"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

10 mar 2017

I DARK ANGEL - PSICOLOGIA SENZA SPERANZA NEL TRENO MERCI DEL THRASH



I Dark Angel stavano sul cazzo a Chuck Schuldiner. Qui si potrebbe anche chiudere il discorso, ma sarebbe un errore. Primo, perché simpatie e antipatie non sono la nostra materia. Secondo, perché alla fine Schuldiner scelse Gene Hoglan per battere i tamburi. Pare che l'antipatia fosse legata allo stile di vita dei Dark Angel, non approvato da Chuck, che riteneva da microcefali passar la vita a violare le leggi e a fare i gradassi nelle bande di “motociclisti fuorilegge” (così riporta Wikipedia).

In realtà, l'aspetto irritante dei D.A. potrebbe essere prettamente musicale, e coincide con il loro
pregio. Sono quel che si dice una macchina da guerra, partono col paraocchi e avanti tutta! Ma, a differenza di un cavallo da corsa, che dà tutto in una breve ma intensa prestazione, questi durano per minuti, cambiando riff ma non tempo. Serrati, in una parola. Niente affatto plastici, contratti in una posa forzata che mantengono dall'inizio alla fine.
Somigliano a quelle persone che ti iniziano a raccontare dei fatti loro, e tu sei lì, ben disposto e anche incuriosito, poi però ad un certo punto vorresti piazzare lì un commento, chiedere qualcosa, un minimo di dialogo. Invece no, il vostro amico tira diritto, non vi fa inserire, vi ruba il tempo, procede a mulinello con i suoi racconti fino a stremarvi. In più tiene anche lo sguardo basso e non è minimamente interessato a sapere che reazioni sta suscitando in voi. Come parlare con un pipistrello, cieco e sordo. O come un treno merci: quando lo vedi passare non c'è uno scambio, anche solo virtuale, con i passeggeri che ci stanno sopra, qualche sagoma da salutare o a cui fare il dito medio, nulla: un freddo susseguirsi di cassoni d'acciaio.

Questo è lo stile vocale dei Dark Angel: sembra che stiano recitando a tutta velocità un giuramento prima di testimoniare, una formula di rito infinita, tutta d'un fiato. Per questo a metà del secondo brano di un qualsiasi album ti fanno incazzare.

Si salvano sotto vari aspetti. Primo fra tutti un buon muro di chitarre. Dicesi muro di chitarre quella struttura eretta in forma di riff da una coppia di chitarre, quindi di un certo spessore, che procede come struttura portante, e quindi non segue spesso l'articolazione della voce, della batteria o del basso, ma continua a macinare monotona e minacciosa. Il bello dei muri è che ti danno l'idea di un automatismo brutale con cui non puoi dialogare, uno schiacciasassi, una coppia di cani ringhiosi che potrebbero mangiarsi anche il cantante, se provi a tirargli il guinzaglio.

La scarsa propensione delle linee vocali e del muro chitarristico al dialogo con l'ascoltatore si confortano a vicenda: l'ascoltatore stesso, è letteralmente preso in ostaggio fino alla fine del disco. Non si va al gabinetto durante l'ascolto di un disco dei Dark Angel. Non si può ascoltare i singoli pezzi, non si può premere pausa. Manderebbe a puttane l'intera opera.

A dirla tutta, a tratti i Dark mi fanno pensare a come doveva essere la narrazione dei vecchi poemi epici, o la Divina Commedia in versione accelerata. La prima parte del verso ciancicata per poi cantilenare di più sulle vocali nelle ultime sillabe, con cadenza sempre uguale, come anche fanno gli stornellatori. Sul piano lirico, i temi scelti dai Dark calzano a pennello con questo approccio serrato e claustrofobico. Se fossero un genere letterario, sarebbero il verismo, quello in cui l'autore non doveva tradire un suo sentimento o giudizio su quello che stava raccontando, e quindi il tutto risultava asettico ed essenziale. Storie atroci raccontate come se si stesse leggendo la schedina del totocalcio, l'elenco del telefono.

I Dark Angel hanno regalato al metal, fondamentalmente, un dittico sul tema del trauma da abuso sessuale, che esplora, al di là dell'impatto disturbante dell'argomento, le dinamiche che portano le vittime degli abusi subiti a diventare essi stessi dei mostri, senza via d'uscita.
E' una cosa vera questa, anche se non vale per tutti. Sulla base di un pezzettino di DNA, chi subisce violenza può prendere due strade completamente opposte. O rimane introverso, spaventato e inibito, oppure al contrario diventa rabbioso, impulsivo e violento, trovandosi poi a praticare egli stesso abusi simili a quelli di cui è stato vittima. Un criminologo Americano, tal Lonnie Athens, sosteneva invece che violenti si diventa, al di là della genetica, per un processo di apprendimento chiamato “violentizzazione”, che può render chiunque un mostro. Su questo tema, se cioè è l'ambiente a rendere violenti, o il destino è invece nei geni, c'è un'intera serie su Sky Crime and Investigation Channel. Casi di criminali seriali su cui psicologi e psichiatri esprimono il loro parere per capire se sono “nati per uccidere” (il titolo della serie) oppure se ci sono diventati per un condizionamento ricevuto. E alla fine, puntualmente, non concludono mai una sega, su nessuno dei casi.

Il pedofilo di “Leave scars” è un mostro che lascia cicatrici. Non gliene importa nulla delle cicatrici, vive per rincorrere un desiderio, che è quello di prevalere sul sesso debole, cioè il sesso che può forzare, dominare con la minaccia. La mostruosità è prima psicologica che fisica, perché il concetto del mostro è che la vittima è l'unico tipo di partner che, annullando la propria volontà, può dare amore incondizionato. Questo nichilismo sadico esclude il consenso, la condivisione di qualsiasi tipo, perché se l'altro vuole il rapporto sessuale, allora non è più interessante. Ma neanche un partner a pagamento lo è, perché è anche quella una forma di consenso. Il sadismo prevede che la persona si sottoponga, soffrendone, all'atto, ma che annulli la sua volontà, la sua identità. In questo il torturatore realizza la sua.
Il sadico si spinge fino a proclamarsi “salvatore”, messia delle sue vittime, di cui traccerà il destino patologico, come se lo stessero aspettando per essere marchiati. In questa visione distorta, il violentatore descrive il suo percorso spirituale, dall'iniziale angoscia per quello che stava diventando, alla successiva totale soddisfazione per quello che si è rivelato. Va poi oltre, sovrapponendolo a quello della vittima, che inizialmente si ribellava, e infine si è arresa al fascino della violenza.
Il male è seminato quindi da vittime a carnefici. I Dark Angel sono pessimisti circa il fatto che questa catena si interrompa, e la biologia in effetti non dà loro torto, perché chi non diviene violento rimane spaventato.

Nel testo sembra anche che poi, dall'esempio della violenza sessuale, il campo si allarghi per includere altre forme di condizionamento “vampirico”, come ad esempio quella dell'avidità. Chi subisce l'avidità altrui diviene a sua volta avido di superare il proprio carnefice sullo stesso piano, in una Gomorra di prevaricazioni continue e cicliche, senza un vero futuro. Non si tratta del più banale trittico “sangue-sesso-soldi”, al centro di tante vicende di cronaca nera, ma di una psicologia sociale che entra nel particolare, una società che scruta le sue vittime e poi chiude gli occhi al momento opportuno, per scrutare altrove, fiduciosa che le sue vittime, quelle che non soccombono, torneranno come suoi nuovi membri cinici e violenti.

La storia finisce con una tragica consapevolezza, forse un anello di rottura di questa catena di Sant'Antonio della sopraffazione. Il carnefice infine perde il senso della vita, non è più appagato, si fa spazio nella sua mente l'atroce consapevolezza di essere di fronte alla morte, e da solo, senza alcun Dio. Perché se nel mondo ideale Dio non rinnega mai neanche i suoi figli più dannati, invece, in questo, Dio ha rinnegato lui, così come lui ha rinnegato Dio. Il motto “Io lascio cicatrici” che prima costituiva motivo di sadico orgoglio, diviene una ferita interiore, un senso di irrimediabile stortura che rimane nelle ferite procurate ad altri, e sopravviverà alla morte del carnefice stesso.

Il seguito della storia, e cioè "Time does not heal", tecnicamente ancora più evoluto, è la storia della vittima, basata sul cosiddetto stress post-traumatico. Si tratta di uno stato mentale conseguente ad un evento violento o catastrofico, che anziché essere “sistemato” negli anni sempre più vicino al dimenticatoio, è una specie di “nuovo inizio” per la persona. Il tempo che guarisce le ferite in questo caso invece serve a costruire le fondamenta della nuova vita “traumatica”, basata sul ricordo vivido e condizionante dell'esperienza negative. Il cervello è ingannato, e anziché lasciar perdere, crede di dover utilizzare il messaggio del trauma come nuova base, e il suo contenuto come nuovo “pane” quotidiano. La persona quindi vorrebbe uscirne attraverso, rimanendone invece invischiata.

Sia nella musica, che nei testi, non se ne esce: non si ha respiro, non c'è un momento di visione esterna. Uno dei thrash più pessimistici e introversi sulla piazza. E' un tunnel, che non vedi l'ora che finisca ma poi lo imbocchi di nuovo.

A cura del Dottore