"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

29 nov 2024

BARONESS + GRAVEYARD + PALLBEARER - LIVE IN LONDON (20/11/2024)

 


In principio furono i Neurosis. Poi vennero gli Isis e i Cult of Luna. Ed infine giunsero i Mastodon. 
 
A cavallo fra i due millenni le sonorità post-metal erano un universo in espansione: dal doom allo sludge al post rock fino a lambire il progressive, la psichedelia, l'hard rock settantiano. Pareva di trovarsi di fronte ad una seconda fioritura del metal, una rinascita sotto nuovi auspici dopo la "crisi" degli anni novanta: sonorità che proprio da quella crisi prendevano piede, ma che iniziavano ad incarnare finalmente intenti costruttivi. C'era eccitazione nell'aria e la fame di novità era insaziabile. Chi sarebbe dunque stata la next big thing del metallo? 
 
Per un breve frangente si ebbe l'impressione che questo ruolo sarebbe stato ricoperto da una nuova (l'ennesima) compagine americana: i Baroness. "Red Album" (2007) prometteva bene ma gli mancava qualcosa, e quel qualcosa non l'avrebbero aggiunto né "Blue Record" (2009) né gli album successivi. I Baroness sarebbero rimasti una realtà di seconda fascia, come se dietro a quelle bellissime copertine barocche e variopinte (realizzate dallo stesso mastermind John Dyer Baizley) non vi fosse musica altrettanto esaltante. L'attenzione generale si sarebbe dunque rivolta altrove e parimenti il mio interesse nei loro confronti iniziò a scemare, ma non è che se uno smette di seguire una band quella smette di esistere. I Baroness, alla faccia mia, hanno continuato con entusiasmo ed onestà a macinare lavori più che dignitosi mettendo a punto una formula che ha saputo bilaciare alla perfezione metal classico, rock settantiano e reminscienze sludge. Senza dunque essere in grado di sfornare l'album epocale o l'opera che avrebbe cambiato il volto dell'heavy metal, Baizley e soci hanno innegabilmente consolidato il loro ruolo sul palcoscenico del metal del terzo millennio, raggiungendo uno status di tutto rispetto soprattutto nei confronti delle nuove generazioni di ascoltatori che senza tanti pregiudizi hanno riconosciuto nei Baroness del valore ed una certa storicità. 
 
1) Invogliato dunque dai commenti generosi di chi li apprezza come punto di riferimento del metal attuale, 2) sospinto dai riscontri entusiastici di chi ne ha già saggiato le gesta dal vivo, 3) definitivamente conquistato per via della presenza come band di supporto dei Pallbearer, autori di quel "Mind Burns Alive" che odora di disco dell’anno, 4) per tutte queste ragioni mi è sembrato doveroso non perdermi la tappa londinese del loro Fall Tour in tandem con gli svedesi Graveyard per una spumeggiante serata di metal, rock settantiano, doom ed altro ancora...

Giungo con un filo d'ansia all'O2 Kentish Town Forum per il comprovato problema di questo locale che se ti metti in coda troppo tardi rischi di non arrivare in tempo per il primo set, programmaticamente troppo a ridosso dell’orario di apertura dei cancelli. Al mio arrivo, tuttavia, noto con sollievo una coda snella e scorrevole che mi permettere di accedere all'interno del locale, spogliarmi, andare al bagno e prendermi una birra con relativa calma. Il senso di relax aumenta gettando uno sguardo sulla gente intorno, una popolazione trasversale e variegata che se dovessi descrivere con una parola sola la definirei buona. Sì, c'è della bontà nell'aria: sorrisi, abbracci, chiacchiere vivaci, il Kentish Town Forum stasera è un luogo gioioso ed ilare dove il buon vecchio rocker dai capelli lunghi argentati, fascia alla testa e giacchetto jeans trova una inaspettata sintonia con il giovane post-hardcoraro munito di occhiali, felpa e cappuccio. Molte teste calve e barbe infeltrite ovviamente, ma soprattutto ancora molto spazio vitale, un po' perché l'evento non ha registrato il sold out (almeno fino alla vigilia), un po' perché è ancora fottutamente presto. E diosanto alle 7:12 ecco che attaccano i Pallbearer (alle 7 si erano aperti i cancelli!), meno male son stato previdente e mi sono presentato presto...
 
Spiace trovare i grandi Pallbearer così in basso nel bill della serata, confinati in pochi metri quadrati e sovrastati dalla strumentazione dei gruppi successivi. Già li vidi nel 2017 ai tempi di "Heartless" di spalla ai Paradise Lost e nonostante vi siano stati nel frattempo un altro paio di buoni album, il supporto della Nuclear Blast ed un ammorbidimento del suono che parrebbe volerli condurre ad un pubblico più ampio, li troviamo ancora a ricoprire umilmente il ruolo di apri-serata davanti ad un pubblico ancora sparuto (ma la sala si riempirà nel corso della loro esibizione). Forse questa penuria di gente avrà scoraggiato un poco i quattro che si presentano sul palco senza tanti ghirigori e con fare dimesso. Non si può certo dire che i Nostri brillino per una grande presenza scenica: messi in fila, con la batteria in posizione molto avanzata, paiono un set di nani da giardino, fatta eccezione per la figura statuaria del lungo-crinito bassista Joseph D. Rowland. Brett Cambell se ne sta defilato alla sinistra con un berrettino da baseball calato sul viso che lo fa sembrare il leader di una band noise-rock newyorkese di inizio anni novanta. Al lato opposto c’è il bravo soldato Devin Holt che, gracilissimo e rasato a zero, mi ricorda purtroppo Max Pezzali
 
Si parte con l'ottima "Silver Wings" (da "Forgotten Days") ma c'è qualcosa che non va, sarà la voce in secondo piano di Campbell, saranno i suoni non ottimamente equalizzati, saranno le luci smorte e statiche. Si fa fatica a seguire le parti cantate mentre a rendere decisamente meglio sono i momenti strumentali (da applausi l'assolo sul finale di un professionalissimo Holt).  Nel frattempo arrivano i tanto attesi brani dell'ultima fatica discografica. Di "Signails" si immagina l'impotenza dell'originale, ma stasera se ne percepisce solo l'ombra. Cambio posizione, magari si sente meglio, indietreggio un poco e mi metto più centrale, ed effettivamente la situazione migliora un poco, ma i Pallbearer continuano a non convincermi: il loro suono nobilmente doom stasera al Kentish Town sembra assai castigato, trattenuto, smorto, e non credo sia colpa solamente di chi siede dietro al mixer: qualche anno fa mi fecero una impressione nettamente migliore, più carichi, più energici, sembravano crederci, oggi no. E vabbene che per suonare doom bisogna essere un po' scoglionati, ma qui una strana sensazione di “resa” (saranno stanchi per l’estenuante tour?) finisce per prevalere sulle buone qualità della band che da sempre dimostra in studio ma che stasera non riesce a confermare sulle assi. Passa senza clamore anche "With Desease", sempre dall'ultimo album. Ci vorrà un ripescaggio dal passato per risollevare le sorti della serata: "Worlds Apart" dal capolavoro "The Foundations of Burden" mostra un’altra band, una band finalmente sicura delle proprie capacità. Si capisce che il brano, suonato innumerevoli volte, può giovarsi di una interpretazione più convinta e disinvolta: il muro di suono eretto per l'occasione fa sbiadire i brani precedenti, dilagando come un fiume di riff pachidermici in crescendo che raggiungerà il suo acme nell'intensa coda apocalittica che vedrà i Nostri piegati sui propri strumenti come se fossero una band post-rock. Bene ma non benissimo. 
 
È il momento dei Graveyard che onestamente non conoscevo prima di vedere il loro nome stampato sulla locandina del concerto. Li introduco a beneficio degli ignoranti come me. Svedesi di Gothenburg (la provenienza è almeno promettente!) ed attivi dal 2006, sono autori di sei album di solido hard rock settantiano. Da quel poco che avevo sentito in rete (con un orecchio di riguardo a "Hisening Blues" del 2011, il lavoro più rappresentato in questo tour) mi era parso, il loro, un suono maschio e convincente ma fin troppo zeppeliniano per i miei gusti. L'ascolto di "6", loro ultima fatica discografica, fa invece propendere per una band più pacata, a suo agio in brani blueseggianti e psichedelici. Non mi posso ritenere un fan di queste operazioni-nostalgia e per questo mi sono presentato all’evento con una bella dose di preconcetti negativi, ma il bello di andare ai concerti è ricredersi: contro ogni mia aspettativa infatti mi tocca ammettere che i Graveyard spaccano il culo, merito anche di suoni meglio equalizzati e  luci più dinamiche di quanto lo siano state con i poveri Pallbearer. 
 
I Nostri dimostrano di conoscere alla perfezione la grammatica del rock, quello rozzo e diretto che ha condotto al punk e all'heavy metal. Più che i Led Zeppelin vengono in mente gli MC5, picchiano duro e la voce di Joakim Nillson raschia alla grande, sebbene il Nostro sia visibilmente impacciato nel muoversi senza la sua chitarra (a causa di una operazione alla spalla in questo tour viene sostituito alle sei corde da John Hoykes dei Witchcraft, band svedese dedita anch'essa a sonorità settantiane). E così, al vichinghesco singer - orfano della sua chitarra - toccherà ripiegare sul classico tamburello a mano, ma ce ne faremo una ragione. La doppietta iniziale - “Twice” (dall’ultimo album) e soprattutto “Please Don’t” - attizza la folla e in poco tempo ci introduce in un sublime e fumoso clima da bettola festante. Grintose staffilate hard-rock (una menzione d’onore alla bombastica “Hisingen Blues”) si alternano a ballate blueseggianti di grande spessore emotivo come “Uncomfortably Numb” e la conclusiva “The Siren” (l’altro estratto dall’ultimo album, come a voler chiudere il cerchio), dilatata, espansa e scossa da enfatiche ripartenze dove Nillson dà il meglio di sé dietro al microfono. 
 
Per quanto mi riguarda i Graveyard allestiscono il sottofondo perfetto per sgusciare fra la gente, andare al cesso, fare la fila al bar senza timore di perdere alcun momento sensazionale. Non credo approfondirò ulteriormente il loro percorso, ma i Nostri di dimostrano abilissimi mestieranti e dal vivo hanno un loro perché. Certo non mi spiego ancora come mai siano stati messi nella posizione di co-headliner (i soliti trucchetti della Nuclear Blast, immagino), ma non stiamo troppo a questionare: se il compito dei Graveyard era quello di farci scaldare a dovere per goderci al meglio i Baroness, allora il compito è stato svolto in maniera egregia!
 
Questo Fall Tour non è chiamato a promuovere alcun album in particolare visto che l'ultimo nato in casa Baroness, "Stone", risale all'anno scorso. Certo, questo sarà il lavoro più rappresentato stasera con ben tre brani, ma per il resto la scaletta appare ben equilibrata, toccando un po' tutta la discografia dei Nostri (fatta eccezione per "Gold & Grey", sacrificato probabilmente per motivi di tempo e vedremo presto il perchè). Si parte proprio da "Stone" con la tiratissima “Last Word” ed è subito il delirio. In pochi concerti ho percepito una cosi forte connessione fra band e pubblico. Baizley ci crede a bestia, imponendosi immediatamente come figura carismatica, sorta di trasposizione "pop" del truce post-hardcoraro di una volta: crapa pelata, barba importante, fisico asciutto e tanti tatuaggi. Gesticola, sorride, i suoi occhi sono spiritati, la sua voce si fonde a quella del Kentish Town Forum e il suo alter ego è una cazzutissima Gina Gleason, canotta bianca dei Motorhead e tanta, tanta energia: la minuta chitarrista non sta un momento ferma, e non perdendo mai il controllo del suo strumento si permette corse, piroette, gettandosi in spericolati scambi di assoli con il mastermind Baizley. 
 
Anche nelle avversità finisce per prevalere la positività. Per esempio, conclusosi il primo pezzo e con il pubblico gasatissimo, un problema tecnico - non si capisce quale – blocca il concerto per una decina di minuti buoni. Il batterista si aggira sghignazzando per il palco, Baizley addirittura posa la chitarra, ma sempre con un sorriso sulle labbra, la Gleason dice qualcosa ma non sembra affatto preoccupata, e il pubblico ricambia cantando ironicamente in coro “One more song! One more song!”. Questo scherzetto sarà costato sicuramente il sacrificio di un pezzo considerata la rigidità degli orari nei locali londinesi, ma non sembra fregare un cazzo a nessuno, il treno delle emozioni riparte come se niente fosse successo. La radiosa ed anthemica "March of the Sea" riporta il sorriso anche a quei pochi rimasti perplessi durante la pausa appena trascorsa: la voce di Baizley giunge forte e potente ed è continuamente accompagnata dall'eco rimbombante del pubblico che sembra conoscere i testi delle canzoni a memoria: la sensazione è di essere sul palco con la band tanto il legame fra musicisti e pubblico è saldo. “Under the Wheel” smorza i toni, si insinua strisciante per poi esplodere in poderosi mid-tempo neurosiani con il vocione di Baizley che evoca le radici post-hardcore della band. “Beneath the Rose” spacca di brutto mostrando il lato più thrashattone dei Baroness, con riff rocciosi e il finale strillato insieme alla Gleason, sempre pronta a dare una mano anche dietro al microfono. 
 
Il pogo incalza in questi primi brani, ma senza mai essere davvero molesto, la gente salta, batte le mani spontaneamente. Per far capire il clima di gioia quasi bambinesca cito una scena che mi ha molto intenerito: una ragazza, probabilmente non abituata ai concerti metal, viene urtata per sbaglio da un tizio che le è passata accanto (niente di grave, davvero). La Nostra però non sembra averla presa bene, ha il volto ricolmo di sorpresa per l'affronto ricevuto ed allora decide di vendicarsi prendendo la ricorsa e dando un goffo spintone al tizio che nemmeno se ne accorge e che incurante continua per la sua strada. Poi, ancora abbacchiata, si rifugia nelle braccia del proprio ragazzo. Questo è stato il massimo di violenza percepito nella serata.
 
Torna la quiete con la pseudo-ballata “If I Have to Wake Up (Would You Stop the Rain?)”, momento di grande presa emotiva, poi senza l’incipit di tastiera attacca la tanto attesa "Shock Me," gioiello “pop” che, forte di un ritornello tanto semplice quanto contagioso (shock meeeeeeeeeeee), rianima subito il pubblico. Dal vivo diviene palese più che mai il carattere vincente della formula odierna dei Baroness che intende coniugare con efficacia violenza post-hardcore a dinamiche da arena rock, con riff che la gente canta a memoria e ritornelli anthemici da urlare a squarciagola. Se l'esibizione dei Pallbearer è stata incolore e quella dei Graveyard monocolore, lo show dei Baroness è stato una vera esplosione di colori, con brani variegati che passano in rassegna una vasta tavolozza di suggestioni, dall'assalto thrashattone alla ballata accorata passando per melodie di stampo classico, il tutto reso da musicisti tanto istrionici quanto precisi nel maneggiare i rispettivi strumenti. 
 
È tempo di fare un primo tuffo nel passato con una poderosa riproposizione di "Swollen and Halo", macigno sonoro che risale ai tempi di "Blue Record". L'esaltazione è alle stelle, i vecchi Baroness sfoderano gli artigli e la gente sembra ben disposta a farsi sfasciare le orecchie, ma purtroppo è anche già tempo di saluti: Baizley ringrazia con sentimento il pubblico ed annuncia gli ultimi due pezzi, e che pezzi! "Isak", dal primo album, si impone in tutta la sua maestosità e potenza, rivelandosi come una sorta di mix fra Neurosis e Kyuss: un assalto di riff slabbrati che il pubblico accoglie con la consueta felicità. Nemmeno il tempo di far sfumare il brano che si fa largo senza preavviso il riff incalzante di "Take My Bones Away", divenuta nel tempo un vero e proprio inno per la band, forte di un ritornello di gran cuore ancora una volta strillato da tutti i presenti: degnissimo finale di una esibizione che non ha visto un momento di cedimento. Ma soprattutto una vivida manifestazione di passione ed amore sia per la musica che per i propri fan da parte della band.   
 
Che dire in conclusione: probabilmente i Baroness non avranno rivoluzionato il metal e piaceranno solo a cento persone, ma a quelle cento persone i Baroness piacciono da morire. Dal vivo poi sono un vero spettacolo e consiglio vivamente l’esperienza, soprattutto in tempi in cui gli artisti, sempre più schiacciati dagli impegni concertistici, sembrano montare sul palco con la verve di chi deve timbrare il cartellino...