“Per ascoltare "The Assassination of Julius Caesar" ho fatto una cosa che non facevo da molto tempo: ho scelto un momento propizio in cui sapevo che nessuno mi avrebbe rotto i coglioni, mi sono sdraiato sul letto, ho spento il cellulare, ho inforcato le cuffie ed aperto il booklet con i testi. Un lusso di questi tempi, ma questo lo dovevo agli Ulver, che seguo dagli inizi: se questa vita frenetica ci sequestra il tempo, cerchiamo allora di lavorare sulla qualità di quel poco che ci rimane. Gli Ulver se lo meritano.”
Questo scrivevo nel 2017, e rileggendo oggi queste mie parole, mi stupisco di quanto ancora fossi romantico, appena tre anni fa. Molta acqua evidentemente è passata sotto i ponti: i tempi cambiano, la vita cambia, il mondo cambia, tanto che questo “Flowers of Evil” l’ho ascoltato distrattamente su YouTube un sabato mattina mentre facevo colazione. Poi l'ho riascoltato, e ho pure comprato il cd, perchè gli Ulver sono gli Ulver, ma le impressioni, devo dire, sono rimaste più o meno quelle del primo ascolto...
Poche sorprese a questo giro, il canovaccio è lo stesso di “The Assassination of Julius Caesar” (e dell’EP-appendice “Sic Transit Gloria Mundi”), ma non è nemmeno questo il problema, perché quella svolta “pop” degli Ulver ci era piaciuta, avendo essa rappresentato una strada percorsa con grande convinzione da parte della band, e con esiti più a fuoco rispetto ad altre sperimentazioni compiute in passato. Perché dunque non battere il ferro finché è caldo?
Ma chiaramente il ferro nel frattempo si è un po' raffreddato: a scapito dell’altisonante titolo, che scomoda inutilmente Charles Baudelaire, e della copertina, baciata persino dal cinema di Carl Theodor Dreyer (citato con un fotogramma de “La passione di Giovanna d’Arco”), il qui presente “Flowers of Evil” è, a conti fatti, un album modesto.
Modesto a partire dalla sua durata, nemmeno trentotto giri di orologio. Modesto per come si presenta, con brani semplici e di facile presa. Modesto nelle intenzioni, perché è come se i Nostri si fossero accontentati di confezionare il nuovo dischetto senza grandi sbattimenti. Cosa insolita in casa Ulver, considerato che ogni volta che i Lupi si sono cimentati in un genere musicale, lo hanno fatto nutrendo grandi e nobili ambizioni, e musicali e concettuali, cercando di realizzare, pur con i loro limiti, un qualcosa di “definitivo” (tendenza a cui non si sottrae nemmeno la cosiddetta “discografia minore” della band, come gli EP “Silence Teaches You How to Sing” e “Silencing the Singing” o il più recente, frutto di una improvvisazione dal vivo, “Drone Activity”).
“Flowers of Evil” poco o nulla aggiunge al catalogo degli Ulver, limitandosi a consolidare quanto detto di recente, con l’aggravante di uscire in occasione dell'importante traguardo dei venticinque anni di carriera.
Questo nuovo capitolo discografico della saga ulveriana potrebbe essere visto come il "Let's Dance" dei norvegesi: un album leggero che interrompe un percorso di ricerca e che si fregia di una riduzione di complessità che probabilmente era voluta da Kristoffer Rygg e soci. E' infatti lecito pensare che i Nostri si siano accontentati di puntare sulla dimensione concertistica, creando i presupposti per sentirsi a proprio agio nell'esecuzione di brani snelli e diretti che sembrano appositamente scritti per essere riprodotti su un palco.
L’accresciuta visibilità raggiunta con “The Assassination of Julius Caesar”, il tour che ne conseguì avevano forse convinto i Lupi, mutevoli per missione, a sostare un poco più a lungo su queste sonorità che avevano portato certi benefici alla loro carriera. Non mi riferisco al successo commerciale, che ovviamente non è arrivato, ma che non era nemmeno ricercato. Penso semmai ad una formula che finalmente era riuscita ad incastrare le propensioni artistiche della band alle esigenze di un pezzetto di mercato che presenta orecchie sofisticate ed al tempo stesso vogliose di leggerezza (con i trascorsi black metal - non dimentichiamolo mai - a conferire ancora una volta fascino all'operato della band, perché un passato maledetto tranquillizza sempre chi teme di avvicinarsi a musica troppo orecchiabile).
Ma poi c’è stato il corona virus, l’annullamento del tour promozionale, la posticipazione dell’album stesso, uscito poi negli ultimi scampoli dell'estate, quando in Europa le discoteche venivano nuovamente chiuse e il fantasma di un nuovo lockdown si profilava all’orizzonte.
E così ci ritroviamo oggi con otto brani dance che non possiamo ballare.
Profetico il titolo dell’opener “One Last Dance”, che per certe sue movenze aveva fatto ben sperare. C’è qualcosa che non torna, uno scarto fra la secchezza delle ritmiche e le metriche di quella voce che non sa cosa sia il solfeggio; ma sono pur sempre gli Ulver, nel bene o nel male, e dopo qualche momento incespicante arrivano puntuali le emozioni con la struggente coda strumentale (un paradosso, però, che i soundscape del guest di lusso Christian Fennesz emergano come il tratto più ulveriano dell’album).
La già nota “Russian Doll” setta invece quelli che sono gli standard degli Ulver targati 2020: un gradevole techno-pop dal flavour ottantiano, animato più dal groove che dalle intuizioni melodiche o dagli arrangiamenti. A proposito di arrangiamenti: confermato in sala di regia il bravo Martin “Youth” Glover, il quale opta questa volta per suoni rividi e meccanici, scongiurando lo spiacevole effetto dolciastro che certo pop da classifica può a volte lasciare.
Da sottolineare il fatto che, nonostante quella degli Ulver sia ancora ascrivibile all'alveo della musica elettronica, a dettare i tempi c'è un batterista in carne ed ossa, e qua e là trovano spazio le sei corde dell'oramai fido Stian Westerhus, pronto a fare fiamme sulle assi di un palcoscenico. Fra gli episodi degni di nota segnaliamo non a caso “Machine Guns and Peacock Feathers”, base bombastica in stile Duft Punk, controcanti femminili ed una chitarra che introduce inediti scenari rock che potrebbero rappresentare un terreno degno di essere esplorato ulteriormente dalla band. Cala invece la tensione con "Hour of the Wolf", episodio anonimo e sottotono caratterizzato dal rallentamento dei tempi e da linee vocali inconsistenti.
A dimostrazione che quando l'ispirazione latita è il groove a venire in soccorso, ecco che la tripletta di brani successivi rialza le quotazioni dell'album. Prima l'incalzante "Apocalypse 1993" e poi i singoli “Little Boy" e “Nostalgia”, i quali rappresentano i due poli fra cui l’album intende oscillare: la prima è un bel brano martellante che chiama in causa il Bowie berlinese (con tanta ruggine a restituire fascino underground al monicker della band); la seconda, di contro, un funk-soul dalle movenze à-la Stevie Wonder e che non avrebbe sfigurato in un album di George Michael (efficace la prestazione vocale di Rygg mentre si pavoneggia come un carciofo fra ritmi sincopati e gorgheggi di gentil donzelle).
Rintocchi di pianoforte e scricchiolii di elettronica in sottofondo evocano i “vecchi Ulver” di “Perdition City” e “Shadows of the Sun”, ma quello della pseudo-ballad “A Thousand Cuts” è un incipit fuorviante, dato che i beat elettronici tornano presto a disegnare le consuete geometrie, decelerando verso un mid-tempo che in un certo senso chiude il cerchio ricollegandosi agli umori romantici dell’iniziale “One Last Dance”.
Gli Ulver dell’era del corona virus (complice il bizzarro zampino del Destino) appaiono più che mai fuori luogo, paradossalmente più votati alla pista da ballo che all’introspezione, laddove sul mondo soffia semmai un'aria da requiem. Come la Giovanna d’Arco ritratta in copertina, a cui viene rasato il cranio in segno d’infamia dopo che ha firmato l’abiura, gli Ulver si autoproclamano eretici, perché peccaminoso agli occhi dei loro fan (non solo metallari) non può che risultare questo persistere ostinato nella galassia della "musica leggera".
A venticinque anni dal meraviglioso esordio “Bergtatt” e dopo millemila esaltanti peripezie, gli Ulver potrebbero anche serenamente tornare a suonare metal. Forse quella è l'unica carta che rimane loro per stupire ancora...
Voto: 6,5 / 10
Canzone top: "Machine Guns and Peacock Feathers"
Momento top: la coda strumentale di "One Last Dance"
Canzone flop: "Hour of the Wolf"
Dati: anno 2020, 8 canzoni, 38 minuti
Etichetta: House of Mythology