"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

4 dic 2017

WOLVES IN THE THRONE ROOM: VERSO LA QUINTESSENZA DEL BLACK METAL - LIVE AT HEAVEN, LONDON - 30/11/2017


Perché ci piacciono così tanto i Wolves in the Throne Room?
Sono derivativi, non hanno inventato nulla, sono arrivati almeno dieci anni dopo tutti: saranno forse sopravvalutati?
No, i Wolves in the Throne Room non sono sopravvalutati; essi sono un gruppo fuori dall'ordinario e stasera l'ho capito in modo chiaro e definitivo. Anzi, stasera ho capito l'essenza stessa del black metal.
Siamo nuovamente all'Heaven, dove circa due mesi fa abbiamo visto i Satyricon, ma l'atmosfera è molto diversa. Ci accolgono suggestive luci azzurrine ed un mistico organo che potrebbe essere dei Popol Vuh. Anzi, molto probabilmente lo è.
Tante barbe. Se mi chiedete da chi è composto il pubblico dei Wolves in the Throne Room vi rispondo: tante barbe. Poi magari non tutti hanno la barba, ma è come se ce l'avessero. Giovani aitanti, belli, pieni di salute e barbuti che fino ad oggi pare che non si siano cibati altro che di mele e di noci. E che siano venuti qui cavalcando alci. Oppure vecchi saggi e sorridenti che sembrano emergere da un passato ancestrale: a tratti pare di trovarsi ad un concerto prog a Genova.
L'impressione complessiva è che abbiano aperto le fattorie: un'impressione strana ma positiva, che mi riporta alla mente l'atmosfera pre-concerto vissuta con i Neurosis, e le analogie con la tribù di Oakland non si fermano certo qui. Poco a che spartire, tutta questa brava gente, con l'universo strambo ed intellettualoide che ruota attorno ai SunnO))), che anche loro verranno in mente più di una volta durante la serata. Ma procediamo con calma.
Aprono le danze gli Aluk Todolo. La presenza massiccia di francesi fa pensare che vi sia qualcuno anche per loro. L'ingresso dei tre però è maldestro: entrano nel silenzio più imbarazzante, nessuno li riconosce, in molti probabilmente li scambiano per tecnici che devono ultimare il sound-check. Poi il chitarrista urla come un cafone rivolgendosi a qualcuno dalla parte opposta del locale e per magia il loro logo viene proiettato sullo sfondo della parete.
Per loro sarà una partenza nell'oscurità, rischiarata dal pulsare di una grande lampadina che pende dal soffitto e stanzia a mezz'aria davanti alla batteria, posta al centro ed in posizione avanzata sul palco. Musicalmente invece si parte velocissimi: è "Occult Rock"!
Le prime due sezioni di questa colossale suite fanno faville. La prima è un inesorabile crescendo di tensione con blast-beat persistente, un basso roboante suonato ad occhi chiusi e le virate eclettiche delle sei corde, fra riff zanzarosi ed effetti psichedelici. Il brano successivo invece mostra il vero volto dei francesi, fautori di un post-rock acido e dissonante continuamente pervaso da fantasmi kraut: a venire in mente continuamente sono infatti nomi come Can, Neu! e Amon Duul II.
Il mix di sonorità è intrigante e dal vivo esse ben si amalgamano in un rock dell'occulto che corre travolgente fra derive lisergiche e sentieri trascendentali: in questa schizzata psichedelia sopravvivono qua e là riff al tremolo, ma è palese, stasera più che mai, il fatto che per questi signori il black metal è solo un elemento fra i tanti del loro sound, e nemmeno quello principale.
Agli Aluk Todolo piace vincere facile e nella loro jam ininterrotta emerge più attitudine che idee vere o emozioni da esprimere. Quanto a me, diviso fra palco, bar e cesso, li seguirò in modo scostante, sfruttando il loro set a scopi biecamente preparatori per il vero evento della serata: l'esibizione dei Lupi d’Olimpia. Al termine di tutto ho la possibilità di portarmi fra le prime file munito di serenità, la giusta dose di alcool in corpo e la vescica piacevolmente vuota. E chi mi ammazza?
Un cenno al cambio palco (perché tutto stasera è speciale, anche i dettagli apparentemente più futili). I Wolves sono un gruppo magico e questa magia la si può saggiare anche nei preparativi che precedono il loro ingresso sul palco. Tornano gli eterei fraseggi di organo e tornano le luci azzurrine che, viste da sotto il palco, generano un'atmosfera irreale, magica (appunto). Una ragazza (che poi scopriremo essere la tastierista) asperge incenso nell'ambiente, perché quello a cui stiamo per assistere non sarà un concerto, ma un’esperienza dai contorni mistici. Dei teli costellati di simbologie appesi sullo sfondo e lo stemma acuminato della band posto al centro del palco costituiscono la scenografia povera per questi musicisti che puntano tutto sulla forza della loro musica.
L'introduzione ambient si fa irrequieta, le luci si spengono e i cinque prendono le loro posizioni sugli assi. Ad affiancare i fratelli Weaver ed il nuovo ingresso Kody Keyworth, troviamo Peregrine Sommerville (cortesemente in prestito dai Sadhaka) alla terza chitarra e Brittany McConnell (Wolvserpent) alle tastiere.
A rompere gli indugi è l'arpeggio iniziale di "Born from the Serpent's Eye", stupenda opener dell'ultima fatica discografica "Thrice Woven", e sono già emozioni incredibili. Le tre chitarre garantiscono profondità e sfumature, mentre il drumming impeccabile di Aaron Weaver pone un argine a dei suoni leggermente impastati che invero giovano al black metal viscerale dei Lupi, conferendo ad esso un gradito tocco di Emperor.
La mia posizione privilegiata sotto il palco fa sì che l'attenzione cada subito sulla figura del batterista, che mi impressiona per la performance ma anche per il suo strano atteggiamento. Avete presente quei casi di persone affette da balbuzie che, cantando, di colpo smettono di balbettare sfoggiando una insospettabile bellissima voce? Aaron Weaver dà una impressione analoga, come di ragazzo geniale con forti problemi relazionali che vive isolato nel suo mondo e che solo quando è alle prese con il suo strumento tira fuori se stesso e il suo talento, forse come molti altri che hanno fatto la storia del black metal.
Gli occhi sbarrati fissano il vuoto, le braccia si muovono a velocità supersonica sulle pelli; nelle pause però il Nostro, da uomo-macchina infallibile, diventa scoordinato, dondolando il busto in avanti e indietro: il suo sguardo (se così si può definire) è rivolto verso una dimensione solo a lui conosciuta. In quei movimenti, in quella espressione, riconosco un disagio che definirei tipicamente black metal: lo sguardo vitreo di Varg Vikernes, le fobie di Dead, il dorso ricurvo di Frost che si allontana dal palco terminata l'esibizione dei Satyricon.
Abbiamo sempre considerato il black metal una faccenda geografica, ma stasera capisco che il black metal non è una questione di paesaggi, di foreste, ma di disagio, interiore e dunque sociale. E se i Wolves in the Throne Room sanno suonare black metal, non è perché vivono in una fattoria spersa nei boschi dell'incontaminata Cascadia, ma perché sono dei disadattati, o almeno Aaron lo è, fragile fratello minore con problemi, accudito e protetto da Nathan.
Nathan, che pure guadagna la posizione centrale sul palco, non può essere definito un front-man carismatico, e di certo la sua piccola taglia non lo aiuta. Il suo atteggiamento è defilato e fisicamente è oscurato dall'imponente Kayworth, slanciato e di corporatura possente, ma il suo screaming lancinante buca con vigore il muro delle chitarre.
Eccoci finalmente alla pausa centrale del brano, banco di prova per testare il lato più melodico della band. Si sceglie di non riprodurre la registrazione della voce di Anna Von Hauffwolff e di ovviare alla sua mancanza con degli accorgimenti in sede di arrangiamento, perché la musica dei Lupi non conosce espedienti, artifici, sovra-incisioni: essa deve sgorgare spontanea e naturale in ogni momento dalle mani e dai cuori dei musicisti, e non da altre parti. Test superato: l'ultima rincorsa del brano, che parte da arpeggi e tappeti di tastiere, cresce fra linee melodiche che si annodano, ripartenze in doppia cassa ed ugole al vetriolo che si alternano. Quando Kayworth giunge in soccorso dietro al microfono con il suo screaming abrasivo che poco di discosta da quello di Nathan, non possono che venire in mente Steve Von Till e Scott Kelly che si danno il cambio in una terremotante "Locust Star", forse il momento più apocalittico vissuto dal sottoscritto in un concerto. Ma il meglio dovrà ancora venire.
È il turno dell'immancabile accoppiata "Dea Artio"/"Vastness and Sorrow", dal capolavoro "Two Hunters". La prima rappresenta per chi scrive l'apice emotivo della serata: uno strumentale dai toni pacati che offre il lato più post-rock (dream-pop??) dei Nostri. Chitarre zanzarose che si intrecciano sorrette dal battito ieratico della batteria: un lento crescere dalle tenebre alla luce che sembra voler celebrare il risveglio della natura al chiarore di un'alba che si amplia su un gelido paesaggio invernale. E di fatto con il crescere dell'intensità del brano (ben più di un intro) le luci offrono un coerente spettacolo, determinando il passaggio graduale e stupefacente dall'oscurità della notte al bagliore del sole al mattino e al saettare di fendenti rossi come il fuoco della vita. Anche qui è Kayworth a recitare la parte del leone, catalizzando l'attenzione dei presenti con i suoi lenti movimenti di chitarra in perfetta armonia con la solennità espresse dalle note del brano. Si respira indubbiamente una sacralità che ricorda i "riti elettrici" dei SunnO))).
Senza stacchi esordisce la feroce "Vastness and Sorrow", quasi un quarto d'ora di poesia squisitamente black metal: con il suo susseguirsi di idee, melodie e cambi di tempo, secondo quanto insegnato da Emperor e Burzum, essa si conferma uno dei migliori episodi (se non il migliore) del repertorio della band. Da infarto l'epico mid-tempo centrale, seguito da una delle accelerazioni più efficaci che il genere intero conosca.
Ma il cuore dei provati spettatori dovrà ricevere un ulteriore colpo, ossia l'esecuzione di "The Old Ones are with Us", pezzo di punta del nuovo album. Anche in questo caso si decide di fare a meno della voce di Steve Von Till, il quale aveva impreziosito con il suo suggestivo recitato la versione in studio. Ma la resa finale non ne risente, grazie ad arrangiamenti studiati appositamente per la dimensione live. Con piacere mi tornano alla mente gli Anathema di "The Silent Enigma", ispiratori primi di sublimi impasti sonori fatti di poderosi accordi, arpeggi e magie pinkfloydiane, resi in modo divino dell'assetto a tre chitarre + tastiere (il contributo di queste ultime è chiaramente più incisivo nei brani più recenti - peccato solo che non si sia voluto stasera mettere in scena il lato più ambient della band, magari pescando qualcosa dal bellissimo "Celestite").
Fortunatamente arriva "Prayer of Transformation" (da "Celestial Lineage"), un pezzo che non ho mai amato particolarmente. Dico “fortunatamente” perché essa mi permette con serenità di andare al bagno e fare un altro salto al bar. Il brano rende comunque molto bene dal vivo, rinforzato da avvolgenti tastiere e valorizzato nel suo lento incedere da avvolgenti luci verdi/azzurrine e zaffate di fumo. L'aver perso la posizione sotto il palco non si rivela un male assoluto, visto che da lontano i Nostri offrono un discreto colpo d'occhio. Ad ogni modo è facile dribblare gli spettatori davanti a me (il locale registrerà il pienone stasera, ma non potremo dire che straboccherà di gente) ed in poco tempo mi trovo in una buona posizione per assistere al resto del concerto. Da notare che stasera nessuno, dico nessuno, poga, nemmeno fra le prime file, ed è una cosa decisamente insolita in un concerto di metal estremo. E' semmai tutto un ondeggiar di teste ed occhi chiusi, braccia levate al cielo che accompagnano con gesti lenti gli sviluppi dei brani. Come dicevo all'inizio, del resto, l'aria che si respira non è quella del concerto, ma quella trasognata del rito collettivo.
È la volta dei venti minuti di "I will Lay Down my Bones among the Rocks and Roots", e le nostre vite non saranno più le stesse. Con i suoi continui saliscendi emotivi, la suite che chiudeva “Two Hunters” è un vero monumento di black metal evoluto costruito con le regole del post-hardcore. In essa pare possa succedere di tutto, impossibile descrivere a parole la forza impattante di questo brano: un gioco di arpeggi, refrain melodici, sfuriate, pause e ripartenze che potrebbe andare avanti all'infinito.
Mi sento di citare, in questo regno delle meraviglie, un frangente che mi ha colpito, catapultandomi per un istante in un altro concerto dai forti contorni mistici, quello degli Swans di qualche mese fa (ma non credo sia fuori luogo tirare in ballo la immaginifica “A Plague of Lighthouse Keepers” dei Van Der Graaf Generator): feedback di chitarra a sporcare il silenzio, buio, e poi un grande riff spremuto dalle corde solitarie della chitarra di Kayworh. Dalla destra del palco si rianima per l'ennesima volta quella maestosa creatura che è il black metal dei Lupi, incalzato da dietro dalle percussioni tribali che traghetteranno il brano verso un finale catastrofico di neurosiana memoria. E’ importante sottolineare il fatto che il brano si sia rigenerato da una posizione specifica del palco perché il carattere spaziale dell’esibizione diviene importante laddove la musica proposta ha la capacità mesmerica di svellere le coordinate spazio-temporali conosciute, per tracciarne altre appartenenti all’universo artistico degli artisti che si muovono nell'area a loro disposizione.
Si capisce che i Wolves sono l'esatto contrario degli Aluk Todolo: laddove per i francesi è la formula a vincere (una bella confezione riempita alla meno peggio con estro, attitudine e cliché), per gli americani la musica (anch’essa ricca di cliché) è un veicolo per trasmettere all’esterno un qualcosa che si cova dentro, per colmare di contenuti emotivi e significati gli stampi offerti dal black metal e dal post-metal. E forse è proprio questo aspetto a renderli diversi da tutti gli altri: l'onestà che li anima e che li spinge ogni volta a non cedere alla tentazione di optare per la via comoda (quella del mestiere, quella della soluzione scontata, quella dell'automatismo dell'abitudine), ma di cercare fieramente la via delle emozioni, l'unica praticabile per i loro spiriti puri. Quella stessa onestà che ad un certo punto ha persino messo in pericolo l'esistenza della band.
Con soli sei brani i Lupi d'Olimpia portano a termine il loro set di un'ora e mezza: un'ora e mezza che ha la valenza dell'eternità. E quello che abbiamo vissuto stasera lo custodiremo nel cuore per molto molto tempo ancora.