"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

25 ott 2016

RECENSIONE: NEUROSIS, "FIRES WITHIN FIRES"



40:51": con questi numeri potrebbe essere riassunta l'intera recensione di "Fires Within Fires", ultimo parto dei leggendari Neurosis.

Il vero dato stupefacente dell'ultima (non più stupefacente) fatica discografica di Steve Von Till, Scott Kelly & compagnia è proprio la sua durata, che, ai tempi d'oro (i Nostri ci hanno abituato a lavori piuttosto lunghi) poteva essere quella di un EP.

Io in questa scelta ci vedo serenità, e, più in generale, mi pare che fra la tribù dell'Oakland e i suoi fan, a questo giro, tiri aria di riconciliazione, dopo la mezza delusione del precedente "Honour Found in Decay", del 2012 (oggi comunque oggetto di parziale rivalutazione). Questo perché le aspettative si sono giustamente abbassate nei confronti di una band che soffia quest'anno su trenta candeline.

Cosa pretendere ancora da chi ha sfornato almeno una mezza dozzina di capolavori, intrapreso un percorso di crescita strabiliante, ci ha sistematicamente stupito ad ogni uscita (almeno fino a tre uscite fa...), inventando di fatto un genere nuovo (il post-hardcore) e cambiato i connotati del volto del metal degli anni duemila? L'impressione è che nel metal oggi si stia tornando ad una concezione meno isterica del cambiamento, sia per quanto riguarda gli artisti che i fan. Vedo che in giro ci si inizia ad accontentare, o meglio, a non pretendere l'impossibile.

Riporto l'esempio dei Meshuggah: la loro evoluzione artistica è stata mirabolante (anch'essi hanno aperto nuove vie e definito un nuovo genere, il djent): una parabola che ha visto come punti di snodo fondamentali "Destroy Erase Improve" (1995), "Chaosphere" (1998) e "Nothing" (2002). Giunti a quel punto, cosa era lecito inventarsi per proseguire con onore la propria carriera e soddisfare le aspettative dei fan viziati da uscite sistematicamente superlative? Con "Catch Thirtythree" (2005) si provò a dare un seguito alla precedente produzione discografica tentando la via della composizione unica di oltre cinquanta minuti (con l'idea aggiuntiva di campionare i suoni della batteria). Giocata questa ultima carta, ai Nostri toccò non solo tornare alla formula dell'album classico, ma anche e soprattutto stabilizzarsi dal punto di vista stilistico, giocando sulle sfumature e muovendosi per passetti laterali. "ObZen" (2008) non fu stupefacente, come del resto non lo fu  il successivo "Koloss" (2012), ed infatti si levò un coro di muggiti e mugugni di perplessità perché i Meshuggah si riproponevano uguali a se stessi, sebbene ovviamente nessuno potesse mettere in dubbio la professionalità e l'integrità artistica di quegli straordinari musicisti. Ma in modo sotterraneo il valore di questi due album si è rivelato nel tempo, preparando il terreno ad una sorta di sostrato psico-emotivo favorevole a questo ordine di cose. Ed oggi giustamente si grida al capolavoro con "The Violent Sleep of Reason", che continua a muoversi sulle medesime coordinate dei due predecessori. Paradosso? No, la soluzione dell'enigma è la seguente: i Meshuggah sono sempre gli stessi, è la gente semmai che, dopo la fase della rassegnazione, è passata a quella dell'accettazione, che da un punto di vista psicologico significa che non vi sono più pregiudizi nella fruizione dell’opera.

Una cosa simile sembra essere accaduta ai Neurosis. Del resto, sinceramente parlando, ma che dovevano ancora aspettarci da questi poveri cristi? Dopo "Times of Grace" (1999) potevano accontentarsi di fare lo stesso album per il resto della vita, ed invece ebbero l'ispirazione per concepire un’opera di “rottura” come "A Sun that Never Sets" (2001). Ragazzi, non è da tutti imbracciare le chitarre acustiche, buttarci un violino sopra e macchiare il post-hardcore (la cosa più elettrica che ci sia) con il folk! Non paghi, svoltarono verso l'elettronica oscura (secondo me ridefinirono il gothic) con la sacerdotessa Jarboe (“Neurosis & Jarboe”, del 2003, fu tutt'altro che un episodio secondario nella loro discografia) e poi sublimarono il tutto in "The Eye of Every Storm" (2004) dove il post-metal del Nostri veniva ulteriormente rivisitato, espanso in direzione psichedelica da un lato, ricondotto al cantautorato tout court dall’altro. A questo punto l'unica via d'uscita era il country, ma per quello c’erano già i lavori soliti di Von Till e Kelly. Pertanto si è rimasti dove si era, "lavorando di lima", sostanzialmente a recitare se stessi, forse più stanchi, sicuramente più vecchi, ma onesti.

Come accade anche nelle migliori coppie, l'amore sbiadisce per divenire affetto e stima reciproca, così nell'arte bisogna essere comprensivi e pazienti, soprattutto nel metal, dove occorrono energia, forza e corde vocali. Quaranta minuti, amici Neurosis, ci vanno oggi più che bene, non ci interessa che allunghiate il brodo, e il fatto che non lo facciate, vi fa onore. È facile divenire schiavi della propria immagine, specchio delle aspettative degli altri. C'è chi risponde con referenza e sudditanza, chi con arroganza ed isteria, ma i Neurosis dimostrano equilibrio e saggezza anche in questo.

È gente di cinquant'anni, gente che ha dato tanto, e per troppo tempo, rispetto a chi, con due album fatti bene, ci ha impostato una carriera; è gente che tiene famiglia, figli, gente che probabilmente oggi si sente a più agio con una chitarra classica in mano. Ma la grandezza rimane, l'amore per i Black Sabbath e la forte spiritualità pure: quanto cuore (seppur un cuore secco e stanco) in queste cinque composizioni dove tutti gli ingredienti di trent'anni di carriera si mischiano e rimodellano in una sorta di blues per pachidermi. Riff imponenti, dissonanze, arpeggi elettrificati, le rifiniture dell'elettronica ambientale, la classica alternanza di voci, con un Von Till in grande spolvero nel ruolo del crooner derelitto, sopratutto nella parte finale dell'album (si guardi per esempio all'incipit della conclusiva "Reach", che, dissolte le distorsioni del brano precedente, si fa largo con passo incalzante, quasi dark-wave, e con un arpeggio sporco a sostenere il canto ispirato di un Von Till da lacrime, molto molto vicino al miglior Mark Lanegan - a parere di chi scrive, il momento top dell'album).

Le stesse "esplosioni neurotiche" suonano più dimesse, assestandosi su un rifferama sabbathiano dai risvolti simil-stoner: i Nostri non cercano il colpo di scena, ma procedono con fare riflessivo e raccolgono in modo intelligente tutto quello che era possibile drenare da una ispirazione fisiologicamente calante ed attentata dalla vecchiaia, racimolando quaranta minuti asciutti, tonici, senza eccessive dispersioni (sebbene il post-hardcore sia il genere dispersivo per eccellenza): un insieme di cose controllato da una mente lucida e da una mano altrettanto ferma.

Sonorità che guardano quasi al noise-rock di inizio nineties, con strumenti vivi, elettricità viva, feedback di chitarra, rimbombar di basso, raucedine che sputa placche sui microfoni, e batteria, piatti veri: Albini, oggi più che mai, lo vedo indispensabile ad ammaestrare e conferire ulteriore coesione e calore a questi suoni rozzi e sinceri, animati, più che dal fuoco di una insopprimibile urgenza comunicativa, dalla saggezza degli avi.

Contadini che si svegliano all'alba e vanno a letto al tramonto, dopo una giornata di duro lavoro, un pasto frugale ed una buona bottiglia di vino: questi sono i Neurosis del 2016, gente che non ha più voglia di cazzate.

Se gli Isis, che appartenevano ad una generazione successiva, forse più nichilista, per superare l'empasse dovettero suicidarsi, i contadini Neurosis, nonostante la schiena rotta dalla fatica per il duro lavoro, non contemplano la morte come possibile via d'uscita: alla stregua del protagonista de "L'alba dei morti viventi" (quello ambientato nel centro commerciale), che sul punto di spararsi in testa per sfuggire al contagio degli zombie, decide all'ultimo di allontanare la canna della pistola dalla tempia e tentare la fuga, scegliendo così la vita e la lotta per la vita, allo stesso modo i Neurosis si guardano dentro e proseguono il loro cammino consapevoli dei loro limiti, consapevoli che non possono cambiare il mondo ancora una volta.

E a noi sta bene tutto questo, apprezzando il fatto che l'umiltà di chiudere un album in quaranta minuti è oggi una cosa rara. Bene che lo facciano i maestri: speriamo sia di esempio a tanti.