Il
Legno è dappertutto nel metal: in
una certa misura è intrinseco al suo DNA. Non sempre affiora in superficie, ma a
volte emerge eccome, soprattutto in ambienti ove vige ancora la Tradizione, dalle sue forme più rock oriented a quelle più estreme, come
il thrash e il death.
Il Legno, ahimè, non è arretrato nemmeno innanzi ai varchi del
leggiadro ed aggraziato mondo femminile. Nei lontani anni ottanta, fra le file
dei tedeschi Warlock militava una
delle prime donne del metal, la quale poi avrebbe imbastito una
carriera solista che sarebbe giunta fino ai giorni nostri: Doro Pesch.
I Warlock sono stati indubbiamente
un grande gruppo e un album come "Triumph
and Agony", fieramente arroccato in quella zona in cui hard-rock e
metal erano una cosa sola, può offrire grandi gioie a chi apprezza sonorità
tradizionali. Sound granitico, spunti
melodici disseminati con gusto, una scaletta di brani strepitosi in cui
ciascuno di essi era un potenziale hit
di successo (con in prima fila il classico dei classici "All We Are") ed una voce al
vetriolo che non passa certo inosservata: quella della grintosa, carismatica, l'instancabile Doro Pesch.
Dico instancabile perché in
ogni vocalizzo la cantante sembra volerci mettere tutta se stessa, a scapito
dei polmoni; carismatica perché essa rappresenta (stilisticamente ed
iconograficamente) il tratto distintivo della band; grintosa, infine, perché
la Nostra, complice un periodo in cui essere donna e cantare in un gruppo heavy
metal non era cosa affatto scontata, non si è mostrata in nulla inferiore,
quanto a potenza vocale e forza d'urto, ai colleghi maschietti. Anzi,
facilitata per natura negli acuti (che per lo meno agli inizi le uscivano fuori
agili agili), la cantante finirà per rappresentare la classica marcia in più per
una band che altrimenti avrebbe fatto fatica a distinguersi nel calderone
ribollente del metal della decade ottantiana.
Quanto al physique du role, sebbene
non stiamo certo parlando di una top-model,
in un contesto di totale assenza di concorrenza, con suoi i lunghi capelli
biondi cotonati, il bel faccino e i succinti abiti in pelle, la nostra eroina
faceva all’epoca la sua porca figura.
Cos'è
dunque che non va? Perché Doro, considerata la sua storicità e
considerato il suo ruolo pionieristico per le figure femminili nel metal (escludo
ovviamente l'inconsistente fenomeno rappresentato da Lita Ford) non gode oggi dello status di personaggio stra-imitato
nella storia delle donne nel metal? Come per esempio è stato per Siouxsie Sioux riguardo all'universo dark? E perché invece Tarja Turunen scatena ovazioni anche se solo scorreggia?
Semplicemente perché Doro
Pesch è di legno.
Doro, anzitutto, è tedesca e
si è visto come questo fattore anagrafico conti nel determinare il carattere di
legnosità di un artista metal, dalla scrittura alla realizzazione della musica.
Quei suoni di batteria da stadio, secchi e rimbombanti, solenni ed implacabili;
quel dum-dum-dum-dum di basso
grattugiato con sopra, a corrente alternata, quelle schitarrate quadrangolari
in stile AC/DC in salsa fonderia della Ruhr. Ma più che altro è l’eccessiva enfasi
a stuccare: al pari di altri connazionali campioni del Legno come Running Wild e Grave Digger, ogni istante per Doro deve rappresentare qualcosa di
definitivo, per questo alla fine della fiera tutto risulta paradossalmente
piatto, livellato, uniforme.
E questo lo si sarebbe capito
in modo più vivido nella sua carriera
solista: una faticosa traversata di quasi tre decenni in cui la Nostra
cercherà di rimanere a galla nel periglioso mare magnum del metallo degli anni
novanta e duemila aggrappandosi alle tavole ancora galleggianti della sua buona
reputazione. Non che siano album brutti, quelli rilasciati dai Doro, ma ad
ascoltarli si ha sempre l'impressione che essi vivano di rendita, un po'
giovandosi dell'effetto "icona" che la cantante ha saputo conservare
negli anni, un po' poggiando su un credito che la stessa aveva accumulato nel
corso degli anni ottanta. Turnisti di lusso, collaborazioni eccellenti, album
con orchestra, un best of ogni due release discografiche, produzioni
moderne per svecchiare un impianto nella sostanza tradizionalista. E poi la
ricerca esasperata dell'anthem, del ritornello epocale che
deve essere obbligatoriamente cantato in coro da tutti.
Il motivo principale,
tuttavia, per cui Doro non ha saputo assumere un ruolo guida per le donne del
metal è perché è stata fondamentalmente un maschiaccio: tozza, bassina,
borchiata, trucco pesante e fare
aggressivo, essa ha barattato la sensibilità femminile per farsi uomo in un
mondo di uomini, alla stregua di quelle donne ambiziose che in passato si sono
travestite da uomini per poter introdursi in ambiti di esclusivo appannaggio
maschile. Non ha dunque saputo incarnare un modello praticabile per le
aspiranti a ruoli di rilievo nel maschilista mondo del metal, complice anche il
fatto che i tempi non erano ancora maturi affinché una donna fosse vista con
serenità alla conduzione di una band heavy metal. Ci sarebbe voluto infatti
qualche altre anno ancora, ma soprattutto lo sforzo congiunto di una serie di nuove
eroine: Anneke Van Giersbergen, con
il suo carisma, la sua dolcezza, la sua delicatezza; Cristina Scabbia, con la sua sensualità ammiccante e il calore
mediterraneo; la statuaria Tarja Turunen,
con le sue qualità operistiche mischiate alla sua imponenza scenica, giusto per
fare tre nomi.
Ma di questi aspetti
"storici" noi di Metal Mirror ce ne curiamo in modo relativo: quello
che noi critichiamo alla coerente ed onesta Doro è di aver continuato a portare
avanti negli anni, non tanto una visione del metal obsoleta (del resto, povera crista, il suo massimo splendore
lo ha vissuto nel corso degli anni ottanta, cosa
pretendiamo?), quanto superficiale: una visione che si è limitata alla
creazione, per ogni santo album, per ogni santo brano, di un anthem, di un ritornello degno di essere
cantato in coro con i fan negli
appuntamenti dal vivo, trascurando tutto il resto.
Mano a mano infatti che nel
corso degli anni l'ispirazione è scemata, lo sforzo per continuare ad essere
potente, forte ed ispirata come lo era ai tempi dei Warlock è giocoforza
raddoppiato. Cosa comprensibile in quanto fisiologica. Il problema è stato
continuare a pretendere di fare le stesse cose, invece di trovare una
dimensione più consona ai tempi o semplicemente alla propria età: un
"luogo" dove reinventarsi attingendo dalle energie migliori, come è
successo a molti protagonisti del passato costretti a fare i conti con l'età
che avanza (mi vengono in mente il Bruce
Dickinson della sua brillante carriera solista o gli stessi Iron, che hanno scelto di perseguire in
vecchiaia la via di rallentare il passo e sviluppare trame prog). Per questo
motivo, per la povera Doro, i "movimenti" si sono fatti sempre più
legnosi, i ritornelli enfatizzati per supplire a qualcosa che, ritornello dopo
ritornello, andava perduto (l’ispirazione?
La fantasia? La capacità di inanellare, uno dopo l’altro, ritornelli sempre
indovinati?).
Un po’ come quei pagliacci
tristi con un vistoso sorriso dipinto sulla faccia. E così l'immaginazione, la
vitalità, l'energia indispensabili per fare quel tipo di metal hanno lasciato
spazio alla stanca ripetizione di cliché,
al groove, alla tecnologia che
potenziasse la forza d'urto, come se il metal fosse una questione di soli riff, cori e suoni potenti.
Se così deve essere, allora piuttosto
andiamo ad ascoltarci i vecchi classici dei Warlock…
All we are
All we are, we are
We are all, all we need
All we are
All we are, we are
We are all, all we need