Fa un effetto strano riproporre una immagine in bianco e nero di artisti che, in modo iconico, si sono affermati nell’immaginario collettivo attraverso una variopinta estetica Bauhaus (palese nel look, nelle copertine degli album, nelle immagini proiettate durante le esibizioni dal vivo). Dovevamo del resto rispettare un cliché delle nostre Guide Rapide per Metellari, rigorosamente introdotte da una foto o un disegno in bianco e nero dell’artista di volta in volta trattato. Come se le tonalità che vanno dal bianco al nero, passando per il grigio, volessero rivelare un’anima oscura di artisti molto popolari, attirando così l’attenzione del metallaro, in genere attratto dal lato "oscuro" delle cose.
Con i Kraftwerk il gioco riesce peggio del solito, anche perché le connessioni dirette con il metal sono pressoché inesistenti. Non staremo pertanto a ricercare con il lanternino tracce dirette della loro influenza su artisti metal. Parliamo dei Kraftwerk semplicemente perché è impossibile non farlo, considerata la loro importanza per la musica popolare del novecento & beyond... La loro musica, del resto, porta con sé un carattere universale che non potrà lasciare indifferente nessuno, nemmeno il metallaro che sia disposto a prendere armi e bagagli, scavalcare il recinto e passare nel territorio del “nemico”: l’elettronica.
Sono stati loro, e non artisti precedenti o a loro coevi, a plasmare un suono che sarebbe divenuto il linguaggio comunemente “parlato” da chiunque successivamente avesse voluto cimentarsi con l’elettronica. A loro si riconduce - direttamente o indirettamente - la nascita del synth-pop, della new-wave, della darkwave, della disco-music, della house-music, della techno, della musica ambient, dell’industrial, del rock elettronico, di forme successive di elettronica d’avanguardia, persino dell’hip-hop e chissà quante altre cose che non mi vengono in mente.
Eppure non è difficile descrivere il suono dei Kraftwerk: dovessi spiegarlo ad un bambino di dieci anni direi che la loro idea è stata di lavorare sull'integrazione di elementi ritmici reiterati (i beat della drum-machine) e temi melodici (di tastiere e sintetizzatori) tanto semplici quanto geniali. Certo, c’è molto di più: c’è la conoscenza della grammatica della musica (i Kraftwerk vengono da studi classici) e della tecnologia (considerato che quei suoni sono stati frutto di apparecchiature di utima generazione o addirittura progettate per la band stessa).
Entrare nel mondo dei Kraftwerk non è complicato, volendo la loro discografia (una decina circa di album in più di cinquant’anni di carriera!) potrebbe essere ascoltata in una giornata, trattandosi peraltro di tomi abbastanza brevi. Volendo ci si potrebbe limitare alle tre o quattro opere più significative. Volendo - e questo è il consiglio che vi do - si potrebbe partire dal doppio live-album “Minimum Maximum” del 2005: un documento epocale che mette in fila i brani più belli ed importanti della loro carriera riletti e potenziati alla luce degli sviluppi tecnologici intercorsi negli anni. In altre parole: il compendio perfetto per cogliere in un paio d’ore la potenza del suono e delle idee dei Kraftwerk.
Premesso questo, adesso andremo a ripercorrere la parabola di questo suono: un cammino che, per semplicità, potremmo suddividere in tre fasi: un primo periodo di “rodaggio” in cui i musicisti hanno “scaldato i motori” transitando dal kraut-rock delle origini ad un suono più prettamente elettronico. Vi è stata poi la fase della maturità, in cui quel suono elettronico tanto innovativo è stato messo a punto e perfezionato. Infine un’ultima fase di normale "amministrazione artistica" con lavori sempre pregevoli ma oramai privi di quel potenziale rivoluzionario che avevano posseduto i loro predecessori. Uno schema che ci aiuta a rileggere la storia di questa band leggendaria ma che non va preso troppo sul serio in quanto, a guardar bene, il cammino dei Kraftwerk non ha proceduto per strappi, ma è stato un continuum coerente dal suo prologo fino alla piena maturazione e persino nella decadenza, se così la possiamo chiamare.
Tutto ha inizio nella fine degli anni sessanta a Düsseldorf dove due brillanti studenti della Robert Schumann Hochschule, Florian Schneider e Ralf Hütter, si incontrano e decidono di avviare una collaborazione artistica, inserendosi così in quel fenomeno di musica sperimentale che, proliferando nella Germania degli anni settanta, verrà ricordata nella storia come kraut-rock: bacino ampio di sonorità a cui verranno ricondotti nomi come Can, Faust, Amon Duul II, Neu!, Tangerine Dream, Cluster, Ash Ra Tempel, Popol Vuh, Klaus Schulze, così come gli stessi Kraftwerk.
Prima dei Kraftwerk, tuttavia, vi furono gli Organization, quintetto in cui già militavano i due musicisti e che partorì un solo album, “Tone Float”, rilasciato nel 1970. Quando per affinità artistiche Schneider e Hütter decisero di mettersi “in proprio” e fondare i Kraftwerk le sonorità da loro esplorate erano ancora radicate a sperimentazioni di matrice avanguardista e vicine al modus operandi del maestro ispiratore dei due, il compositore classico Karlheinz Stockhausen. C’è da dire che in questa prima fase è stata influente la mano del produttore Konrad "Conny" Plank, figura di spicco nelle scene kraut-rock e kosmische music di inizio anni settanta (oltre che con i Kraftwerk avrebbe lavorato con Neu!, Cluster, Harmonia, Ash Ra Tempel, Guru Guru, Kraan e altri, per poi passare alla new wave di D.A.F., Eurythmics and Ultravox successivamente - mentre come musicista ha militato nel progetto Moebius & Plank). Anch’egli fu un pioniere dell’elettronica, sperimentatore di suoni inediti sia utilizzando strumenti non convenzionali che tramite il trattamento degli stessi (in particolare le percussioni) o generando effetti distorti tramite la manipolazione successiva dei nastri.
Sotto questi auspici nascono i primi tre album dei Kraftwerk, in parte rinnegati dalla band e liquidati come “archeologia” (né quei titoli sarebbero stati ufficialmente ristampati né le tracce in essi contenute sarebbero poi state eseguite successivamente dal vivo). Nel debutto “Kraftwerk” (1970) troviamo Hütter (organo, chitarra, tubon) e Schneider (flauto, violino, percussioni) in compagnia di due batteristi: è interessante notare come certe caratteristiche di quello che sarebbe divenuto il classico sound dei Kraftwerk (un certo grado di ossessività ritmica, la reiterazione di temi melodici secchi e spigolosi) fossero già qui presenti, ma prodotti con una strumentazione acustica (come organo e flauto) e non elettronica. Questo è quello che si realizza con l’opener “Ruckzuck” mentre una suite come “Stratovarius” (niente a che fare con Kotipelto e soci!) mostra l’altra faccia della medaglia, ossia dodici minuti di rarefazione ambientale ed avanguardia rumorista.
Fugace nota di cronaca: per un breve iato di tempo Hütter deciderà di abbandonare il progetto, lasciando Schneider da solo con il batterista Klaus Dinger e il chitarrista Michael Rother, Questi ultimi due, tuttavia, avrebbero presto operato una ulteriore scissione fondando i “diversamente seminali" Neu!, permettendo cosi a Hütter di tornare all'ovile e ricongiungersi al sodale Schneider.
L’asse Schneider-Hütter sarebbe dunque tornato presto ad essere il cuore pulsante dei Kraftwerk. “Kraftwerk 2” (1972) vedrà la presenza dei soli due musicisti, sempre con il supporto del produttore Plank. Anche questo tomo viene realizzato senza l’utilizzo di sintetizzatori, basandosi ancora su strumenti convenzionali come flauto, chitarra, basso e violino. Lavoro discontinuo e poco omogeneo, si spiega più che altro come una serie di esercitazioni finalizzate ad esplorare nuove vie per trattare e modificare il suono: i tre musicisti, di fatto, più che focalizzarsi sul lato strettamente esecutivo, preferiscono sperimentare sui nastri, manipolandoli e processandoli, accelerando ed invertendo i suoni, ripetendoli in sequenza con la tecnica del loop. Paradossalmente l’album finiva per suonare elettronico sebbene non lo fosse affatto. Degno di nota il fatto che il titolo della imponente suite di diciassette minuti che domina la prima metà dell’opera, “Klingklang” avrebbe ispirato il nome dello studio di registrazione fondato e gestito dai due Kraftwerk.
Con “Ralf and Florian” (1973), infine, il suono si fa più elettronico grazie all’utilizzo di studi di registrazione professionali ed un uso pronunciato di sintetizzatori (Minimoog and EMS Synthi AKS), pianoforte/organo elettronico e vocoder. Nonostante anche questo capitolo verrà poi rinnegato dalla band, c’è da dire che siamo più vicini al successivo “Autobahn” che ai primi due lavori. Paradigmatico un brano come “Tanzmusik” (= “Disco Music”) che già rende palese le ambizioni della band.
Come si sarò intuito la svolta si avrà con “Autobahn” (1974) che peraltro inaugura l’iconica formazione a quattro in cui Hütter e Schneider continuavano ad avere la centralità nei processi creativi. Plank era ancora della partita, ma questa fu l’ultima sua partecipazione ad un album dei Kraftwerk. L’opera segna la transizione definitiva dal kraut-rock delle origini al nuovo paradigma elettronico fatto di sintetizzatori e drum-machine, dove tuttavia intervenivano occasionalmente ancora strumenti acustici come chitarra e flauto. Spuntano le prime voci in chiaro, ma c’è da specificare che la voce (peraltro spesso filtrata dal vocoder – altro elemento tipico del sound maturo della band) ha sempre avuto nei Kraftwerk un ruolo “ritmico” o di orpello estetico funzionale all’immaginario futuristico, tanto che non è fuori luogo considerare la loro musica prevalentemente strumentale.
Il primo lato è interamente occupato dalla mastodontica title-track di 22 minuti, capolavoro nel capolavoro, viaggio che mescola i tono rilassati di un techno-pop in divenire ed una elettronica più tesa e a tratti psichedelica (l’intenzione degli autori era di evocare le sensazioni di un viaggio in macchina in autostrada). Nel secondo lato riaffiorano i rigurgiti di certi sperimentalismi della prima fase artistica (la cupa “Mitternacht”) riletti alla luce di una accresciuta padronanza dei mezzi. “Autobahn” è anche considerato uno spartiacque nella storia della musica popolare in quanto, se prima di esso l’elettronica era stato un medium artistico riservato ad ambienti colti ed appannaggio di orecchie raffinate, adesso diveniva pop e non a caso l’album fu il primo successo della band negli Stati Uniti. Per intenderci: l’opera ebbe un grande ascendente su David Bowie che da quelle premesse avrebbe avviato la stagione della new wave. Quello che aggiungo io, e che mi lascia sempre basito, è che i Nostri suonavano già “anni ottanta” nel pieno del decennio precedente!
“Radio-Activity” (1975) è invece ufficialmente il primo album interamente elettronico, presentando la formazione storica con Karl Bartos e Wolfgang Flür alle percussioni elettroniche ad accompagnare i due fondatori. Si tratta di un concept sui temi combinati della radioattività e della diffusione della radio (chiaro gioco di parole fra radioactivity e radio activity). Da segnalare l’apocalittica "Radioactivity" con i suoi cori realizzati con la Vako Orchestron (simile al Mellotron), indubbiamente uno dei momenti più “avanti” della produzione discografica dei Nostri. Fatta eccezione per il singolo (l'appena menzionata title-track) l’album non ebbe il successo sperato e lo si spiega con la sua natura un po’ più sperimentale rispetto al suo predecessore. L’album si caratterizzava infatti per un ritorno a certi esperimenti di musica concreta à la Cage e per un approccio più ambient, cupo, oscuro. Altro fatto da rimarcare è che da questo album in poi (e fino a “Computer World”) gli album dei Kraftwerk sarebbero stati pubblicati in doppia versione, una in tedesco ed una in inglese, proprio per rendersi più spendibili sul piano internazionale.
Eccoci dunque a quello che per chi scrive (e non solo) è il capolavoro dei Kraftwerk, ossia quel “Trans-Europe Express” (1977) che era stato influenzato dall’incontro con Brian Eno e David Bowie (a sua volta influenzato dai Kraftwerk e che l’anno precedente, sulla scia delle lezioni sonore dei teutonici, se ne era uscito con il rivoluzionario “Station to Station”). Il tomo in questione ha visto il gruppo perfezionare il proprio stile elettronico focalizzandosi su ritmi sequenziati. Fondamentale l’utilizzo del Synthanorma Sequenzer, un sequenziatore che ha consentito la costruzione di linee di sintetizzatore in sequenza più elaborate e che ha dispensato i musicisti dal suonare in studio e dal vivo pattern di tastiera ripetitivi. L'opera ribadiva la vocazione minimalista dei Nostri (provverbiale la frase: "Se riusciamo a trasmettere un'idea con una o due note, è meglio che suonare un centinaio di note"), allontanandoli definitivamente dal rock progressivo. Da citare l’epocale title-track, dominata da ossessivi ritmi meccanici che vanno a mimare la marcia di un treno con le voci manipolate a fare da corollario (“Metal on Metal” ne è la naturale appendice, e non a caso dal vivo i due brani vengono eseguiti rigorosamente in coppia).
Non paghi, i Kraftwerk l’anno successivo danno alle stampe il loro lavoro più emblematico, “The Man-Machine” (1978), il quale rappresenta un ulteriore passo verso ritmi più ballabili e tentazioni synth-pop. Nei suoi 36 minuti scarsi esso inanella i momenti più iconici del repertorio dei Nostri: dall’anthemica “The Robots” alla conclusiva title-track, con in mezzo quel gioiellino pop che risponde al nome di “The Model”, l'album va ad approfondire i rapporti - non necessariamente nefasti! - fra uomo e tecnologia. “The Man-Machine”, in definitiva, rimarrà il manifesto insuperato dei Kraftwerk, il capolavoro formale: un album che, leggendario fin dalla copertina, dovrebbe far parte della collezione di chiunque si ritenga un vero intenditore di musica.
Parte dunque la parabola discendente della carriera dei Kraftwerk, ma con questo non si vuol intendere che la band smetterà di sfornare lavori di qualità. Ovviamente, dopo aver tanto innovato, la band continuerà la sua ricerca più su un piano di affinamento e perfezionamento che di radicale rottura con il passato. “Computer World” (1981) è un concept sull’avvento del computer nella vita quotidiana, e, come spesso accaduto in precedenza, rappresenta al tempo stesso attrazione e repulsione nei confronti della tecnologia. Nonostante questo, esso viene realizzato con tecnologia analogica e non digitale, e, quanto a brani, offre, oltre alla memorabile title-track, un’altra perla pop come “Computer Love”.
Il successivo “Electric Café” (registrato nel 1982 ed originariamente concepito con il titolo “Techno Pop”, mai poi pubblicato quattro anni dopo, nel 1986, a causa di un incidente in bicicletta di Hutter) sancisce invece l’avvento al digitale. Seppur nel complesso sia un album gradevole (con un primo lato pensato come una sorta di unica suite con temi ricorrenti e dominato dalla bombastica “Musique Non-Stop”, ed un secondo lato composto con canzoni canoniche), è forse da vedere come l'anello debole della carriera dei Nostri, incalzati nel frattempo dall'avanzata di coloro che erano stati i discepoli dei Kraftwerlk prima e che nel corso degli anni ottanta erano divenuti i nuovi eroi dell'elettronica e del synth-pop.
Le uscite si diradano nel tempo e “The Mix” (1991) non fa altro che raccogliere nuove versioni di brani vecchi, qui ri-arrangiati e ri-registrati. Ma questo non deve scoraggiare all’ascolto in quanto l’operazione mette in luce l’attualità delle idee di cui si cibavano i brani originari. Attraverso le migliorie apportate nel corso degli anni e qui formalizzate, i brani acquisiscono rinnovato vigore grazie ad una nuova veste che li aggiorna ai canoni della musica dance di inizio decennio (che peraltro gli stessi Kraftwerk avevano contribuito a creare). Brani come "The Robots" e "Radioactivity", in particolare, brilleranno di nuova luce con melodie e testi aggiuntivi. Più in generale, i brani di “The Mix” diverranno le versioni standard nei live a venire, a dimostrazione di come l’opera dei Kraftwerk non è rimasta immobile nel tempo ma è stata continuamente oggetto di rivisitazione da parte degli stessi autori. L’album sancisce anche la dissoluzione della formazione storica: solo Fritz Hilpert, oltre ovviamente ai due fondatori, viene accreditato, mentre Karl Bartos, ormai fuoriuscito, non compariva più nelle note di copertina nonostante il contributo rilevante – pare - nella programmazione.
La parabola discografica dei Kraftwerk termina (almeno per il momento) con “Tour de France Soundtracks” (2003) che prende ispirazione dal singolo “Tour de France” pubblicato nel 1983: l’opera si caratterizza per un suono vivace con brani dinamici, ritmi incalzanti, dinamiche che lambisono territori techno ed una produzione al passo coi tempi. Questo è anche l’ultimo album con Schneider che lascerà la band nel 2008 (e, ahimè, morirà nel 2020).
A seguito di un imponente tour mondiale nel 2004, i Kraftwerk pubblicano nel 2005 il già citato “Minimum-Maximum”, doppio live-album rappresentativo di quel tour e summa definitiva della carriera, nonché ascolto obbligato per chiunque si voglia addentrare nel mondo della band tedesca. In esso compaiono tutti i maggiori classici, fra cui segnalo senz’altro la nuova versione di “Radioactivity” e la micidiale doppietta “Trans-Europe Express”/“Metal on Metal”. Poiché esiste anche una versione video dell'album, consiglio caldamente la visione di “The Robots” (durante la quale i musicisti, sul palco, sono sostituiti da quattro robot con i loro volti – a sancire il definitivo passaggio di consegne fra uomo a macchina) e il gran finale affidato a “Musique Non-Stop” (dove i Nostri, uno ad uno, si congedano e lasciano il palco con la musica che proseguirà anche senza musicisti sulle assi – altra riflessione sul senso della creazione artistica nell’era della tecnologia più avanzata).
Certo, per guardare il live dovete liberarvi per un paio d’ore, ma per chi non avesse tutto questo tempo (non sia mai detto che vi distogliamo dai vostri importantissimi impegni!), vi lascio con la classica playlist di Metal Mirror.
Buona lezione di Musica!
Playlist essenziale:
1) “Klingklang” (“Kraftwerk 2”, 1972)
2) “Autobahn” (“Autobahn”, 1974)
3) “Radioactivity” (“Radio-Activitiy”, 1975)
4) “Trans-Europe Express” (“Trans-Europe Express”, 1977)
5) “The Robots” (“The Man Machine”, 1978)
6) “The Model” (“The Man Machine”, 1978)
7) “The Man Machine” (“The Man Machine”, 1978)
8) “Computer World” (“Computer World”, 1981)
9) “Musique Non-Stop” (“Electric Café”, 1986)
10) “Aéro Dynamik” (“Tour de France Soundtracks”, 2003)
(Vai a vedere le altre guide pratiche per metallari)