Trentasettesima
puntata: Veil - "Sombre" (2008)
Chissà cosa si nasconde dietro questa copertina stranamente colorata. Una copertina insolita per un album di depressive black metal, ritraente (per chi ha gli occhi aguzzi) un lupo stilizzato il cui contorno si confonde con quello dei rami rinsecchiti di un imponente albero su sfondo di cielo increspato: un soggetto semmai più tipico di certo atmospheric black metal, specialmente americano, che va a mettere insieme devozione per Natura e Tradizione, misticismo e paganesimo, come potrebbero fare benissimo Agalloch e Wolves in the Throne Room.
Dietro a questa copertina, in verità, si cela una delle tante realtà
del depressive black metal che hanno vissuto giusto il tempo per rilasciare un
solo album per poi dissolversi nel pulviscolo della galassia del metal estremo. Come si è visto, queste meteore sono solite seminare dietro di
sé, se non capolavori, degli ottimi lavori. E’ questo è anche il caso di “Sombre",
l’unico full-lenght pubblicato dal progetto americano Veil, attivo dal 2003 al
2012.
I Veil hanno realizzato poche cose, ma decisamente buone. Al di là
di una primissima demo del 2004 contenente solo due brani (di cui una cover di
Burzum), nel medesimo anno il progetto ne ha dato alle stampe un'altra ben più
corposa, recuperando i due brani già rilasciati ed aggiungendone altri
tre. La cassettina si intitolava “Dolor” e costituisce una delle più celebrate demo dell'epopea del depressive: una "cassettina" che possiamo mettere
accanto a titoli divenuti leggendari come “Bloody
Melancholy” dei Life Is Pain, “Suici.De.pression” dei Thy Light e “The Stars Are Dead Now” dei ColdWorld.
In quei benedetti
27 minuti di "Dolor" il mastermind Stolzträger (o anche solo S., come va di moda nel
depressive) si occupava di tutto e confezionava un lavoro di grande intensità. La cinquina si apriva
e chiudeva fra il soffiar del vento e drammi elettrici (“Suicide Winds” e
“Suicide Winds (reprise)”) e presentava un nucleo centrale di tre brani che sapevano
avvicendare solenni marce funeree (la già edita “Dirge”, “I Will Follow”) e momenti più
sostenuti (la riproposizione della burzumiana “Ea, Lord of the Depths”, peraltro integrata
benissimo nel corpus sonoro dell'opera con l’incipit di batteria che attacca quando
ancora il brano precedente sta ancora sfumando). Burzum, si sarà intuito, è un punto di partenza, ma i Veil avrebbero saputo costruire un sound assai personale, raccogliendo le macerie black metal lasciate dietro da Vikernes per ricomporle in un suono compatto, ordinato, maestoso, figlio del pragmatismo di molto metal americano.
Nonostante le ottime premesse, avremmo dovuto aspettare quattro anni per ascoltare il degno successore di "Dolor": l'album di debutto "Sombre" sarebbe uscito infatti nel 2009, confermando le potenzialità del progetto la cui musica qui troverà finalmente il supporto di una produzione professionale.
Prima ancora del sound (palesemente riferito alla visione artistica burzumiana), i Veil trovano la loro specificità nel messaggio artistico che, seppur edulcorato, rientra nell'area di movimento del black metal nazional socialista. A riprova di questa sensazione che si ha leggendo i testi, possiamo ricordare che Stolzträger aveva qualche anno prima avviato un altro progetto, gli Xenophobia: un'esperienza condivisa con il cantante Warhead Jewgrinder (azz...) e che sarebbe durata il tempo di un solo EP, “Reclaiming Celtic Glory” del 2006. Il duo si presentava sul mercato con titoli come “Supremacy and War”, "Silent Brotherhood" ed “Anti-Semite Eternal” e già da questo comprendiamo il tenore bellicoso dei testi. I Veil, d'altro canto, non sono una NSBM band, ma l'orientamento ideologico di S. ci serve per inquadrare meglio
la musica che va ad individuare il vero carattere distintivo del progetto rispetto alle altre band dedite al genere: una distinzione che è più concettuale che musicale.
"Sombre" incarna caratteristiche stilistiche che abbiamo incontrato mille altre volte nel nostro viaggio nel DBM: i brani sono lenti, abbastanza lunghi, caratterizzati da un riffing ricorsivo ed ammantati di un mood irriducibilmente decadente (del resto sombre significa cupo,
triste, oscuro). A queste caratteristiche potremmo affiancare anche aggettivi come solenne,
ordinato, equilibrato. Ben suonato, se vogliamo dirla tutta.
Il primo brano si intitola "To Die Alone", dura quasi dieci minuti ed è pressocchè sorretto da un unico riff avvolto da tastiere che sembrano mimare cori monastici. Il testo parla di un uomo che morirà da solo, isolato in un mondo a lui estraneo, ma nonostante questo triste destino egli non cambierà le sue idee. La musica trasmette in modo perfetto questa sensazione di decadenza imperante ma anche di dolorosa affermazione del Sé. I suoni sono
nitidi e già durante questo primo brano verremo colpiti da un paio
di elementi inconsueti per gli standard del DBM. Il primo è un malinconico e pulitissimo giro di basso che spicca in modo evidente sopra il
riff di chitarra, quando ancora la drum-machine non ha iniziato a macinare i suoi dolenti battiti. Il secondo è un assolo di una chitarra
straordinariamente limpida che si staglia in modo anomalo su un corpus sonoro assai ruvido e minimale. Entrambi gli elementi verranno ripetuti nel corso del brano ad impreziosire una musica che cattura l'attenzione e non cala di tensione in un solo istante.
Detto questo, non aspettatevi i Dream Theater: il
DBM dei Veil è un monolito di tristezza che procede in modo pacato, per lievi
variazioni dettate da una drum-machine ben programmata
e dagli intrecci di una chitarra ispirata e mesti tappeti
di tastiere. A questo giro S. decide di delegare le parti vocali ad un
cantante vero e proprio, tale Thurisaz. Egli assicurerà uno screaming sofferente ed ovattato che si inserisce alla perfezione nell'amalgama sonoro e nel messaggio spirituale dell'opera.
Si sono utilizzati aggettivi come solenne ed ordinato perché la musica dei Veil non procede per strappi: intercetta
l’irrequietudine burzumiana per ripulirla delle asperità, dagli spigoli, mantenendone quel caratteristico moto concentrico che va a mimare l’Eterno Ritorno decantato nei
testi e reso palese dalla ricorsività delle melodie. L’apoteosi di questo approccio si
trova nella seconda traccia “Resilience”, nei cui quasi undici minuti di durata
erge un inno alla resistenza ed alla difesa della Tradizione: messaggio che si concretizza
in un procedere maestoso, riff e contrappunti di tastiere dall’andamento ipnotico,
con lo screaming bavoso di Thurisaz a far da didascalia. E' il Burzum di "Filosofem", qui, ad imporsi come modello di riferimento essenziale.
"Steel, Iron, power,
Blood, sweat, and fire
By limb, by life, by desire
Still they resist
Beaten, maimed, murdered
Still they resist
Hunted, stalked, but not conquered
Still they resist
Most resilient of all races
Culture still in tact
Unhindered by centuries of oppression"
Si è anche utilizzato l'aggettivo equilibrato: questo perché l’album sa svilupparsi nel modo ideale per non annoiare e
per tenere sempre desta l’attenzione dell’ascoltatore, sforzandosi di rendere riconoscibili
i diversi brani e disporli nella corretta sequenza. E così, dopo i venti minuti delle due prime tracce (una mesmerica calata nel black ambient più serioso ed abbacinante) attacca l’arpeggio di “Mater
Maternis” richiamando certe leggiadrie blackgaze targate Alcest (ma è solo
questione di istanti prima che tutto venga ri-fagocitato dal sound austero del
duo). Ed appena si sente il bisogno di una scossa, ecco che arriva provvidenziale
il mid-tempo incalzante di “Renewal”, mentre per la conclusione del tutto (l’opera
consta di cinque brani per soli 42 minuti di durata complessiva) ci si affida all’alternanza
chiaroscurale di arpeggi e scariche elettriche di “Hope”, una composizione quasi strumentale
che, a scapito del titolo, non dispensa affatto umori speranzosi.
Un giorno la
riscossa ci sarà, non oggi e probabilmente nemmeno domani, e prima che un nuovo
(il vecchio?) ordine verrà instaurato, una lunga sofferenza sarà necessaria: questo sembrano raccontarci i Veil con gli enigmatici versi che completano l’album (ed anche la loro carriera):
“Winds will blow
Tides
will turn
Change is eternal, change is eternal
Rulers fall
Empires end
Change
is eternal, change is eternal”
“Sombre” è un buon disco per davvero: solido,
ben confezionato e costituente una variante tesa e rigorosa del DBM, dove l’ideologia non viene fuori in modo indisponente, ma viene assorbita dalle
trame melodiche e dallo sviluppo dei brani che emanano una calma interiore
volta ad una paziente, lunga e dolorosa attesa in vista di tempi migliori.