"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

12 giu 2021

ALBUM METAL PINKFLOYDIANI: "UNIVERSAL MIGRATOR PART 1: THE DREAM SEQUENCER", AYREON (2000)


Faremmo prima a dire cosa non è pinkfloydiano in questo album. Giunto alla vigilia del quarto appuntamento discografico, e dopo l’esaltante “Into the Electric Castle”, il buon Arjen Anthony Lucassen tenta un nuovo approccio, ossia scindere le due componenti della sua proposta, quella prog-rock e quella metal, in due album distinti, ma comunque legati dallo stesso concept

La nuova space-opera del progetto Ayreon si sarebbe chiamata “Universal Migrator”, della quale oggi andremo a trattare solo il primo tomo, “Part 1: The Dream Sequencer”, durante il cui ascolto il nome dei Pink Floyd verrà in mente in più di una circostanza.. 

1999: a casa a non fare una sega… 

Se mi si chiede chi è una persona fortunata, mi viene in mente Arjen Anthony Lucassen. Fortunata nel senso che conduce una bella vita, esattamente come la desidera. Mi immagino l’olandese nella sua confortevole dimora, infradito e vestaglia di raso, immerso in uno stile di vita qualitativo, contornato dall’affetto della famiglia e da strumenti musicali, chitarre a non finire, sintetizzatori e diavolerie assortite, intento a scrivere musica e concepire storie fantastiche, fra selezioni di formaggi pregiati e vino rosso importato. 

Niente vita da tour, nessuna pressione da parte del mercato discografico: lavorare quando e come si vuole, assecondando la passione per la musica ed alimentando una virtuosa tendenza a perfezionarsi come musicista, compositore e produttore. Il massimo dello stress: orchestrare tutti quei musicisti e cantanti chiamati a collaborare alle sue opere che, in verità, sono amici o stimati colleghi. 

Ma chi ti ammazza Arjen? 

E cosi, non pago di essersi dilettato nell’esplorare l’intero spettro sonoro del suo genere prediletto, il progressive, il Nostro decide ad un certo punto di concedersi lo sfizio di realizzare un album à la Pink Floyd, permettendosi inoltre di lasciare il suo strumento, la chitarra, in secondo piano, e focalizzarsi su tastiere e sintetizzatori, senza ovviamente cedere un grammo della propria personalità artistica... 

2000: “Universal Migrator Part 1: The Dream Sequencer” 

Cosa non è pinkfloydiano in questo album, ci si chiedeva. 

Anzitutto il concept futuristico, di impronta fantasy, che ha decisamente poco a che fare con l’universo lirico dei Pink Floyd. Siamo nel 2084, la razza umana sulla terra si è estinta a seguito di una grande guerra e l’ultimo superstite fra i coloni di Marte, rimasto a corto di provviste, si diletta con il Dream Sequencer,  un marchingegno progettato per ammazzare il tempo nella vita pallosa del pianeta rosso. Egli dunque trascorrerà le sue ultime ore viaggiando con la mente attraverso epoche passate, rivivendo le gesta e le sensazioni delle sue incarnazioni precedenti. Non altro che una impalcatura narrativa, questa, che permette a Lucassen di disporre, lungo una ideale sequenza di fatti e personaggi, lo stuolo di musicisti e cantanti a sua disposizione. Un concept, dunque, che si asservisce alle esigenze di un’opera corale dove al suo mastermind preme in primo luogo di realizzare le sue visioni musicali. 

Cosa non è pinkfloydiano in questo album. Di sicuro un’attitudine barocca che affiorerà qua e là, derivante dalla sensibilità progressiva del Nostro. Lucassen ha provato ad incanalare le proprie energie creative in un sound fluido e meditativo, tributario di album come “The Dark Side of the Moon” e “Wish You Were Here”, ma suo malgrado ogni tanto la zampata progressiva gli scappa di mano, come è giusto che sia. Sprazzi di Genesis, di Emerson, Lake & Palmer, di King Crimson, di Jethro-Tull affiorano inevitabili, come il braccio destro, che schizza repentino in un saluto nazista, del Dottor Stranamore nella celebre pellicola di Stanley Kubrick

La visione artistica di Lucassen, del resto, non conosce limiti, e con il tempo si è consolidata come un coerente melting pot che sa bilanciare almeno quattro decadi di musica rock e metal, da certi rigurgiti sixties alle preminenti reminiscenze settantiane, dall’hard-rock e l’heavy metal classico fino al metal estremo (solcato con l’utilizzo del growl in certi frangenti), il tutto contornato da frequenti spunti folk e, sovente, da venature di musica elettronica. Per quanto opulento, il suono pinkfloydiano non copre tale range di sonorità, e per quanto “The Dream Sequencer” sia improntato principalmente su tastiere e sintetizzatori (rigorosamente analogici), non è infrequente l’innesto di elementi tipicamente ayreoniani, come i sapori folkish di certi passaggi e un flavour epico certamente mutuato dall’universo del metallo. 

L’utilizzo di diversi cantanti, come da tradizione ayreoniana, innerva ulteriore varietà al tutto, considerato che, giustamente, ogni contributore ha da portare la sua cifra stilistica. Capita pertanto di imbattersi in episodi davvero poco pinkfloydiani, come per esempio la “poppeggiante” “Temple of the Cat”, con al microfono una dolcissima Jacqueline Govaert (cantante olandese invero non molto conosciuta al di fuori dei confini nazionali) e la beatlasiana/lennonianaThe First Man on Earth”, cantata da un divertito Neal Morse (che certo non ha bisogno di presentazioni). 

Cosa invece è pinfloydiano in questo album: tutto il resto. Essendo Lucassen anzitutto un appassionato di prog, ad esprimersi è principalmente quella fascinazione per il “suono totale” che corre principalmente sull’asse David Gilmour-Richard Wright. Di waterismi, per capirci, non ne troveremo molti, essendo Lucassen poco interessato all’aspetto più concettuale della musica dei Pink Floyd, per lo più farina del sacco di Roger Waters. Lucassen piuttosto guarda al grandeur delle suite infinite, non disdegnando certe laccature dell'ultima fase artistica, quella di "A Momentary Lapse of Reason" e "Division Bell", che non sempre sono andate giù ai fan della band inglese. I frequenti cori femminili, in particolare, richiamano quei momenti, non sempre apprezzabili, in cui le coriste erano chiamate a rinforzare certi passaggi più rock della musica dei Pink Floyd. 

La title-track, posta ad inizio scaletta, è il manifesto dell'album: al netto della voce narrante di Lana Lane (chiamata ad impersonare il Dream Sequencer stesso) e di un incipit effettistico atto ad introdurre le ambientazioni sci-fi, ci si ritrova catapultati senza troppi giri di parole nella solennità di “Shine on You Crazy Diamond”, nella tensione di “Welcome to the Machine”, fra tastiere meditative, escursioni di synth analogici e, dulcis in fundo, un bell’assolo di marca gilmouriana: elementi che, invero, ricorreranno per tutti i settanta minuti del platter, il quale si concluderà con l’immancabile reprise della stessa title-track,  una chiusura del cerchio che puzza “Shine on You Crazy Diamond” lontano un miglio (luce). 

Procedere brano per brano diviene ozioso, nel momento in cui i vari episodi hanno più o meno le stesse caratteristiche: all’80% continuiamo a navigare negli umori della ballata spaziale dai toni pacati e sognanti, con raffinati solismi, e di chitarra e di sintetizzatori, a fare da contorno (da segnalare il contributo dell'immenso Clive Nolan in "2084"). Nel 20% “non conforme”, troviamo invece pattern elettronici (di una elettronica analogica, sia chiaro) che fanno da contrappunto all’ossatura del brani, conferendo gradite sfumature kraut e kosmische musik. 

In questo 20% stanno anche piccole dosi di metal, epici accordi di chitarra elettrica che invigoriscono determinati passaggi dei brani. Ciò accade nella cinematografica "My House of Mars" (cantata da un ottimo Johan Edlund - che già con i suoi Tiamat aveva dimostrato di essere un grande ammiratore dei Pink floyd), dove le chitarre subentrano dopo il secondo ritornello ed alla fine del brano a supportare trionfali fiati: un'epicità che richiama episodi passati del repertorio di Lucassen. Altro gradita iniezione di elettricità si ha negli avvincenti passaggi centrali di “The Shooting Company of Captain Frans B. Cocq” che rievocano niente meno che titoli come “Atom Heart Mother” ed “Echoes”, il non plus ultra del prog visionario made in Pink Floyd. Ancora chitarre nella seconda parte di "And the Druids Turn to Stone" a sospingere la sentita performance dietro al microfono di Damian Wilson, i cui toni enfatici poco si addicono agli umori pinkfloydiani. Sprazzi, guizzi di ayreonismo in un album che cerca di tenere a freno l'eclettismo, ma che, per le caratteristiche intrinseche del suo artefice, finisce per suonare comunque eterogeneo. 

Cosa non è pinkfloydiano, infine, in questo album. La poliedricità intrinseca di Ajen Lucassen, che si muove con l’autorevolezza dell’intenditore di musica, promotore di una formula prima ancora che con la definizione di uno stile specifico. Le pulsioni più hard/metal verranno rilasciate in libertà nell'ottimo (forse superiore) "Part 2: Flight of the Migrator", dove parteciperanno ugole del calibro di Russel Allen, Ralf Scheepers, Andi Deris, Bruce Dickinson, Fabio Lione, Timo Kotipelto e Ian Parry. Con queste celebri voci l'avventura del protagonista di "The Dream Sequencer" proseguirà in modo del tutto imprevisto, ma lascio a voi il gusto di scoprire da soli il finale...

(Vai a vedere le altre puntate della rassegna)