leggere in una rassegna sul funeral doom...). E non ci stupiamo che i Nostri ad un certo punto del loro cammino abbiano deciso di riformulare il proprio monicker in Ana_Thema, proprio per distaccarsi dai minacciosi ed anticlericali toni degli esordi.
Ma prima della svolta compiuta dall'EP “Pentecost III” (1995), dove sarebbe stato abbracciato il paradigma della psichedelia pinkfloydiana ed avviato così un processo di progressiva emancipazione dalle sonorità del metal estremo, vi sono stati un paio di ottimi lavori che ancora potevano essere inclusi nell'alveo delle sonorità doom-death, ossia l’EP “Crestfallen” (del 1992) e il full-lenght di esordio “Serenades” (dell’anno successivo): due lavori gemelli che, nella variegata discografia degli inglesi, costituiscono un corpus unico e distaccato.
Gli Anathema degli inizi, pur suonando pesantissimi, si erano già in parte distaccati dal death metal. Le coordinate sembravano passare più da una estremizzazione del doom classico che da un rallentamento della stessa materia death metal: nei fatti ci troviamo nel bel mezzo delle due cose, con nomi come Paradise Lost e Cathedral a fungere da punti di riferimento obbligati. Il resto lo faceva la produzione rozza e potente della Peaceville, attentissima all’epoca ad intercettare le migliori energie nell'ambito del doom estremo.
C’erano sicuramente sia una unità di intenti che una forte consapevolezza da parte della band, ma anche una innata predilezione per ambientazioni romantiche ed atmosfere struggenti, cosa che si traduceva in una seducente esplorazione melodica. Vi era inoltre - a mio parere - un motivo di natura tecnica alla base di questo loro stile peculiare: le carenze dietro alle pelli di John Douglas. E questo si notava in modo particolare agli inizi, dove era palese che il Nostro non possedeva il bagaglio tecnico di un batterista death metal (si pensi invece ad un Rick Miah dei My Dying Bride). Condizione, questa, che rendeva quasi obbligata la via di un drumming lento, secco, zoppicante, privo di cambi di tempo e tanto meno di passaggi in doppia-cassa. Nei fatti gli Anathema andavano più lenti degli altri: non una lentezza esasperante, la loro, ma costante, faticosa, trascinata.
Quella che poteva essere una debolezza, si rivelò essere un elemento che rendeva ancora più peculiare una proposta già di per sé molto personale. Partiamo dalle chitarre: i fratelli Daniel e Vincent Cavanagh delineavano il profilo del suono anathemiano con riff lenti, rocciosi, ancora spigolosi ma profondamente ispirati. Soprattutto Daniel (principale song-writer della band in questa prima fase) avrebbe animato le composizioni con un inusuale senso melodico, soprattutto intuibile da certi ricami solistici e poi rinforzato dall'uso delle tastiere, suonate con spirito dilettantistico, ma capaci di rendere ancora più intrigante il suono della band. Duncan Patterson, futuro ispiratore della svolta pinkfloydiana della band, ancora non emergeva dalla oscura cappa delle chitarre, trovando il suo basso pochi spazi per esprimere le proprie visioni. Si rifarà nei lavori successivi.
Non dobbiamo a questo punto dimenticarci che la prima fase artistica degli Anathema si caratterizzava anche per il marchio impresso dalle ruvide corde vocali di Darren White, animo da poeta e voce da orco. Il suo grugnito è ovviamente il collegamento più diretto all’universo del metal estremo, ma il suo era un growl diverso da quello degli urlatori del death metal: era un growl sofferente, strascicato, quasi scandito per sillabe (forse anche qui per limiti di natura tecnica), ma incisivo e capace di dispiegare con trasporto le belle (bellissime) liriche. Quella voce diveniva inevitabilmente espressione di una spossatezza esistenziale che non lasciava spazio alcuno alla speranza.
L’equilibrio compositivo è un altro pregio degli Anathema di “Serenades”, che vedeva in scaletta brani ben strutturati ed asciutti, ognuno capace di brillare di luce propria. Basti citare episodi come “Lovelorn Rhapsody”, “Sweet Tears” (la mia preferita) e “They (Will Always) Die” (riproposizione della “They Die” già presente nell’EP precedente). Non mancano i diversivi a spezzare l’incedere monolitico dall'album (e ad anticipare quello che la band sarebbe divenuta a breve). “J’ai Fait une Promesse” è un raggio di tiepida luce nella notte più profonda: mai la "casa del metal estremo" aveva ospitato qualcosa di così dolce e sognante. Si tratta di un breve intermezzo acustico baciato dalla soavissima voce di Ruth Wilson (la voce femminile sarebbe poi divenuto un elemento costante nell'evoluzione degli Anathema, tanto che da un certo punto la band avrebbe assoldato in pianta stabile la cantante Lee Douglas, sorella del batterista).
“Sleepless” è un brano dall’andamento post-punk sorretto da arpeggi inquieti e dall’incalzante basso di Patterson in uno dei pochi momenti di visibilità. Qui White, in modo incerto, tenta la via delle vocalità pulite, delineando scenari che diverranno consuetudine per la band. “Scars of the Old Stream”, infine, si giova della rarefazione della chitarra solista e del sofferto recitato di White per anticipare in piccolo (solo un minuto e dieci secondi la durata) le ambientazioni lacrimevoli del successivo “Pentecost III”. Non menzionerei, fra gli esperimenti riusciti, il lungo outro “Dreaming: the Romance”: suite ambient di 23 minuti per sole tastiere che trasforma un validissimo album di doom-death in una seduta di yoga.
Non è una questione di metal, forse è solo una questione di musica. All’epoca gli Anathema aderivano agli stilemi del nascente doom-death, forse per semplice predisposizione, forse perché tale ambito assecondava la loro inclinazione nei confronti di sonorità decadenti e sognanti. Una direttrice che a scapito delle apparenze sarebbe stata percorsa con coerenza fino ai giorni nostri: gli Anathema avrebbero infatti cambiato pelle ma non lo spirito. Una forte personalità e il coraggio di esprimerla non sono mai mancati: tutto si può dire degli Anathema, ma non che stessero bene in gabbie stilistiche precostituite.
Il doom-death e di seguito il gothic-metal sarebbero al contrario divenuti presto un coacervo di cliché. Questo, come appena detto, non fu il caso degli Anathema, che avrebbero abbattuto barriere, aperto porte, finendo per tracciare, insieme agli Ulver, una delle parabole più entusiasmanti che una band metal potesse compiere nel proprio percorso di emancipazione dal metal stesso. La cosa sorprendente (riconducibile alla grandezza intrinseca della band) è che il loro operato non sarebbe passato inosservato nemmeno a coloro che avrebbero poi imboccato la via brutale del funeral doom. Ascoltando infatti le svariate band dedite a questo genere, spesso i primi Anathema verranno inaspettatamente in mente, soprattutto quando ci si imbatterà in passaggi evocativi, paesaggistici, spudoratamente romantici ed intrisi di intimità.
Ebbene sì, anche il funeral doom ha un cuore...