Confesso che ho vissuto, come diceva Neruda, e che non ho considerato granché i Mastodon.
Per recuperare, vi propongo questa recensione non lineare che vuole essere, oltre ad un omaggio verso il defunto Brent Hinds, un'occasione per ripensare alla musica della band. Certo, vi potreste chiedere: “se non li conoscevi quasi, che omaggio dovresti fare?”. Beh, qui viene fuori un antico criterio con cui amplio le mie conoscenze metal, e musicali in generale: quando leggo in un altro, amico o sconosciuto, un entusiasmo genuino o un altrettanto genuino disappunto, mi precipito a esplorare quel che non conosco. Così accadde per gli Annihilator, quando uscì "Alice in Hell", e più recentemente per i Warning, ma potrei citare molti altri episodi, fino appunto ai Mastodon.
Per cui, la sfida è stata di farsi un'idea dei Mastodon in poche ore, e giù il primo disco. Scelgo “Remission” (2002), perché, almeno nel 2025, il primo disco è fondamentale per capire la parabola artistica di un progetto. Ovviamente non arrivo sprovvisto di etichette pescate qua e là dai commenti, e quindi mi aspetto prog, psichedelia, tecnica batteristica ma anche cuore e abbandono sludge. Li trovo tutti, ma ciò che userei per definire l'insieme di queste sensazioni è “impressionismo”, di cui la psichedelia è una variante, e anche il prog.
Una delle definizioni di prog che ho trovato più convincenti è un flusso strutturale che segue lo sviluppo di un impronta sonora iniziale, e non tenta subito di impacchettarla per farla entrare in un modulo: si può paragonare ad esempio all'osservazione di un albero di frutti da cui cadono i pomi, attendendo che cadano tutti, osservando in che disposizione, e seguirli nel loro marcire, e divenire poi preda di insetti vari, fino a fertilizzare il terreno. Questo anziché, per esempio, raccoglierli e mangiarli, oppure disporli in una cassa da portare ai mercati generali. Prog significa anche osservare la struttura cristallina del ghiaccio al microscopio, con tutte le formazioni e gli addentellati più o meno irregolari che si trovano, ma allo stesso tempo con la moltiplicazione e l'affermazione di quelle formazioni eleganti e simmetriche. Questo anziché stilizzarli in simboli grafici semplici e senza varianti, o osservare da fuori come massa amorfa e uniformemente costituita.
E' evidente che i Mastodon cerchino un abbinamento musica-immagine. Il primo brano di "Remission" ha in particolare una batteria scalpitante che sembra ben riprodurre l'immagine del cavallo in copertina, dal cui corpo partono fiotti di materia non identificata, che potrebbero essere le gemme di una chimera, di una testa di leone (corrispondente alla parte chitarristica).
Più che di psichedelia parlerei di impressionismo sonoro. Sicuramente c'è una destrutturazione della compagine sonora (e visiva), ma in entrata: quel che si prova a fare è scomporre il suono partendo da uno sviluppo degli spunti quale esso sarebbe in assenza di un'origine preordinata. Si buttano i pesci in acqua e si osserva dove vanno a parare per trovare cibo, anziché tenerli in un acquario e metter loro il cibo in un punto, provocando movimenti prevedibili e concordi. Quindi non si studiano “riflessi” psichici, ma si recepiscono variazioni della linea sonora, e si registra che tipo di suggestione queste creino.
Si potrebbe pensare che tutto ciò, senza un animo che è già impostato in qualche senso, non va a parare da nessuna parte, così come l'effetto di una droga “psichedelica” spesso dipende dalla situazione di partenza in cui la si assume. Eppure il tentativo è questo, lo stesso degli impressionisti che scomponevano la luce per come essa impattava la retina, nella loro ipotesi. Dopo arrivava il vissuto, i nessi. Questo almeno è per “Remission”: in particolare, aspettavo al varco “Trilobite”, titolo impegnativo. Eppure mentre la sentivo ho pensato: “si, questi suoni mi danno proprio l'idea della forma e delle curvature di una trilobite”. Ma i Mastodon fanno il brano e poi lo chiamano trilobite, o provano a fare un brano che illustri il titolo concepito a priori? Perché nel secondo caso, e qui arriviamo all'evoluzione, si fa il passaggio dall'impressionismo all'espressionismo.
Nel susseguirsi dei dischi il linguaggio rimane analogo come idea (il flusso del suono lasciato andare senza preoccuparsi di dove arriverà) ma si capovolge il verso: l'animo fa da filtro, e il suono arriva dalle spalle, per poi produrre immagini e sogni che si materializzano davanti agli occhi di chi ascolta. Anziché arrivare da davanti e rimbalzare di fronte a chi ascolta, prima ancora di poterci ragionare sopra, come equivalente di una impressione sensoriale immediata.
Così già "Leviathan" (2004) descrive non già la lotta contro un mastodontico cetaceo, ma una lotta interiore verso uno scopo ostile che resiste, tema interno con cui il capitano Achab vive la balena. Il tormento e l'avvinghiamento del capitano alla sua sfida interiore è reso musicalmente, qualcosa che appare e nel momento stesso in cui appare è già qualcosa di interiorizzato, perché in verità lo vedi per la prima volta con gli occhi di un tuo stato emotivo, e così lo “crei” da dentro. Esattamente come il volto della persona amata, che è tale in quanto c'è l'amore, altrimenti sarebbe “un volto”. In “Leviathan” si esprime la tragedia dell'uomo che crea il suo stesso incubo e insieme la sua missione, condannando se stesso a vivere nello slancio verso un antagonista imprendibile e che, sotto sotto, ha timore di catturare quanto terrore di non aver mai catturato.
Con i dischi successivi tornano i colori, vividi, ma le forme sono definite, troppo. Non possono essere impressioni ma creature interiori, demoni dalle fattezze talmente precise che devono essere state determinate “prima” della loro realizzazione sonora. Il cervo tricefalo e minaccioso di "Blood Mountain” (2006), l'onirica simmetria delle disposizione di figure di "Crack the Skye" (2009), la scultura lignea, sorniona e dalle molte mandibole, di “The Hunter” (2011).
Siamo in piena fase espressionista qui, non è svelata la magia della materia che si forma dando luogo ai significati, ma la magia dell'animo che decide la forma delle cose. Naturalmente, e vi potete divertire a classificare così i pezzi dei Mastodon, potrete trovare anche brani misti, e soprattutto nella fase finale un prevalere di uno e dell'altro senso di lettura. A mio avviso, si va poi verso una sintesi, non impossibile, con le parte più vibrante che preme da dentro in fuori, e quella più acustica che è più "sensoriale".
Andando alla musica, quest'idea dello sfilacciamento è cosa che chiunque avverte subito nel prog/psych, e infatti la cosa più godibile dei Mastodon è l'aggiunta di quell'abbandono, quel misto di indolenza e di inerzia sfiduciata che è propria dello sludge, lo “strascinamento”. E' un elemento doom sostanzialmente, che contrappunta invece magari gli elementi frizzanti e aguzzi di batteria e di chitarra. Si fa presto, in questo tipo di musica, in parte ipertecnica e in parte strascinata, a finire nel vicolo cieco del “criceto nella ruota”: batterie che, per quanto fenomenali, girano in tondo, e gli altri che le seguono. Qui invece ci si toglie dalla ruota del criceto, perché la sensazione è quella di essere su un trampolino che spinge in alto e poi riaccoglie elasticamente: ad ogni atterraggio il loop riprende ma varia. Mi viene in mente, ascoltando i Mastodon, e qualcosa vorrà dire, un episodio dell'Uomo Tigre. Come molti sapranno, è quel cartone giapponese di lotta con il campione mascherato da tigre che si batte con una serie lunghissima di avversari fino allo scontro finale. Ora, gli avversari si fanno sempre più bislacchi, e alla fine anche il ring viene modificato, per arrivare ad esempio all'Uomo Piranha che lotta su un ring circondato da una piscina; oppure dall'Uomo Ragno (niente a che vedere con la Marvel) che cerca di vincere Tiger Man combattendo su una ragnatela sospesa in aria tra quattro pali.
Ascoltarsi i primi Mastodon, specie quelli impressionisti, è come vedersi questa puntata del cartone.
Il progetto Mastodon ad un certo punto, secondo me, si arena perché quei moduli inizialmente rifuggiti diventano uno sbocco naturale: l'esplorazione musicale va bene ma misurarsi con un genere più canonico, con strutture-canzone, sembra diventare l'urgenza espressiva inevitabile. Una ristrutturazione che si porta dietro un risucchio di sensazioni e di “bilici” sonori, e con essi però anche il sapore particolare del piatto. E' un segno dei tempi, questo, e cioè che si riesca a fare meglio una musica destrutturata, o minimale (black lo-fi, dungeon), rispetto ad una musica con canoni, in cui si diventa facilmente anonimi o frettolosi.
Alla fine nessun omaggio improprio e una scoperta davvero sostanziosa di una realtà che, almeno fino ad un certo punto, è riuscita a descriverci bene le radici della comunicazione tra orecchio (e occhio), suono e animo, in entrata e in uscita.
A cura del Dottore