"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

17 giu 2024

PORTALS FESTIVAL - 25/05/2024: UNA GIORNATA DI POST-ROCK ED ORECCHIE ROTTE

Sabato 25 maggio. Mentre in Italia si celebrava il più grande rito collettivo che il rock (in senso classico, classicissimo) potesse conoscere in territorio nazionale nell’anno di grazia 2024 (mi riferisco ovviamente alla data italiana dei mitici AC/DC), in quel di Londra si ha avuto un altro tipo di evento: la celebrazione di quella che potremmo definire l’antitesi della forma classica del rock da arena, se per essa intendiamo formato canzone, hit e ritornelli da cantare in coro. 

Parlo del Portals Festival, oramai una istituzione nella capitale inglese ed imperativo categorico per qualsiasi appassionato di sonorità post-rock, post-metal, math-rock e derivazioni varie. In altre parole: lunghe suite strumentali, poche voci, pochissimi ritornelli, introspezione, deflagrazioni. L’edizione 2024, articolata nelle due consuete giornate, avrebbe visto come headliner i This Will Destroy You sabato e gli If These Trees Could Talk domenica. Come avrete capito ho "timbrato il mio cartellino" per la giornata di sabato. 

La giornata del 25 maggio è stata per il sottoscritto decisamente diversa rispetto a quella vissuta dai 110mila accorsi all'Arena Campovolo in provincia di Reggio Emilia per vedere Angus Young e soci: pubblico selezionato di qualche centinaio di persone, prossimità al palco, bar a portata di mano, zero attese, tantissima varietà sonora con decine di artisti e band che spaziavano dalle varie declinazioni del post-rock e del post-metal fino al jazz e all’elettronica, con persino un pizzico di black metal (ma di questo diremo poi). Un plauso per l’organizzazione con esibizioni puntuali, gestione ordinata degli spazi, cibo rigorosamente vegano, toilet neutral gender ed altre sofisticherie sempre gradite e che ti fanno sentire in un mondo civile. Cornice del tutto, l’Earth di Hackney, una delle venue più popolari per gli amanti delle “altre sonorità”, dotato di ben tre ambienti: la “Hall”, ossia la sala concerti per i gruppi principali, il “Theatre”, suggestivo anfiteatro per i gruppi secondari, e la “Kitchen”, zona ristoro dotata anch’essa di un piccolo palco dove hanno trovato spazio i gruppi minori. Risultato: musica ovunque, musica sempre, musica senza tregua, spostamenti continui fra i tre diversi ambienti e sempre qualcuno accanto a te che suona. Sottovalutando la situazone, mi sono presentato bello baldanzoso intorno alle due e mezzo del pomeriggio, non prevendendo che per me sarebbe stata una estenuante maratona di 10 ore di musica ininterrotta: quasi una tortura, potremmo dire, se non fossi un irriducibile appassionato dei volumi alti

Il primo appuntamento nella mia agenda è con gli Orchard, giovane band da Brighton. Lucy Evers è indubbiamente il sogno erotico di ogni sfigato nerd indie-rocker sul pianeta terra: ragazzetta acqua e sapone, occhiali e grandi sorrisi da un lato, ma anche molti tatuaggi, pearcing tattico al naso e belle forme trapelanti da un vestito aderente in jeans. C’è ingenuità e gioventù sul palco (del resto i ragazzi si sono formati nemmeno dieci anni fa ed hanno all’attivo un solo full-lenght ed un pugno di singoli ed EP), ma nel poco tempo a disposizione il quartetto dà il massimo. E devo dire che i ritmi pulsanti di basso e batteria e le melodie sbilenche di chitarra con il canto disimpegnato e i ritornelli contagiosi della Evers sono il miglior modo per iniziare la giornata e scaldare i motori. 

Si passa al Theatre e già si registra il primo highlight della giornata con i Din of Celestial Birds, una band che avevo scartato nel mio programma originario, ma a cui ho voluto dare una chance last minute. Il quintetto inglese offre un poderoso post-metal strumentale che, nonostante la prevedibilità, colpisce per impatto e trame melodiche. Con tre chitarre ed enfatici tappeti di tastiera, del resto, i Nostri hanno l'armamentario adatto per ergere stratificazioni di suono importanti ed intrecci anche complessi: il risultato sono i classici crescendo che da un arpeggio si tramutano progressivamente in devastanti muri di suono. Certo, si tratta del giochino più vecchio del mondo, ma nel loro caso gli esiti sono stati innegabilmente coinvolgenti. “The Night is for Dreamers”, del 2023, è il loro unico album e sicuramente lo andrò ad approfondire. Non ho avuto modo di assistere alla loro intera esibizione in quanto mi son voluto trovare pronto per il gruppo successivo nella Hall, ma la scena del sottoscritto che scende con grandi falcate gli scalini dell’anfiteatro con le mani epicamente alzate al cielo a domare la potenza sonora sprigionata dal palco rimarrà una delle scene più emblematiche del festival (o almeno questo è quello che mi piace raccontare). 

Eccoci agli Årabrot. Si può dire tutto degli Årabrot ma non che vogliano apparire norvegesi, quali in realtà sono. I Nostri, infatti, si presentano in perfetta tenuta southern gothic, con Kjetil Nernes (chitarra e voce) in completo bianco e cappello da cowboy, e Katrin Park (vecchia conoscenza, avvistata da solista come spalla dei Brutus) in gonnellona e svolazzanti abiti in stile far west ad occuparsi di tastiere e voci. A supportarli troviamo solo un batterista, in quanto grazie alle frequenze pulsanti fagocitate dai sintetizzatori della instancabile Park si è in grado di far a meno delle linee di basso. Il duo strega con un genere indefinibile che, volendo elencare le influenze dichiarate dagli stessi musicisti, sa mettere insieme Melvins, Swans, The Birtday Party, Death in June e il cantautore country-folk Lee Hazlewood. In altre parole un noise-rock apocalittico e visionario che fa leva sul carisma e le movenze sciamaniche dei due protagonisti sul palco. Un bel set che scorre bene fra ritmi meccanici, riffoni rock/stoner, chitarre fuzzettose e ritornelli anthemici, fra cui spicca quello della bombastica “We Want Blood”. Da segnalare i frangenti in cui la Park ha impugnato il microfono e ha assunto il ruolo di protagonista sulle assi, sfoderando rabbia, adrenalina, carisma ed un indomito spirito punk. L'esibizione degli scandinavi, in conclusione, sarà ricordata come una tamarra quanto gradevole variazione in una giornata consacrata a ben altre sonorità, bravi! 

Nel mio programma sarebbe stato a questo punto il turno di una boccata d'aria all'aperto, ma purtroppo non mi è stato concesso, in quanto a partire dalle 5pm non sarebbe stato permesso rientrare: un vero paradosso in una delle poche giornate di sole a Londra in questa primavera terrible! Mi son dunque dovuto sorbire parte dell’esibizione di Yama Warashi, nome di battaglia di tale Yoshino Shigihara, artista giapponese di stanza a Londra di cui avevo ascoltato qualcosa e dalla quale sarei voluto rimanere volentieri alla larga. Il terzetto tutto al femminile (oltre alla cantante/tastierista abbiamo una bassista ed una batterista) offre un dotto mix di musica tradizionale giapponese, psichedelia e free-jazz, ma sinceramente le pessime impressioni che avevo avuto ascoltando qualche brano in rete si confermano sulle assi del palcoscenico. E sebbene abbia preso con filosofia la situazione, sdraiato sugli scalini dell’anfiteatro per riposare almeno le membra, dopo una ventina di minuti di miagolii e trame sonore inconcludenti, mi son visto costretto a fuggire a gambe levate nella Hall ad assistere al soundcheck del gruppo successivo frammisto a musica in filodiffusione, esperienza uditiva di gran lunga preferibile. 

Eccoci sotto al palco per gli Enemies, dietro al cui minaccioso monicker si celano in realtà quattro guasconi dediti ad un post-rock strumentale nella media. I Nostri, tuttavia, si muovono con la sicurezza di un act storico, facendosi forza grazie ad un nutrito stuolo di aficionados. Dalla loro biografia appendo che questi giovani irlandesi, attivi dal 2007, si sono sciolti nel 2016 per poi riformarsi nel 2022, sarà per questo che l’evento assume il sapore del gradito ritorno. Devo ammettere che anche a me stanno simpatici e che da quello che ho potuto ascoltare li ho trovati a tratti emozionanti, per quanto la loro proposta non mi abbia certo fatto saltare dalla sedia. Non siamo di fronte ad un epico e paesaggistico monolito sonoro in stile Din of Celestial Birds, ma ad un post-rock dalle solide sfumature "matematiche" ed indie rock, con brani brevi, saltellanti, spigolosi, ben strutturati, ben suonati. Una bella oretta di allegria, non c'è che dire.

Le orecchie iniziano a dolere, pertanto decido di saltare il gig successivo per mettere qualcosa sotto i denti, realizzando però che dalla musica non ci sarà scampo nemmeno in questo frangente visto che nella sala ristoro, mentre faccio la fila per il mio buon panino vegano, suona Atsuko Chiba, peraltro autore di un pregevole post-rock, fluido ed elettronico ai limiti dell’ambient e della psichedelia, al quale tuttavia avrei francamente preferito il silenzio. Paradossalmente, io che non sono un fumatore, al fine di ritagliarmi qualche momento di aria “pura” mi vedrò costretto a rifugiarmi nella zona fumatori, adibita su un piccolo terrazzo (ah, il sole, quella palla luminosa...). Per raggiungere nuovamente la Hall son costretto a passare dal Theater (mi sento veramente assediato dalla musica!) dove incrocio per sbaglio i Town Portal, che per quel poco che ho sentito hanno offerto l’ennesima variazione di post-rock della giornata: il terzetto inglese mi è parso in forma, con geometrie squadrate e bassi taglienti in progressioni strumentali dal devastante incedere, più math-rock che post-rock devo dire. 

Eccomi dunque al primo piatto forte della giornata, ossia i LITE, gloria nipponica del math-rock. Nobuyuki Takeda (chitarra), Kozo Kusumoto (chitarra e sintetizzatori), Jun Izawa (basso) e Akinori Yamamoto (batteria) danno del tu ai propri strumenti, in particolare il bassista sarà responsabile di una prova fenomenale percuotendo il proprio strumento senza pietà, con dita che scorrono alla velocità della luce lungo il manico e violente slappate. Il math-rock dei LITE è cervellotico, raramente si abbandona ai languori del post rock più sentimentale rivelandosi per lo più roboante, torrenziale, animato da continui cambi di tempo ed uscite frequenti in territori prog e jazz, tutto rigorosamente in veste strumentale (salvo un paio di brani cantati). Sebbene non conoscessi molto il repertorio (mi ero limitato ad ascoltare quello che pare essere il loro lavoro di maggior pregio, ossia “Phantasia” (2008) - ascolto che consiglio caldamente a tutti voi!) e l’atteggiamento della band fosse molto freddo e distaccato rispetto al pubblico (ma credo soprattutto per una questione culturale), la musica riprodotta sul palco mi ha esaltato non poco, sopraffacendomi con le debordanti capacità tecniche dei musicisti. Probabilmente la migliore performance della giornata. 

Tecnicamente potrei essere anche a posto, ma non è finita, ci sono altri gruppi pronti a salire sul palco. I prossimi sono gli Slow Crush, che ebbi già modo di vedere al Beyond the Redshift dei Cult of Luna lo scorso novembre. C’è da dire che il quartetto belga rende molto meglio nell’ampio anfiteatro dell’Earth rispetto al più contenuto Dome. Il loro shoegaze (fortemente debitore dei maestri Slowdive) qui sembra dispiegare le sue ali in tutta la sua potenza e librarsi in volo, aiutato dai bellissimi giochi di luci. Tramite una nutrita stenderia di faretti posti sul palco e rivolti verso il pubblico, sono stati proiettati lunghi fasci di luce blu che dal basso si sono estesi per le pareti fatiscenti dell’ampia sala generando un effetto veramente suggestivo e calzante con la musica della band, che ha contrapposto potenti melodie di chitarra alla voce eterea della bassista Isa Holliday (e ci tengo a precisare che ogni band ha goduto di un assetto di luci diverso con risultati sempre esaltanti). Ma anche nel caso dei pur bravi Slow Crush si è trattato di una colonna sonora temporanea nel mio viaggio verso la distruzione dell’apparato uditivo: giusto il tempo di un paio di brani e poi pronti in prima fila, nella Hall, ad aspettare l’arrivo degli headliner della giornata, i This Will Destroy You

Gli americani si sono presentati davanti al pubblico londinese per la seconda volta pochi mesi dopo la data all’Electric Ballroom con i The Ocean, questa volta forti di una scaletta costruita con le preferenze dei fan (circa un mese prima dell’evento era stato inviato ai possessori dei biglietti un link per accedere ad una piattaforma di voto online per scegliere i brani che si sarebbe voluto vedere dal vivo, e a cui io stesso ho partecipato). Beh, stando alla scaletta finale, c’è da dire che i fan sembrerebbero rimanere fondamentalmente affezionati ai primi due album del combo texano, visto che 9 brani su 11 verranno estratti dal debutto omonimo e da “Young Mountain”. Anche in questo caso non si bada ai fronzoli, con la band che cura personalmente il proprio sound-check. Al centro della scena campeggiano le tastiere di Jesse Kees, diviso fra le stesse e il basso. Sulla sinistra seduto placidamente su un amplificatore troviamo come al solito Christopher Royal King e la sua chitarra sulle ginocchia mentre sulla destra staziona l’altro chitarrista Geremy Galindo

Diciamo però che si parte male. O meglio, l’inizio con il classico “A Three-Legged Workhorse” è appagante e subito dà l’impressione che sul palco ci sia una realtà iper-consolidata del post-rock/post-metal, con suoni potenti ed una esecuzione precisa, sicura, quadrata. Ma proprio sul più bello, ossia al culmine del primo grande crescendo, un suono assordante impone alla band di fermarsi e risolvere il problema tecnico, cosa che richiederà un bel po’ tempo, oserei dire dieci minuti buoni, con musicisti e crew abbastanza indaffarati a capire quale fosse il bug. Risolta la questione si riparte, ma è come se l’accaduto avesse in qualche modo tolto concentrazione ai musicisti, che da quel momento mi sono sembrati più timidi ed insicuri nell’esecuzione. O forse è stata solo una mia impressione, fatto sta che pezzi da novanta come “Threads” (fra i miei preferiti della band, con le sue melodie commoventi nel finale) e “The Mighty Rio Grande” passano un po’ in sordina, concludendosi anche in modo troppo frettoloso. La situazione migliorerà brano dopo brano, ma c’è da dire che i This Will Destroy You, che a me piacciono per la loro potenza, per la bravura nel maneggiare le dinamiche di tensione e rilascio, per il contrasto fra vuoti e pieni, non sono dei grandi compositori, cosicché i brani tendono ad assomigliarsi perseverando nello schema incipit atmosferico/crescendo/esplosione finale. 

Il discorso cambia con gli ultimi due brani che meritano un discorso a parte. “New Topia” (da “Another Language”) mostra soluzioni finalmente inedite, con addirittura un passaggio in blast-beat che scuote i presenti. E poi, alla fine, c’è lei, “Little Smoke” (da “Tunnel Blanket”) che è senza dubbio il mio brano preferito della band e il motivo per cui mi trovo qui al Portals. Dopo una lunga escursione ambient, ecco che l’esplosione delle chitarre porta al collasso totale, ad una marcia imponente, lenta nell’incedere ma spietata nell’accumulare tensione mano a mano che trascorrono i minuti. Le luci accompagnano l’apocalisse sonora con flash accecanti da attacco epilettico, mentre i quattro musicisti scatenano l’inferno sul palco, con Kees a suonare il basso a suon di poderosi arpeggi come se fosse una chitarra e Galindo piegato per terra a generare raffiche di rumore attraverso manopole ed effetti, per poi riprendere la sua chitarra e rinvigorire un muro di suono già di per sè difficilmente sopportabile. Un'esperienza che ripaga di tutte le incertezze percepite durante il set, indubbiamente l’apoteosi di questa prima giornata del Portals. Certo, uscito di qui dovrò sicuramente rivolgermi ad un consulente Amplifon per vedere cosa è ancora possibile fare per il mio udito ma come premio di consolazione ho avuto modo di rimediare una bacchetta del batterista, afferrata al volo nel consueto lancio degli oggetti nel finale (sensazione non inedita per il sottoscritto, in quanto già in passato riuscii a rimediare bacchette di Cradle of Filth e Kreator - sti cazzi, direte voi).  

A questo punto davvero potremmo andare a casa soddisfatti, ma non è ancora finita: per un puro scherzo del destino dopo tanto “rumore” al Theatre avrà luogo l’esibizione più dura della giornata, ossia quella dei danesi MØL, che porteranno dell'arcigno black metal sul palco del Portals. Sulla carta blackgaze, nei fatti i Nostri pestano molto, tanto che le loro inflessioni post- si scorgono a fatica fra melodie accattivanti perse nel marasma delle distorsioni o brevi fasi arpeggiate schiacciate dalla tempesta di ritmiche indiavolate e dalla fisicissima performance del singer Kim Song Sternkopf. Li avevo ascoltati a casa derubricandoli alla voce “gruppetto carino”, ma dopo una giornata così lunga e tutto sommato sofisticata, fa impressione trovarsi di colpo al cospetto della ferocia del black metal, per la violenza, per il senso di rituale che aleggia nell’aria, anche per via delle sulfuree luci rosse. Se all’inizio, esausto, mi sono ritrovato a subire la situazione più che a goderne, devo dire che la band danese è stata in grado di conquistare il mio entusiasmo pezzo dopo pezzo, spingendomi a raccogliere le mie ultime gocce di energia ed andare vicino al palco ad osservare da più vicino le movenze da invasato di Sternkopf, oramai a torso nudo (e dire che aveva iniziato dandosi un tono con una felpa bianca) ad aizzare insistentemente il pubblico agitando nell’aria la lunga asta del microfono. La gente stranamente sembra gradire e scintille di pogo si accendono qua e là, "festa di corpi sudati e saltellanti" alla quale io non parteciperò per senso del decoro. 

Alla fine anche loro lasciano il palco (salvo il cantante che, dismesse le vesti del malefico cantore di afflizioni umani si è messo a sfarfallare allegramente con due tipe in prima fila), siam contenti, ma anche basta. Una sgradita quanto inaspettata pioggia mi attende fuori dal locale (e dire che era stata una giornata di sole!). Mi metto alla ricerca di qualche mezzo per tornare a casa ed infilarmi finalmente nell’anelato letto, perdendomi per le vie ancora affollate di East London fra fieri esponenti del movimento LGBTQ+, ragazzine agghindate che si avviano sghignazzando verso fantastiche serate danzanti e clochard che mestamente rovistano nei bidoni della spazzatura: un mondo apparentemente incurante delle grandi emozioni che si sono consumate all’interno dell'Earth, come se si fosse trattato di una dimensione parallela per raffinati cultori di musica.

Nel cuore, nonostante la stanchezza e il fruscio nelle orecchie, un solo pensiero: Portals, ci vediamo l’anno prossimo!