"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

22 lug 2025

OZZY - L'ULTIMA MASCHERA

 


Si dice che avesse un profilo autistico. Cioè, che non comunicasse affettivamente in maniera diretta, o non gli piacesse farlo, o non sapesse farlo. E che non riuscisse bene a capire gli altri, come entrarci in rapporto.

Ammettiamo che fosse davvero un po’ così; certe cose in effetti tornerebbero. Ozzy non sembrava voler comunicare con gli altri tramite il metal, ma che si mettesse in rapporto con gli altri dentro il metal. Da quel sentiero che lui ripercorre, come Hansel e Gretel per uscire dal bosco della strega, viene il fluido che ispira la nascita del genere. E dopo il dolore dell'abbandono e della solitudine viene la rabbia, che Ozzy sosteneva essere il vero motore emotivo del metal: la rabbia di doversi esprimere con qualcosa che non sia il mondo circostante, ma vada oltre.

Come Renato Zero, si trasformava nei suoi vari personaggi e, all’interno delle dimensioni fatate di questi personaggi, stabiliva un ponte con chi lo ascoltava. Al di fuori non era che un uomo comune, con qualche stranezza in più della media; come si direbbe ora, qualche neurodiversità in più.

Se i primi personaggi erano dei classici del gotico, e attingevano ad un immaginario fantastico condiviso, gli ultimi erano maschere messe sul volto di sfaccettature del reale, varianti della psicologia umanaIl suo percorso artistico tratteggia una galleria di figure che partono dal mago dannato, al folle alienato, per condurre, in una sorta di metamorfosi al contrario, al bambino che torna a casa nell’abbraccio materno, l’unico linguaggio diretto che alla fine ricerca senza timore.

Per il resto, il prossimo per lui è stata forse sempre un’incognita, e una presenza inquietante, anziché il contrario. La follia che brillava nei suoi occhi sembrava una follia da difesa, e non da predatore, del gatto nero che drizza i peli e inarca la schiena, perché gli umani lo spaventano. Gli umani che sono spaventati da uno spaventato. Come noi fans, che eravamo spiazzati e gettati nella perplessità quando seguivamo la sua voce, la voce di chi si esprimeva vestendo i panni di un personaggio spiazzato e perplesso.

La storia inizia quando, in "Black Sabbath", lentamente recita i primi versi, in cui “scopre di essere il predestinato”, non con entusiasmo o esaltazione, ma con timore e disorientamento. Chi sono destinato ad essere? E come potrò dirlo agli altri? Un bambino che s'è perso dà origine al metal. Mi viene in mente il personaggio di un libriccino di disegni di Tim Burton, Il bambino-ostrica (che dà il titolo al libro: "Morte malinconica del bambino ostrica", 1997): è un personaggio surreale, un bambino-ostrica, che non può mescolarsi agli umani, tranne che ad Halloween, quando esce senza imbarazzo indossando una maschera da uomo.

Quando, nella seconda parte della sua carriera, questa maschera da uomo è diventata il pretesto per una serie televisiva (The Osbournes, 2002-05), personalmente non ho gradito. Certo, grande intuizione commerciale di farne un personaggio comico-grottesco. Un artista maledetto di peso storico, che era quindi strano e bizzarro anche nella vita privata, come in una riedizione della Famiglia Addams. Grande successo, gli Osbournes, e probabilmente anche buon guadagno, ma dal punto di vista artistico un fraintendimento grossolano. Lì lui si toglieva una maschera umana per fare il freak nel quotidiano.

Noi invece sappiamo che era le mille maschere che si metteva, in una notte di Halloween allegorica, disco dopo disco, insieme ai suoi fan vestiti per l’occasione. In quella dimensione egli si esprimeva dal profondo, esprimeva quella eterna precarietà che costituiva la sua forza creativa e la sua impalpabilità umana.

Così è giusto che un artista resti per il suo pubblico. Impalpabile, ma certo. Ficcante e nitido deve essere il suo verso, e trasparente il suo volto.

Molti lo ricorderanno certo per le sue performance più “esotiche”, vestito da lupo mannaro, da folle medievale, da prestigiatore, o quando azzanna il pipistrello sul palco. A me faceva venire i brividi davvero quando metteva la maschera umana e intonava If I Close My Eyes Forever (con Lita Ford, 1988). La cantava con un tono atterrito, con l’espressione fissa di chi muore in un grido d’orrore, in chi teme di dichiarare il suo amore per la vita, perché gli unici a cui può urlarlo sono umani e mortali come lui.

E’ quasi una gentilezza della sorte che gli ha assegnato, alla fine, il Parkinson, la malattia che trasforma in mummie, che irrigidisce i muscoli del corpo e della faccia. Non lo vedevo dal vivo da tempo e, da medico, la sua faccia ha parlato subito chiaro sulla malattia che aveva. Immobile, ma lo sguardo oltremodo sgranato e fisso. Talmente sgranato che quasi ti mangiava, ti portava dentro la sua perplessità. Perché lui, in quell’ultimo sforzo, era se stesso più che sempre: a lui piaceva vestirsi per recitare se stesso.

Per lui, la verità era una buona recita, mentre la verità umana che ci sta dietro è una disordinata e antiestetica perplessità. La sua voce era lo specchio di questo “altrove” dell’identità: sopra le righe, mascherata, calcata e sospesa in toni di mezzo.

Con quello sguardo celebrava la fine del suo percorso, quel Mama I’m Coming Home in cui le ali di pipistrello con cui aveva spiccato il volo erano divenute piccole ali di angelo (quelle di "No More Tears").

Oggi la nostra certezza per il metal brilla da sola. Ma avevamo bisogno che qualcuno comunque la facesse brillare su di noi, come il bambino che vuol dormire con la luce del comodino accesa, e i rumori della madre che finisce di sistemare la cucina. 

Oggi piangiamo la morte malinconica del bambino-ostrica.

A cura del Dottore