Se in vista dell'apparizione live di un personaggio della risma di King Diamond sarebbe stata perfetta la classica notte buia e tempestosa, la giornata del primo luglio londinese non poteva essere quanto di più distante da siffatto scenario: l'ondata di calore anomalo che ha investito l'intera Europa non ha risparmiato la capitale inglese, altresì nota per cielo grigio e pioggia perenne. E così fa un fottuto caldo, amplificato dall'asfalto, dal cemento e dall'acciaio della metropoli. Ma se non si è immersi in quell'immaginario gotico che tanto donerebbe alle storie raccontate nei dischi del Re Diamante, almeno c'è da dire che il bel tempo porta buon umore, a maggior ragione se si esce presto di casa (saranno state le 5:20pm) per farsi trovare pronti sotto al palco per il primo act della serata.
Ad aprire, infatti, ci saranno gli Unto Others, special guest per le sole date di Londra e Manchester (del giorno prima). Alla stregua di un mini-festival dalle tonalità oscure, avremo poi il piacere di vedere sulle assi i Paradise Lost, supporter di lusso per questo tour europeo del Re Diamante. Chiude in bellezza l'istrionico singer danese, apponendo il magico sigillo su uno di quegli appuntamenti live che divengono una bandierina imprescindibile sul CV di ogni metal-intenditore che si rispetti. Insomma, tre generazioni a confronto, tre diverse declinazioni di metal ognuno a modo suo "gotico".
Il buon umore, tuttavia, fra presto a passare: il viaggio in metropolitana è a dir poco infernale (oohh finalmente qualcosa in linea con il tema della serata!), sia per il caldo che per la calca di gente (del resto è anche l'ora di punta). Uscito finalmente dagli abissi del sottosuolo e giunto davanti al locale, noto una lunga fila di cui è impossibile scorgere la fine. La traversata a ritroso del codazzo di energumeni mi permette di vedere alla luce del sole la fauna che nutrirà l'evento ed ovviamente non è uno scenario edificante, ma che ve lo dico a fare, ve la potete benissimo immaginare la tipologia di pubblico!
Ad ogni modo si tratta solo di un effetto ottico, non ci sarà infatti il pienone stasera, le porte erano state appena aperte e si era accumulata giusto un po' di gente all'ingresso. Non che non vi sia nessuno, ma l'evento non solo non registra il sold out, ma nemmeno ci si avvicina (strano però, se si pensa che l'ultima calata in terra d'Albione del Re Diamante in veste solista risale al 2016, quasi dieci anni fa!). Come già ricordato in occasione dei Savatage, la popolazione metallica della capitale inglese è giovane e non è particolarmente attratta dai bacucchi, ed ovviamente questo si riverbera sull'età media degli spettatori, decisamente alta. Si starà dunque larghi tutta la sera e - detto fra noi - è anche meglio così...
Lo ricordo a chi non bazzica spesso per i locali di Camden Town: la Roundhouse è una venue che
ha il pregio di offrire un'ambientazione suggestiva ed un soffitto molto alto
in grado di ospitare con agilità l'imponente scenografia dello show
architettato dal Re Diamante. Quanto ai suoni, è un terno a lotto, ma
per esperienza personale posso dire che non è il posto ideale per un
concerto metal. Confidiamo dunque nel dio del metallo.
In prossimità del palco, in attesa degli Unto Others, mi accorgo della presenza di una discreta componente femminile che all'inizio non avevo notato e che va a stemperare la mestizia emanata da cinquantenni in pantaloncini dall'occhio vitreo che si guardano intorno inquieti come se minacciati da forze misteriose. L'essermi precipitato in largo anticipo non è servito a nulla, visto che comunque, rispetto all'apertura dei cancelli avvenuta alle 6:00pm, gli Unto Others si presentano sul palco abbastanza tardi, tipo alle 7:15. I quattro si esibiscono con alle spalle la scenografia dello show di King Diamond coperta da un telone. La situazione è dunque quella di una band che apre la serata in condizioni degradanti, ossia: tempo limitato, spazi ristretti, suoni equalizzati così così. I Nostri tuttavia non si scoraggiano ed imbastiscono la loro solida mezz'oretta in modo dignitoso, supportati da uno zoccoletto di pubblico che sembrerebbe essere qui proprio per loro.
Teoricamente anche io sarei parte di quel pubblico selezionato, visto che l'ultimo "Never, Neverland" non mi è dispiaciuto affatto ed ero molto curioso di vedere la band all'opera, ma purtroppo non riuscirò ad entrare nel giusto mood, forse perché i "motori" (mio, della maggior parte degli astanti) sono ancora freddi e devono essere riscaldati adeguatamente - intorno a me vedrò comunque una nicchia di fan che seguirà il set con partecipazione cantando a memoria i testi, a dimostrazione del successo crescente della band americana. Per quanto mi riguarda, avevo due sole richieste, ossia “Butterfly”, singolone di punta dell’ultimo album che mi ha stregato dal primo istante, e “Pet Semetary”, gagliarda cover del celebre brano dei Ramones, uno di quei brani (l'originale, non la cover) che ogni volta che ascolto mi esalta come se fosse la prima. Verrò accontentato a metà: si parte con Baderflaaaaiii, appunto, anche se il ritornellone tanto atteso non mi scuote (colpa soprattutto dei suoni un po’ impastati e rimbombanti - dannata Roundhouse!); di “Pet Semetary”, invece, manco l’ombra, ma si capisce che i Nostri si muovono in spazi, fisici e temporali, assai ristretti.
In otto brani, tuttavia, i Nostri riescono a rappresentare in modo equilibrato un po’ tutta la loro intera discografia, fatta di tre full-lenght e qualche EP. Maggiori spazi sono concessi all'ultima fatica discografica, rappresentata da ben tre pezzi: oltre alla già citata “Butterfly”, avremo anche una sparatissima "Momma Likes the Door Closed” ed una ottima (fra i migliori momenti dell’esibizione) “Suicide Today”. Si prosegue senza grandi sussulti, sebbene i Nostri paiano voler capitalizzare l’occasione di trovarsi innanzi ad una platea più nutrita del solito e lasciare il segno, accentuando la componente rock/punk rispetto all'indole darkeggiante, che comunque ha modo di emergere grazie al vocione baritonale del frontman. A proposito, Gabriel Franco sembra uno scaricatore di porto che ha appena staccato dal suo turno: ostenta un’attitudine da gran burino con occhiali da sole a goccia, capigliatura anni ottanta e una canotta nera al servizio di una stazza non proprio da ballerina. Presenza a parte, Franco svolge in modo egregio il suo ruolo passando da un profondo recitato in stile Sisters of Mercy ad urla barbariche che un po’ ricordano la tracotanza del grande Peter Steele, un accostamento che non ci dispiace affatto. A tal riguardo, colpisce duro “Heroin”, al limite del thrash metal, con una prova vocale deliziosamente sopra le righe e probabilmente apice del tutto. Insomma, bene, ma non benissimo. Passiamo ai secondi in scaletta: i Paradise Lost.
In otto brani, tuttavia, i Nostri riescono a rappresentare in modo equilibrato un po’ tutta la loro intera discografia, fatta di tre full-lenght e qualche EP. Maggiori spazi sono concessi all'ultima fatica discografica, rappresentata da ben tre pezzi: oltre alla già citata “Butterfly”, avremo anche una sparatissima "Momma Likes the Door Closed” ed una ottima (fra i migliori momenti dell’esibizione) “Suicide Today”. Si prosegue senza grandi sussulti, sebbene i Nostri paiano voler capitalizzare l’occasione di trovarsi innanzi ad una platea più nutrita del solito e lasciare il segno, accentuando la componente rock/punk rispetto all'indole darkeggiante, che comunque ha modo di emergere grazie al vocione baritonale del frontman. A proposito, Gabriel Franco sembra uno scaricatore di porto che ha appena staccato dal suo turno: ostenta un’attitudine da gran burino con occhiali da sole a goccia, capigliatura anni ottanta e una canotta nera al servizio di una stazza non proprio da ballerina. Presenza a parte, Franco svolge in modo egregio il suo ruolo passando da un profondo recitato in stile Sisters of Mercy ad urla barbariche che un po’ ricordano la tracotanza del grande Peter Steele, un accostamento che non ci dispiace affatto. A tal riguardo, colpisce duro “Heroin”, al limite del thrash metal, con una prova vocale deliziosamente sopra le righe e probabilmente apice del tutto. Insomma, bene, ma non benissimo. Passiamo ai secondi in scaletta: i Paradise Lost.
Devo ammettere che da Nick Holmes e soci non mi aspettavo molto, avendoli visti già un paio di volte senza rimanerne grandemente impressionato, ma forse proprio per queste mie aspettative prossime allo zero gli inglesi sono riusciti in qualche modo a convincermi. Giova una scaletta asciutta che sa mettere in fila diversi momenti significativi del periodo aureo della band evitando di disperdersi più di tanto nel repertorio dell'ultimo quarto di secolo, che comunque ha saputo dispensare qualche gemma sparsa. E così la band va sul sicuro aprendo con la solenne “Enchantment”, riesuma dal suo passato remoto una virulenta “Pity the Sadness”, accende gli animi con la rockeggiante “Last Time”, ci riporta ai fasti di “Icon” (vero punto di snodo della loro carriera) con una intensa “Embers Fire” (momento top per il sottoscritto) e chiude in bellezza con una incalzante “Say Just Words”, durante la quale il pubblico è stato chiamato a batter le mani ed aiutare Holmes dietro al microfono.
In questa intelaiatura di classici ben si innestano una oramai consolidata "No Hope in Sight", l'episodio da ricordare di "The Plague Within", e l'ancor più recente "Ghosts", instant classic dell'ultima release discografica “Obsidian”. Nessuna anticipazione, invece, per quanto riguarda l’album di prossima uscita (evidentemente per questo tour da supporter i Nostri scelgono una scaletta di basso profilo per preservare qualche chicca in più nel tour da headliner previsto in autunno). In tutto questo, passa senza colpo ferire “The Enemy” (da “In Requiem”); male male, invece, “Faith Divides Us – Death Unites Us”, gestita decisamente male nella sua alternanza di pieni e vuoti, con un Holmes del tutto inadeguato sui registri puliti.
Salvo qualche inciampo, tuttavia, devo ammettere di aver trovato i Nostri un pelino meglio rispetto alle altre volte. Certo, oramai è certificato che i Paradise Lost non sono proprio degli animali da palcoscenico e che faticano grandemente a riportare sul palco le stesse emozioni che hanno saputo suscitare a livello di album. Nick Holmes ha voglia di cantare come il maiale ha voglia di diventar prosciutto, e sicuramente si percepisce un scollamento nell'attitudine mostrata dai musicisti sul palco, con agli antipodi un esagitato Aaron Aedy alla chitarra ritmica ed un mesto e concentratissimo Gregor Mackintosh alla solista, che ritroviamo in veste di serafico santone con tanto di folta barba e lunghi capelli bianchi. Ma va bene così, ce li facciamo andare bene come sono, con un Holmes che ogni tanto accenna di credere in quel che canta ed un Mackintosh in stato di grazia e particolarmente ispirato nelle sezioni melodiche dei brani con un paio di assoli da applausi ("Embers Fire" da mazza in mano). Il resto lo fanno i brani o quello che si ricorda degli stessi.
Che dire in conclusione: serve molta immaginazione per farsi piacere i Paradise Lost dal vivo, è necesario amare molto la loro musica nonostante tutto e soprattutto occorre essere muniti di molta serenità e comprensione per non far prevalere il senso di delusione. Io, consapevole dei rischi, ho da subito adottato uno spirito positivo ed attuato un paio di escamotage, ossia 1) immaginare che sul palco stessero suonando i Dire Straits (oramai Holmes ha una irruenza vocale pari a quella di Mark Knopfler), 2) concentrare lo sguardo nella porzione di palco con Mackintosh e Holmes giusto per tagliare fuori dalla inquadratura la triste presenza scenica offerta dagli altri componenti della band. Alla fine li promuoviamo, sebbene rimanga l'amaro in bocca al pensiero di come potrebbe rendere un canzoniere di quel tipo se solo si potesse disporre di un cantante carismatico, una band coerente nel modo di stare sul palco ed un allestimento complessivo dello spettacolo che possa conferire il giusto pathos ed evidenza alla storicità di certi passaggi.
Salvo qualche inciampo, tuttavia, devo ammettere di aver trovato i Nostri un pelino meglio rispetto alle altre volte. Certo, oramai è certificato che i Paradise Lost non sono proprio degli animali da palcoscenico e che faticano grandemente a riportare sul palco le stesse emozioni che hanno saputo suscitare a livello di album. Nick Holmes ha voglia di cantare come il maiale ha voglia di diventar prosciutto, e sicuramente si percepisce un scollamento nell'attitudine mostrata dai musicisti sul palco, con agli antipodi un esagitato Aaron Aedy alla chitarra ritmica ed un mesto e concentratissimo Gregor Mackintosh alla solista, che ritroviamo in veste di serafico santone con tanto di folta barba e lunghi capelli bianchi. Ma va bene così, ce li facciamo andare bene come sono, con un Holmes che ogni tanto accenna di credere in quel che canta ed un Mackintosh in stato di grazia e particolarmente ispirato nelle sezioni melodiche dei brani con un paio di assoli da applausi ("Embers Fire" da mazza in mano). Il resto lo fanno i brani o quello che si ricorda degli stessi.
Che dire in conclusione: serve molta immaginazione per farsi piacere i Paradise Lost dal vivo, è necesario amare molto la loro musica nonostante tutto e soprattutto occorre essere muniti di molta serenità e comprensione per non far prevalere il senso di delusione. Io, consapevole dei rischi, ho da subito adottato uno spirito positivo ed attuato un paio di escamotage, ossia 1) immaginare che sul palco stessero suonando i Dire Straits (oramai Holmes ha una irruenza vocale pari a quella di Mark Knopfler), 2) concentrare lo sguardo nella porzione di palco con Mackintosh e Holmes giusto per tagliare fuori dalla inquadratura la triste presenza scenica offerta dagli altri componenti della band. Alla fine li promuoviamo, sebbene rimanga l'amaro in bocca al pensiero di come potrebbe rendere un canzoniere di quel tipo se solo si potesse disporre di un cantante carismatico, una band coerente nel modo di stare sul palco ed un allestimento complessivo dello spettacolo che possa conferire il giusto pathos ed evidenza alla storicità di certi passaggi.
La cosa positiva è che siamo ancora all'antipasto. Le aspettative più grandi per la serata, infatti, sono tutte per il Re Diamante. Già ben prima dell’ora X ci si pone in un buona posizione per godere al meglio dello spettacolo. L’attesa scorre in modo piacevole grazie ad una pregevole selezione di brani dal repertorio dell’hard-rock settantiano dove primeggiano Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath ed Uriah Heep: evergreen che è sempre un piacere riascoltare, a maggior ragione prima di un concerto di King Diamond che in quelle sonorità si è formato. Proprio la mitica “The Wizard” degli Uriah Heep funge da intro quale caloroso omaggio all'entità che più di ogni altra ha contribuito alla creazione della visione artistica del Re (falsetto spiritato incluso).
Scende il sipario, anzi, cala il telone ed ecco comparire l’imponente scenografia, un intero edificio a due piani: è il famigerato Saint Lucifer’s Hospital che dovrebbe essere la location dove prenderà corpo il concept che animerà il prossimo album (in uscita a fine anno?), stasera rappresentato da due estratti già noti da tempo come singoli. Due scalinate laterali collegano il palco ad un piano rialzato che vorrebbe essere una sorta di terrazza con tanto di ringhiera simil-congelata. Al centro, una porticina da cui il Nostro entrerà e uscirà svariate volte. Al primo piano, sopra la porticina, è stato ricavata l’alcova dove viene posizionata la batteria, mentre alla sinistra trova collocazione la corista/tastierista (più corista che tastierista, visto che si farà copioso uso di parti registrate per quanto riguarda intro ed interludi atmosferici). A questo giro non sarà presente la divina Myrkur, assente in questo troncone di tour per motivi personali e sostituita da Hel Pyre delle Nervosa. Quanto alla band, oltre all'inossidabile Andy LeRocque (uno dei miei chitarristi preferiti di sempre), disponiamo della classe e dell’esperienza di Mike Wead all'altra chitarra (già presente in formazione in una fase degli anni novanta e tornato in pianta stabile a partire dal 2000 - nonché membro dell'attuale incarnazione dei Mercyful Fate). Completa una formazione stellare la solida sezione ritmica composta dal batterista Matt Thompson (dal 2000 dietro alle pelli per il Re Diamante) e il bassista Pontus Egberg (in squadra dal 2014).
Lo show è introdotto dalle note di organo di “Funeral”, mentre sul palco campeggia una piccola bara bianca, in tono con il concept narrato in "Abigail". King Diamond, uscito dalla fatidica porticina sopra menzionata, si manifesta nella sua possanza iconica, munito dell’immancabile face-painting, bombetta e palandrana. La voce deformata produce un discreto effetto, le orchestrazioni esplodono e in modo del tutto naturale attacca la cavalcante “Arrival” con il suo incipit da manuale sprizzante assoli maidiani, riff taglienti e cambi di tempo a non finire. I suoni fortunatamente sono buoni, come se chi siede dietro il mixer abbia regolato volumi ed equalizzazioni dell'intera serata sulle esigenze degli headliner a scapito degli altri.
Ci vuole un po’ prima che King inizi a cantare, ma quando il Nostro proferisce le prime sillabe avvicinando la bocca baffuta al caratteristico microfono a forma di ossa incrociate tutto il resto smette di avere importanza: sentire finalmente quella voce dal vivo è impressionante. Soffermarsi sulle varie canzoni o scenette, a mio parere non è il modo migliore per descrivere l’esibizione: secondo me è bene partire da un approccio concettuale, poi vediamo se abbiamo voglia di perderci in descrizioni. Mettiamo dunque il nastro in pausa, lasciamo King Diamond congelato a mandibola spalancata e analizziamo i singoli aspetti.
Liquidiamo la parte più semplice: strumentalmente la band si mostra impeccabile, riproducendo con fedeltà la complessità delle trame sonore che, più che canzoni, sono il palcoscenico su cui si dipanano le narrazioni del Re Diamante, più un cantastorie che un cantante in senso canonico. Un plauso in particolare mi sento di farlo per l’immenso LaRocque, chitarrista che io amo molto e che stasera non deluderà affatto le mie aspettative. Con fare dimesso e senza mai rubare la scena al carismatico front-man se ne sta nel suo angolo concentrato sul proprio strumento. Niente è scenico, ogni gesto è finalizzato a produrre un determinato suono. Lo osservo che, ad un certo punto, in uno specifico passaggio, agita la chitarra probabilmente per ottenere un vibrato e mi rendo conto della serietà con cui interpreta il proprio ruolo: con quel gesto avrà individuato una sfumatura di suono che nessuno avrà notato nella bolgia ma che per lui è stato importante riportare sul palco, quale irrinunciabile dettaglio del suo lavoro in studio. LaRocque incarna alla perfezione l’ideal-tipo del guitar hero del metal classico: è quello che, mai tradendo la grammatica del rock, concepisce ogni assolo come se fosse quello definitivo, ogni melodia come se fosse destinata ad essere ricordata nei secoli dei secoli. Tessere le lodi di LaRocque non significa tuttavia togliere i meriti all'altrettanto grande Mike Wead visto che i due si spartiscono il lavoro in parti eguali, riff, assoli, riff, assoli, con la stessa serietà.
Sempre riferendomi alle trame strumentali, realizzo più che mai che il suono rimane comunque assai derivativo e tributario delle band heavy metal di prima fascia: in un momento mi vengono in mente gli Iron Maiden, in un altro i Judas Priest, in un altro ancora i Black Sabbath, e così via: si parla senz'altro di musicisti talentuosi e dotati di classe sopraffina, ma che dal punto di vista compositivo non sono mai usciti dal recinto del linguaggio tipico dell'heavy metal. Forse alla fine è meglio così, visto che l'"elemento freak" è dato dalle contorsioni vocali di chi sta dietro il microfono. Passiamo dunque al cerimoniere della serata: King Diamond!
Si diceva che la sua voce fa impressione. Sostengo questo per due motivi. Il primo, ovviamente, è legato alla componente anagrafica: a 69 anni suonati King Diamond è in splendida forma, il suo falsetto orripilante è ancora fra di noi, forte e spettrale più che mai. Certo, non si esclude qualche aiutino - sia tecnico che da parte della corista: si sente un forte delay che rinforza l'incisività di certi vocalizzi (viva i fonici 3.0!) e si capisce che qua e là la Pyre ci mette l’ugola per sospingere un acuto dove le corde del Re non arrivano più, ma a parte questi comprensibilissimi accorgimenti è un vero piacere trovare questo fantastico vecchietto sul palco a svolgere il suo mestiere con così grande convinzione.
Secondo motivo, più difficile da spiegare. La voce del Nostro impressiona anche per la sua capacità di generare reale inquietudine. E’ un canto morboso quello di King Diamond e fa specie che un signore sulla soglia dei settanta anni si cimenti in modo così insistito in lagne fantasmatiche e latrati demoniaci. Ma è soprattutto il falsetto a mettere i brividi, espressione di uno stile canoro che non è solamente teatrale, ma è la trasposizione di un mondo, artistico e narrativo, che giustamente è divenuto un marchio di fabbrica, ma che in nessun frangente stasera ha dato adito ad accuse di manierismo. Non c’è momento in cui il Nostro dia l’impressione di non crederci, è questo quello che fa paura: il fatto che sia perfettamente normale e pacifico che un signore sulla soglia dei settanta canti a quella maniera come se niente fosse, come se fosse tutto normale.
Mi torna alla mente un reportage che vidi una volta in TV su un posto disastrato dell’Africa. Ad un certo punto fu intervistato un prete che, a forza di operare in un contesto di morte, violenza, miseria e disperazione, aveva finito per dare per scontato tutto quell'orrore, raccontando la surreale quotidianità all'interno della sua comunità come se fosse un normale modo di vivere. Abbiamo trovato una telecamera e con i ragazzi ci siamo dilettati a fare un film spiegava con strabiliante seraficità, dopo che abbiamo assistito ad immagini di cadaveri lasciati a marcire ai margini delle strade. Ecco, la stessa identica sensazione me l’ha lasciata King Diamond, disinvolto, imperturpabile e fin troppo naturale nel dispensare al mondo la sua “orrorifica novella”, esprimendo una follia così lucida ed auto-indulgente da mettere paura alla stessa maniera con cui terrorizza la rigorosissima metodologia con cui un serial killer pone fine alla vita delle proprie vittime. Del resto questo è lo stesso sapore che lasciano le sue storie: in apparenza le classiche storie della narrativa gotica, fra case infestate, possessioni e defunti che tornano in vita per tormentare i vivi, ma che se viste con maggiore attenzione nascondono dettagli particolarmente macabri e disturbanti.
Il canto alienato di King Diamond, in altre parole, disturba perché non si limita a fungere da voce narrante o a dare voce ai protagonisti di quelle storie: quel canto, quel modo di cantare diviene una interpretazione bizzarra e paradossale delle evoluzioni di quelle storie, tanto folle il medium quanto il contenuto delle stesse. Anche il modo con cui si intrattiene con il pubblico ha dell’inquietante: come quei vecchi che chiacchierano perdendo il senso dello scorrere del tempo, King si abbandona in lunghi discorsi dal tono colloquiale e bonario che è tipico del personaggio di altri tempi quale è, inscenando siparietti che pretenderebbero essere divertenti, ma che hanno il demerito di interrompere l’atmosfera e dunque la tensione tirata su con la musica. Nel bene o nel male, il senso dello show è tutto qui: è King Diamond stesso lo spettacolo, vocalmente e visivamente, tanto che mi paiono del tutto irrilevanti gli sketch allestiti con la complicità di una attrice/ballerina, spesso avvistata sul palco a danzare o performare in tema con il brano di volta in volta eseguito.
Il canto alienato di King Diamond, in altre parole, disturba perché non si limita a fungere da voce narrante o a dare voce ai protagonisti di quelle storie: quel canto, quel modo di cantare diviene una interpretazione bizzarra e paradossale delle evoluzioni di quelle storie, tanto folle il medium quanto il contenuto delle stesse. Anche il modo con cui si intrattiene con il pubblico ha dell’inquietante: come quei vecchi che chiacchierano perdendo il senso dello scorrere del tempo, King si abbandona in lunghi discorsi dal tono colloquiale e bonario che è tipico del personaggio di altri tempi quale è, inscenando siparietti che pretenderebbero essere divertenti, ma che hanno il demerito di interrompere l’atmosfera e dunque la tensione tirata su con la musica. Nel bene o nel male, il senso dello show è tutto qui: è King Diamond stesso lo spettacolo, vocalmente e visivamente, tanto che mi paiono del tutto irrilevanti gli sketch allestiti con la complicità di una attrice/ballerina, spesso avvistata sul palco a danzare o performare in tema con il brano di volta in volta eseguito.
Premiamo adesso nuovamente play e riprendiamo la cronoca del concerto, anche se secondo me è stato detto l'essenziale. La scaletta eseguita è ottima, comprensibilmente imperniata intorno agli episodi cardine del repertorio classico, da “Fatal Portrait” a "The Eye" passando per “Abigail” (il tomo più rappresentato con ben tre tracce + l’introduzione), “Them” e “Conspiracy”. Rimangono nella memoria i momenti più teatrali. Uno di essi è senz'altro l’intermezzo “Two Little Girls” (su base registrata) durante la quale si è consumato uno dei tanti siparietti fra King e l’attrice, seduta sulla scalinata a maneggiare due bambole. Quanto al Nostro, a volte si nota che fa una fatica tremenda a salire e scendere da quelle scale, aggrappato ferocemente alla balaustra: gli unici frangenti in cui la vecchiaia del front-man salta all'occhio. Altro momento topico è stata la sezione dedicata a “Them” introdotta da “Out from the Asylum” (altro nastro) e con “Welcome Home” e “The Invisible Guests”, dove si ha avuto l’immancabile scena della nonna sulla sedia a rotelle con un King Diamond che, cambiatosi di abito per l'occasione, si è presentato con tanto di maschera dal volto deturpato e parrucca dai lunghi capelli bianchi (altro momento di totale follia, a maggior ragione se pensiamo che il Nostro è sulla soglia dei settanta - scusate se insisto, ma quello dell'età del cantante è un concetto che ho tenuto debitamente nel retro-cranio per tutto il tempo e che diviene una lente indispensabile per leggere l'evento).
Fra un classico e l’altro (ma che bello risentire dopo secoli "Sleepless Nights" ed "Eye of the Witch"!) trovano spazio anche un episodio della discografia minore come “Voodoo” (gradita variazione sul tema e vagamente più moderna grazie al suo impeto tribale) e i due nuovi singoli, “Spider Lilly” e “Masquerade of Madness” (qui a convincere di più è stata la prima delle due, imponendosi, se non come un instant classic, almeno come un buon auspicio per l'album che verrà). Il set scorre bene e senza intoppi, fra ottima musica, farsa e chiacchiere assortite. E quando giunge la cazzutissima “Abigail” - unico bis - con dispiacere si capisce che il concerto sta per finire.
Terminato anche quest'ultimo tuffo nel conturbante metal orrorifico di King Diamond, il Nostro indugia sul palco beandosi del bagno di affetto che il pubblico calorosamente gli riserverà. Poi, dopo aver salutato e ringraziato a più riprese, intrufolandosi nella famigerata porticina, sparisce dalla nostra vista e ritorna nella dimensione da incubo da dove era emerso un’ora e mezza prima.
Fra un classico e l’altro (ma che bello risentire dopo secoli "Sleepless Nights" ed "Eye of the Witch"!) trovano spazio anche un episodio della discografia minore come “Voodoo” (gradita variazione sul tema e vagamente più moderna grazie al suo impeto tribale) e i due nuovi singoli, “Spider Lilly” e “Masquerade of Madness” (qui a convincere di più è stata la prima delle due, imponendosi, se non come un instant classic, almeno come un buon auspicio per l'album che verrà). Il set scorre bene e senza intoppi, fra ottima musica, farsa e chiacchiere assortite. E quando giunge la cazzutissima “Abigail” - unico bis - con dispiacere si capisce che il concerto sta per finire.
Terminato anche quest'ultimo tuffo nel conturbante metal orrorifico di King Diamond, il Nostro indugia sul palco beandosi del bagno di affetto che il pubblico calorosamente gli riserverà. Poi, dopo aver salutato e ringraziato a più riprese, intrufolandosi nella famigerata porticina, sparisce dalla nostra vista e ritorna nella dimensione da incubo da dove era emerso un’ora e mezza prima.
La serata è dunque andata, le tre generazioni di metal "gotico" si sono fronteggiate, ma lo scettro della vittoria viene detenuto senza esitazioni dal Re: un artista che si conferma, nonostante l'età, più in forma che mai. Carisma, voce, presenza: King Diamond, accompagnato da validissimi scagnozzi, è ancora in grado di riportare sul palco quelle grandiose pagine di metal che hanno reso la band una delle più importanti di sempre, ma che - si è visto anche stasera - quanto a popolarità non sembra aver raccolto quanto effettivamente meritato. Ma il Nostro non sembrerebbe fregarsene molto di questo aspetto, beato e coccolato dai suoi fedeli. Non distogliamolo dunque dalla sua integerrima missione artistica e lasciamolo indisturbato nel suo mondo di lucida follia a tessere con dovizia di particolari le trame delle sue orripilanti storie!
Long live the King...Diamond!