"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

1 lug 2025

NINE INCH NAILS - LIVE AT O2 ARENA, LONDON (18/06/2025)






Dunque, lunedì i Savatage, mercoledì i Nine Inch Nailsche settimana! 
 
I Savatage, belli freschi di un attesissimo tour europeo dopo moltissimi anni di lontananza dai palchi di tutto il mondo; Trent Reznor e soci, invece, appena imbarcati nel Peel It Back Tour, avviato pochi giorni prima a Dublino. Da un lato un concerto squisitamente old school magistralmente ammaestrato da una leggendaria entità del metal classico; dall'altro l'esatto contrario, ossia un nome che ha stravolto gli stilemi proprio di quell'universo culturale, settando nuove regole nel rock e nel metal, il tutto adeguatamente officiato all'interno della più grande venue al chiuso di Londra, "quella per i concerti veramente grossi": la O2 Arena

Riuscirà il sottoscritto, in questa seconda serata, a resettare il sudore e i sorrisi degli amici Savatage ed impostare mente, corpo e soprattutto spirito sulle frequenze disturbate di Mr Self Destruct?
 

Sono da sempre estimatore di Trent Reznor come artista a tutto tondo. Ho vissuto in prima persona la rivoluzione culturale di pietre miliari come "The Downward Spiral" e "The Fragile" e, successivamente, ho apprezzato il lavoro che assieme al sodale Atticus Ross il Nostro ha svolto al servizio della settima arte con colonne sonore che hanno saputo musicare alla grande svariate pellicole, fra cui anche qualche capolavoro. Col tempo, tuttavia, il mio interesse per i Nine Inch Nails è andato a scemare fino ad estinguersi del tutto. La vera notizia è che non ho avuto voglia di recuperare terreno negli ultimi mesi per prepararmi adeguatamente all'evento, come di solito si usa saggiamente fare. Nonostante questa non-voglia di ascoltare i NIN, ho sempre mantenuto una stima ed una fiducia incondizionate nei confronti della band, così da ritrovarmi alla vigilia dell’evento in preda ad uno stato d'animo arrendevole e fiducioso, non sapendo esattamente cosa aspettarmi, ma pronto a ricevere – o subire se necessario - tutto quello che il buon Trent avrebbe avuto da offrirmi. 

Non nego che l'idea di affrontare un evento così grande mi abbia sulle prime trasmesso un po' di ansia, laddove oramai il mio acquario ideale è divenuto il locale di medie o - meglio ancora - di piccole dimensioni. Ma uno strappo alla regola per i grandi NIN si può, anzi, si deve fare! Tanto che, mesi fa, ho fatto una cosa che da tempo immemore non facevo, ossia ben prima che scattasse l’ora X delle prevendite mi sono connesso al sito della Ticketmaster e mi sono messo in fila per procacciarmi il biglietto. Nonostante tutti gli accorgimenti e il ditino pronto sulla tastiera del pc, non sono tuttavia riuscito a conquistare l'agognato posto in piedi, dovendo ripiegare su un settore a fianco del palco ad altezze vertiginose. Mi godrò lo spettacolo? Vedrò il Trent? Sentirò bene? E se i pazzi intorno a me si mettono in piedi sui seggiolini, anche io dovrò saltare, sculettare e sbracciare rischiando di precipitare nel vuoto? E poi gli spostamenti, la metropolitana affollata, le svariate file, la calca, le migliaia di persone, i prezzi esorbitanti per cibo e bevande, insomma, quanto stavo bene all’O2 Shepherd’s Bush Empire in quattro stronzi e con gli amici Savatage! 

Fortunatamente le mie paure sono andate velocemente a svanire. Tutto infatti è filato tremendamente liscio. Il viaggio in metropolitana si è svolto senza intoppi, l'ingresso alla O2 Arena è stato snello, le file sono scorse velocemente e in modo ordinato, si è arrivati in fretta al proprio settore. Giunto al mio posto, mi sono stupito di quanto io sia stato un grande a scegliere proprio quella postazione: il me di qualche mese fa, pur nella concitazione nell'acquisto del biglietto, ha pensato bene di aggiudicarsi il tipico posto vicino alla scalinata che assicura la possibilità di muoversi liberamente senza rompere il cazzo a nessuno, peraltro vicinissimo ad uno dei tanti bar e al cesso. Bravo me! 

Mi siedo sorseggiando la mia birretta rendendomi conto di essere davvero in alto, ma al tempo stesso mi sento confortato dall'oscurità e dalla musica ambient diffusa dagli amplificatori, una situazione quasi irreale. Là sotto il quadrilatero davanti al palco è ancora semivuoto, la gente sembra tranquilla, chiacchiera e sorseggia il proprio drink. In mezzo al pubblico si erge uno strano cubo coperto da teli che ricorda molto la Kaaba, l'edificio cubico sacro situato al centro della Grande MoscheaLa Mecca. A scapito della sacralità evocata, le luci rosse conferiscono alla scena un perturbante fascino infernale. La musica ambient inizia a farsi irrequieta, di colpo si inalbera ed inizia a fremere di beat incalzanti: che sia già il dj set di Boys Noize, il dj tedesco chiamato a supportare la band? Sì, lo è, la sua techno di grana grossa accompagna il progressivo riempimento dell'arena. La gente in piedi è immobile, quelli seduti accennano qualche oscillazione ritmica del capo, ma è solo un sottofondo, un ottimo sottofondo, con bassi e colpi su rullante e cassa che non son nemmeno troppo nel sottofondo, ma di certo Boys Noize non ruba la scena al Trent, semmai gli stende il tappeto rosso. Siamo molto lontani dalle situazioni ai "margini della periferia del mondo" vissute con i Savatage appena due giorni prima: qui sembra di essere dentro al nucleo pulsante dell'universo. 

Nonostante le 20000 persone e il carattere generalista che un evento del genere può assumere (si capisce che tanta gente è presente tanto per esserci, conoscendo della band quanto basta per sapere che è figo esserci per poter poi postare una storia su Instagram!), il pubblico nel complesso mi sembra abbastanza selezionato e consapevole, con un predominio schiacciante di individui nero-o-grigio-vestiti in maglietta con la scritta NIN in bella vista. Seguono nerdintellettuali della musicadark-lady che vanno dal naif al fetish ed ovviamente cinquantenni strinati. Significativa la presenza della comunità LGBTQ+, soprattutto sul versante queers. Età media piuttosto alta, direi, ma non mancano giovani e giovanissimi, a dimostrazione della penetrazione trasversale che la proposta della band ha operato, fra alti e bassi, nel corso di quattro decadi. 

Cosa dire del Peel It Back Tour. Anzitutto è un tour che non è chiamato a supportare alcuna nuova release (al 2020 risalgono gli ultimi full-lenght licenziati dalla band, ossia "Ghost V: Together" e "Ghosts VI: Locusts"). A conti fatti, rimarrò soddisfatto della selezione dei brani, con ben otto tracce estrapolate dal capolavoro "The Downward Spiral" e, nel complesso, più della metà della scaletta dedicata alla porzione significativa della storia dei NIN, ossia quella che arriva alla fine degli anni novanta. Attenzione però, zero, dico zero, estratti dal mio amato "The Fragile" che, se ci si pensa bene, è una scelta azzardata. Un doppio-album che brilla per ambizione ed imponenza, "The Fragile", ma non proprio un album di hit, a veder bene, ed effettivamente non mi viene in mente nessun pezzo in particolare da dire "ah, cazzo, la dovevano fare!" (sebbene non mi sarebbero dispiaciute una “We’re in this Together”, una "The Day the World Went Away" od anche una “Starfuckers, Inc.”). Noto però che nelle date precedenti uno o due pezzi da "The Fragile" l'han fatti ("Somewhat Damaged" e la title-track), quindi non capisco questo accanimento proprio contro la data londinese. Ad ogni modo questa assenza verrà compensata da altri validi brani che altrove non sono stati suonati (fra cui anche una chicca di cui dirò). Il fatto poi che non vi sia una scaletta fissa, ma che essa vari di location in location, è in senso assoluto sempre positivo e descrive una band che non si limita ad impostare il pilota automatico e raccontare la stessa storia ogni sera. 

Quanto alla formazione che ci troveremo sulle assi, c'è da dire che il Trent sarà in buona compagnia, supportato dallo stesso team che lo accompagna da anni in sede live: oltre al fidato Atticus Ross (attualmente l'unico altro membro ufficiale della band) a tastiere, campionatori e programmazione, registriamo la presenza di personaggi che, bene o male, in studio o sul palco, orbitano da molto tempo intorno ai NIN, ossia il chitarrista Robin Finck (con trascorsi anche nei Guns N'Roses), l'italiano Alessandro Cortini (sintetizzatori, tastiere, chitarra e basso) e il tentacolare Ilan Rubin alla batteria (un vero portento della  natura!). C’è infine da capire come il tutto verrà impostato, se sullo schema di un ordinario greatest hits o sulla base di qualche altra diavoleria concettuale architettata dal genio di Trent Reznor. Il mistero sarà presto svelato: sarà il secondo scenario ad imporsi! 

Affermazione: Trent Reznor è un Artista con la A maiuscola, non ha scritto solo canzoni, ma ha inventato un Suono, il suono di una buona parte degli anni novanta (quegli anni novanta venuti dopo il grunge e prima dei Prodigy). E' anche un musicista poliedrico la cui visione artistica ha saputo evolversi nel tempo ed arricchirsi di elementi dai mondi sonori più disparati, dal rock all'irruenza del punk e del metal, dall'industrial alla darkwave all'elettronica all'ambient, al pop venato di funk e nobilitato dal jazz, e molto altro. 

Domanda: come rappresentare tutto questo in circa due ore? 

Risposta: semplice (ma non scontato), ossia dividendo il concerto in quattro sezioni tematiche spartite fra due palchi, uno grande dalla superficie ampia e dagli imponenti videowall, ed uno piccolo (ecco svelato il mistero del cubetto!), una sorta di zattera perfettamente quadrata che si erge fra la folla. Proprio da quest'ultimo piccolo palco si parte. 

Il big beat di Boys Noize lascia spazio al silenzio, i teli che ricoprivano il piccolo palco vengono lentamente issati verso l'alto. Dall'oscurità emerge il suono di un pianoforte e di una voce. Trent stupisce dal primo vagito e parte in punta di piedi, piano e voce, appunto. È da solo sul palco - nero vestito e presenza sobria - e si cimenta in una sentita interpretazione di "Right Where It Belongs", gemma introspettiva da quel "With Teeth" che, uscito dopo i grandi capolavori degli anni novanta, suscitò qualche malumore fra i fan, ma che se ascoltato senza pregiudizi è indubbiamente da considerare un grande album. La voce di Trent è un fendente che squarcia il silenzio, il pianoforte lo accompagna in modo delicato: il concerto è iniziato da pochi minuti e sono già grandi sorprese ed emozioni. Un breve accenno a “Somewhat Damaged" alimenta entusiasmo e speranze, anche se purtroppo - come abbiamo già detto - questo frammento rappresenterà l'unica testimonianza tratta dal monumentale "The Fragile". 

Oltre ad essere inaspettato, questo inizio "acustico" è una vera genialata. Sarà un crescendo. Segue "Ruiner" (brano della prima ora, qui praticamente irriconoscibile in versione piano-ballad), durante la cui esecuzione Atticus Ross e Robin Finck raggiungono Reznor sulle assi. Purtroppo dalla distanza a cui mi trovo i musicisti sono dei lillipuziani che si muovono su un minuscolo fazzoletto, difficile capire con precisione cosa stiano combinando. Con il primo vero classico della serata "Piggy" si rompono definitamente gli indugi, il brano procede in modo ubriaco e meditabondo, Reznor ripete allo sfinimento nothing can stop me now con la sua caratteristica voce imperfetta, nasale e lamentosa mentre beat sbilenchi spezzano l'andameno blueseggiante del brano, iniziando a far emergere quel suono che sarebbe divenuto uno standard della musica popolare degli anni novanta. 

Una batteria roboante incalza dall’altro palco ricalcando gli arditi schemi ritmici dei breakdown elettronici. Braccia possenti che impugnano bacchette e percuotono tamburi giganteggiano sui pannelli del main stage: è l'inizio della seconda sezione che ci fa piombare senza tanti preamboli a quel fitto intreccio di ritmiche nervose e riffing affilato che generalmente associamo alla band nei suoi anni ruggenti. Trent è adesso sul palco principale ed imbraccia una chitarra. Le sei corde saranno protagoniste nella motorhediana "Wish", feroce ripescaggio da "Broken". Il pubblico è ormai caldo e grida a gran voce "Wish there was something real, Wish there was something true, Wish there was something real, In this world full of you" certificando il primo momento di grande partecipazione collettiva. Peccato solo che da dove sono io il suono giunga un po' ovattato e in sordina; sarebbe stato bello, in questo frangente, stare fra la gente e saltare come si deve. Il treno procede imperterrito sugli stessi binari con un altro classicissimo: l'immancabile "March of the Pigs", altra travolgente galoppata industrial-rock via via rotta da quel languido "Now doesn't it make you feel better? di piano e voce, espressione del genio artistico che ha animato i primi NIN. 

Il Trent non si perde in grandi discorsi, tenendo fede al suo personaggio, algido e scontroso, ma fintanto che si prodiga nella musica in modo così egregio, non ce la sentiamo di rimproverargli alcunché. Sempre da "The Downward Spiral" arriva "Reptile" che porta con sè un solido groove accompagnato da prodigiosi effetti visivi con tanto di fasci di luce ed ologrammi (???) che si integrano alle immagini in bianco e nero dei musicisti catturate in presa diretta da un cameraman sul palco. Se non altro, anche coloro che occupano i posti più lontani dal palco possono godere dello spettacolo, sebbene le immagini siano incalzanti, frammentarie e restituite in modo distorto. Qui si iniziano a mostrare i primi problemi tecnici, con Finck che è costretto a prendere il controllo della situazione e finire di cantare il pezzo. A proposito di Finck, mi piace il suo stile, per niente didascalico ma pieno di personalità, tagliente quando necessario, ma anche venato di una certa inclinazione blues, che non guasta nelle meccaniche trame sonore dei NIN. Strardinario il lavoro di Ross e Cortini, abili direttori dell'orchestra sintetica chiamata a dare corpo alle visioni distopiche del messia Reznor.    

"The Lovers" (dall'EP del 2017 "Add Violence”) ripone le chitarre nelle custodie per portarci in territori più elettronici, un momento che ho particolarmente apprezzato. Sicuramente per i visuals, bellissimi, evocanti quel carattere astratto ed espressionista di molte copertine degli album della band. Ma poi è il brano ad essere bellissimo, sorta di ballata electro-pop che integra alla perfezione pacati beat sintetici, raggelanti trame di piano e il canto languido di Reznor: un mix di cose che potrebbe piacere tanto al fan dei Depeche Mode quanto a quello di Steven Wilson, a dimostrazione della vastità della visione artistica di Reznor. Prosegue sulla stessa scia, ma in modo più incalzante, "Copy of A", pezzo forte di "Hesitation Marks", dalla partenza minimal ma con sferzanti sviluppi chitarristici e sfociante nei territori della techno battente con i soliti spettacolari effetti visivi a rendere l’esperienza definitamente immersiva (questa volta sono le sagome dei membri della band a rifrangersi sugli schermi in accattivanti contrasti di bianco e nero). 

Alza ulteriormente la tensione con i suoi ritmi nervosi "Gave Up", repentino ritorno al passato (siamo tornati ai fasti di inizio carriera, a "Broken" per l'esattezza) con pattern di batteria ai limiti dell’hardcore, chitarre sferraglianti, ritornello strillato su un infernale sfondo rosso: la chiusura ideale del cerchio in questa seconda sezione fatta di sensazioni contrastanti, un saliscendi emotivo che rende palese l’estrema padronanza dei musicisti riguardo alla propria materia sonora, capaci di ammaestrare una scaletta che sa fluttuare, mutare omogeneamente e per gradi, ma che sa anche compiere salti bruschi da uno scenario all'altro. 

A proposito di cambi bruschi, giunge la terza sezione, quella che vede di nuovo i nostri eroi sul piccolo palco. Questa volta sono in tre: Reznor, Atticus Ross e l'ospite Boys Noize a picchiare duro dietro alla consolle. Questa sarà, come è facile intuire, il momento più elettronico della serata. Il set si apre con i beat testardi di "The Warning" (direttamente dall'ottimo "Year Zero", l'album che, dopo la svolta "alternative rock" di "With Teeth", sancì il tentativo di ritornare alle sonorità industrial degli esordi): un brano che esprime alla perfezione quella verve funky che io definisco "princiana" e che via via ritroviamo nel sound sfaccettato dei NIN. Seguiranno il "pop ottantiano" di "Only" (altro gradito saccheggio da "With Teeth"), dal ritornello contagioso, ed infine la pestona "Came Back Haunted" (sempre da "Hesitation Marks"), entrambe allungate e stravolte nel techno-remix da paura ad opera del dj tedesco. Mentre ritmi house si accavallano incalzanti e le luci disegnano geometrie clamorose sul pubblico festante trasformando l'O2 Arena in uno scatenato dance-floor, Reznor non risparmia i propri polmoni: proteso in avanti facendo leva sull'asta del microfono nella più classica delle sue posizioni on stage, il Nostro sputa invettive in odore post-punk, ricordandoci che non siamo ad un rave, ma pur sempre ad un concerto dei fottuti Nine Inch Nails

Arriva finalmente la quarta sezione, quella dedicata ai classici della band, la fase che personalmente ho più apprezzato. Si torna sul palco principale. Non ha certo bisogno di presentazioni la mitica "Mr. Self Destruct", autentico manifesto della rivoluzione sonora dei NIN, nonché ponte ideale fra culture industrial e metal, fra vene gonfie sul collo e un ostinato riffing thrash. Rincara la dose "Heresy", un altro tuffo al cuore con il pubblico che grida a squarciagola il celebre slogan GOD IS DEAD AND NO-ONE CARES, andando a rappresentare un altro indubbio highlight della serata. 

Dopo una doppietta di classici del genere, la bombastica "Less Than" (da "Add Violence") regge bene al confronto, mantiene alta l'adrenalina attraverso un incedere incalzante ed esplosioni di chorus epici. Siamo in una fase interessante del set: “Closer” ci porta ancora una volta nelle spire di "The Downward Spiral” attraverso colpi secchi di batteria ed un piglio da brano pop ottantiano che ha un effetto contagioso sul pubblico, che adesso ha difficoltà a stare fermo. Tempo di presentare i componenti della band (con il boato più grosso all'indirizzo di Atticus Ross) ed eccoci ad un altro bel momento della serata, ossia la cover dell'amatissimo e mai troppo compianto David Bowie, che viene tributato proprio con quella "I’m Afraid of Americans" che i NIN remixarono con la benedizione dello stesso Duca Bianco. Un brano, ahimè, che risultata oggi più attuale che mai e che Trent ha non a caso riportato sul palco in questi tempi burrascosi. Il brano viene reso in modo grintoso dalla band, focalizazandosi sull'elemento percussivo e sul ritornello martellante. Anche qui si avrà qualche problemuccio tecnico, roba che non svilisce in nessun modo la resa della performance, ma che evidentemente fa innervosire il Reznor. 

Siamo in una fase del set interessante, si diceva, ed ecco un’altra graditissima sorpresa: la tarantolata "The Perfect Drug", direttamente dalla colonna sonora di "Lost Highways" di David Lynch,  uno di quei singoli che sono passati in heavy rotation sulle emittenti televisive e radiofoniche verso la metà degli anni novanta. Animata da frenetici ritmi jungle ed un ritornello insistito che ti si stampa subito in mente, il brano rappresenta la quintessenza del suono dei NIN all'apice della loro popolarità. Da brividi l'outro pianistico ("Without you, without you everything falls apart, Without you, it's not as much fun to pick up the pieces"...), ennesimo colpo di genio nell'imprevedibile arte di Reznor, capace di passare in un istante dalla tracotanza sonora ad inaspettati slanci introspettivi. Peccato solo per la cacofonia non voluta percepita nel sottofondo del finale del brano, come se fosse partita una base che non sarebbe dovuta partire: ennesimo problemuccio tecnico che ha caratterizzato la data londinese e l'inquietudine crescente del front-man

"Head like a Hole" (unico ripescaggio dall'esordio "Pretty Hate Machine") sarà il momento più "arena rock" della serata: le chitarre ruggiscono e il ritornello anthemico viene servito in pasto al pubblico famelico con tanto di chitarra lanciata per aria dal Trent ed atterrata rovinosamente a terra. Lì per lì ho pensato alla classica scenetta della chitarra distrutta a fine concerto ma, ripensandoci credo che invece sia stato un fuori-programma dettato dalla frustrazione del musicista per tutti i problemi tecnici riscontrati fino a quel momento. 

Il cerchio si chiude: si torna all'introspezione con cui il concerto si era aperto. Dal pianoforte e dal canto col groppo in gola di "Right Where It Belongs" si arriva alla chitarra acustica dell'immancabile "Hurt", il brano per eccellenza dei NIN nonché fra le più vibranti ballad dell'intera epopea del rock. Due soli coni di luce, i riflettori sono puntati su Reznor e Finck, intorno l'oscurità via via rischiarata dai numerosi telefonini usati a mo' di accendino. Inutile ripercorrere a parole le sensazioni vissute durante il brano: la partenza pacata, le corde della chitarra appena sfiorate e poi il crescendo, il montare degli accordi, il lamento di Reznor che viene incorniciato dal coro partecipato del pubblico, il tutto ripetuto per ben due volte, infine l'elettricità delle ultime affossanti note di chitarra distorta. 

Ora però bisogna essere onesti: ogni ascoltatore nella musica ci proietta se stesso, è questo il bello della musica, ma è impossibile aspettarsi che Reznor interpreti oggi "Hurt" con la stessa intensità emotiva con cui la cantava negli anni novanta, sudato e con l'ultimo filo di voce. Oggi Reznor ha sessant'anni, è un uomo maturo ed un professionista che sa fare il suo mestiere. Paradossalmente è risultata più sincera la sopra citata "Right Where It Belongs", evidentemente portatrice di uno stato d'animo del suo autore più recente. Quindi non parlerò dell'esecuzione di "Hurt" come del momento più bello del concerto in senso universale, qui più che mai ha contato la soggettività dell'individuo, ognuno l'ha vissuta come ha voluto o potuto. Io, personalmente parlando, ho avuto l'impressone che sia stata tirata un po' via, come se Trent volesse togliersi dalle palle il prima possibile. A Reznor evidentemente stavano girando i coglioni come pale di elicottero per via di tutti gli intoppi tecnici sperimentati in precedenza, e così, nemmeno terminato il brano, il Nostro volta le spalle al pubblico e lancia con stizza il microfono per terra per poi abbandonare il palco senza tanti fronzoli, confermando quel senso di antipatia e grandezza che il personaggio mi ha sempre trasmesso. E va bene così: è pur sempre un momento di umanità che, in occasione di un brano significativo come "Hurt", preferiamo rispetto ad una maschera che finge di provare quello che provava trenta anni prima quando era un ragazzo fragile ed incazzato. 

Piuttosto ho trovato insopportabili coloro che, fra il pubblico, nemmeno finito il brano e con i feedback di chitarra che ancora ronzavano laceranti nell'aere, si sono avviati in anticipo verso l'uscita per evitare file e calca. Ma vi rendete conto? Si è appena consumato uno dei momenti più iconici della Musica Popolare Tutta, uno di quei momenti per cui - in teoria - vale la pena aver vissuto, e la gente si preoccupa di dover fare la fila all'uscita del locale o all'ingresso della stazione della metropolitana. Insomma, è proprio vero che GOD IS DEAD AND NO-ONE CARES, verità sociologica professata da Santo Reznor più di trenta anni fa ed oggi (in tempi di social, fake news, iper-comunicazione, analfabetismo funzionale e perdita totale di senso critico) più attuale che mai!  

Quanto a me, rimango in piedi alla mia postazione osservando dall'alto la scena surreale della folla che defluisce lentamente verso le varie uscite accompagnata dalle note inquietanti della colonna sonora di Twin Peaks (è il celebre "Laura Palmer's Theme"), tributando in modo palese l'amico David Lynch, venuto a mancare proprio quest'anno. Anche solo per questo: promossi a pieni voti. 

Che dire, in conclusione: Trent Reznor, anche sulle assi di un palcoscenico, si conferma quell’Artista con la A maiuscola di cui si parlava all’inizio, capace di allestire uno spettacolo concettuale e radicato nella contemporaneità, a dimostrazione del valore universale del suo operato. Regista ma anche frontman instancabile (a sessant'anni suonati!), Trent Reznor non perde la sua umanità pur nel ruolo di officiatore di un carrozzone destinato ad attrarre decine di migliaia di persone. Un ruolo che forse non sente più centrale nella sua vita, magari più interessato a starsene sul divano di casa sua con un laptop in grembo a scrivere colonne sonore. Forse Reznor non è più quel Mr. Self Destruct che ha agito da guida spirituale per una generazione intera, ma si conferma una figura artisticamente resiliente nonché una presenza solida ed ancora appagante sul palco. 

Quando si ha una storia così lunga ed importante da raccontare, del resto, la difficoltà sta nel trovare la giusta sintesi fra le varie parti di questa storia e il rischio che queste componenti si sviliscano a vicenda. E così gli episodi più in-your-face e deraglianti finiscono per perdere parte della loro irruenza primigenia bagnati dai giochi di luce e dagli effetti visivi del "grande show", affiancati da tutte quelle pregevoli sciccherie che, con tanto mestiere e perizia, sono state prodotte nell'ultimo quarto di secolo, laddove la maturità va inevitabilmente ad addomesticare le nevrosi delle origini. Ma con un messaggio complessivo che, nato come distopico molti anni fa or sono, diviene oggi - amaramente - più attuale che mai.  

Il Peel It Back Tour 2025, in definitiva, porta con sé il paradosso di essere un evento di massa ed al tempo stesso una dimensione di nicchia, considerata la convivenza di inni generazionali da un lato con la ricercatezza della proposta e la complessità/osticità di determinati passaggi dall’altro, facendo un effetto strano, un po’ quello che possono fare dal vivo i Radiohead o qualsiasi altra band (poche in verità) che si può fregiare di aver raggiunto una grande popolarità riuscendo a “cambiare le regole del gioco” e non facendosi cambiare dal gioco...