"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

24 giu 2021

ALBUM METAL PINKFLOYDIANI: "LATERALUS", TOOL (2001)

 


Entriamo in una fase diversa della nostra rassegna sul metal pinkfloydiano. Fino a questo momento abbiamo visto come certi tratti tipici della musica dei Pink Floyd abbiano saputo penetrare entro i comparti del metal, sia con scelte volte a valorizzare il lato concettuale della musica suonata sia con riferimenti diretti (a volte persino tributi e citazioni) all’armamentario espressivo adottato dalla band inglese nel corso del suo mezzo secolo di storia. 

Non dobbiamo tuttavia dimenticare che i Pink Floyd non sono stati solo musica (e che musica!), ma anche immagine, essendo stati dei veri maestri nel saper gestire altri medium espressivi per valorizzare e rendere più intrigante la propria proposta. Le iconiche copertine di Storm Thorgerson, gli spettacolari show dal vivo: anche questi sono must della visione artistica pinkfloydiana che hanno saputo far presa sul mondo del metal. 

Se storicamente il metal è un genere pragmatico sul palco, con pareti di amplificatori e riflettori puntati sui musicisti, i Pink Floyd, assai dimessi sulle assi, hanno professato proprio l’opposto, ossia lasciare che lo spettacolo passasse sopra le loro teste o alle loro spalle… 

1971: Pompei/Paris

Fra il 4 e il 7 ottobre del 1971 si tennero le riprese di “Live at Pompeii”, la documentazione di un "concerto senza pubblico" che i Pink Floyd tennero fra le suggestive rovine del noto sito archeologico campano (a causa della brevità del materiale inciso si sarebbero poi aggiunte delle sessioni di registrazione a Parigi nel dicembre del medesimo anno). L’operazione era coerente con l'universo artistico della band inglese, già da tempo interessata a coniugare musica e suggestioni visive, a partire dagli effetti psichedelici durante i concerti fino ad esperienze di questo tipo. E il meglio sarebbe dovuto ancora venire, con show sempre più spettacolari, palchi giganteschi, proiezioni, giochi di luci, maiali che volano, muri che crollano e chi più ne ha più ne metta. Senza menzionare il fatto che di "The Wall" sarebbe stato realizzato persino un film.

Ma torniamo a noi. Se dello stupendo “Live at Pompeii” consigliamo senz'altro la visione completa,  oggi ci soffermeremo su un accoppiata di brani soltanto. Partiamo con l’energica riproposizione di “One of These Days”. Al netto del montaggio e della suddivisione in sotto-riquadri che fa molto seventies, il video si incentra principalmente sul drumming tarantolato di un allucinato Nick Mason, abile nel trainare gli sviluppi del brano: un'epica cavalcata di basso con tastiere saettanti e sibili di chitarra in crescendo, fino alla travolgente esplosione nella seconda metà del brano. La band suona immersa nell’oscurità, perché a Pompei è già notte, con un solo faretto alle spalle. Poiché parte delle bobine andarono perdute, nel montaggio si privilegiò la figura del batterista, ecco il motivo di questa stranezza. Ironia della sorte: Roger Waters, il cui basso è l’ossatura del brano, non viene mai inquadrato, se non da lontano come un’ombra vicino ai suoi colleghi. 

Segue la suggestiva “Set the Controls of the Heart of the Sun” (registrata a Parigi), qui espansa fino a quasi dieci minuti di durata. Il basso di Waters è ancora protagonista, con un arpeggio ipnotico che ben si intarsia fra gli esotismi delle tastiere di Richard Wright e la chitarra melliflua di David Gilmour. La rappresentazione si apre con un Waters intento a far vibrare un enorme gong, espediente che suscita sensazioni fra il mistico e il cosmico. Anche qui Mason fa un gran lavoro, intento a tessere tribalismi che accompagnano il passo strisciante del pezzo, animato dal canto salmodiante, quasi un sussurro, del bassista. Le foto di affreschi del sito archeologico e delle sagome incenerite di coloro che furono gli abitanti di Pompei si alternano alle riprese che hanno come oggetto i musicisti, poco più che sagome scure che si muovono, lentamente, squarciando le proiezioni alle loro spalle. 

Per chi volesse capire cosa è il rock psichedelico, è pregato di passare da queste parti. 

2001: “Lateralus”

I Tool non suonano psichedelia, o per lo meno non in senso stretto e in modo dichiarato. I Tool suonano un genere indefinibile che per comodità, con il tempo, abbiamo definito progressive. Questa definizione divenne particolarmente calzante in occasione del loro terzo lascito discografico, “Lateralus”, dove certi umori post-grunge e la componente più marcatamente industrial venivano (quasi) definitivamente accantonati. 

I Tool, soprattutto, sono artefici di un sound unico, essendosi cibati di loro stessi e rigenerati attraverso loro medesimi. Un sound che non può essere ricondotto ad altri, ma se proprio bisogna fare dei nomi, vengono in mente i King Crimson, più volte citati dalla band stessa come fonte di ispirazione. E in effetti l'ossessività del riffing di chitarra intrecciato a complesse trame ritmiche (su cui il modus operandi della band sembra basarsi) guarda indubbiamente ad album come “Red” e “Discipline”. Ma è solo un punto di partenza, poi ci sono di mezzo tutti gli anni novanta, il metal e quelle sonorità alternative da cui i Nostri emersero. 

Una tecnica esecutiva mostruosa e l’ambizione di una vision/mission che semplicemente non può essere concepita/realizzata da altri, li rese capaci di dare alla luce quello che probabilmente rimarrà l’apice della loro carriera (e del metal del terzo millennio, aggiungerei io). 

In “Lateralus” tutto diviene “Tool al cubo”, a partire dalle prestazioni dei musicisti, coinvolti in una ricerca sonora che ha del maniacale: le sei corde di Adam Jones sono un fiume in piena, le quattro di Justin Chancellor pulsano incessantemente, finendo per costituire l’ossatura dei brani. E poi vi è il sovrumano lavoro dietro alle pelli di Danny Carey, che semplicemente non può essere descritto a parole.“Lateralus”, dunque, espande la “materia tooliana”: i brani raggiungono minutaggi imponenti, salvo i brevi intermezzi che fungono da ponte fra un episodio e l’altro; la struttura degli stessi si fa mantrica, divenendo, l’album, un flusso di note che attraversa diverse fasi. 

A marcare il passo avanti rispetto al passato, non è solo il valore dei singoli brani, ma il modo in cui si va a strutturare l’intero album. L’energica openerThe Grudge”, la più meditativa “The Patient”, le groovy (non a caso scelte come singoli) “Schism” e “Parabol”/“Parabola” impostano il discorso all’insegna di precisione, dinamismo, potenza, creatività, senza mai uscire dal perimetro di quello che è lo stile della band. E quindi anche all'insegna della coerenza. 

Ma è con la tribalità tracotante di “Ticks & Leeches” che si ha il punto di svolta nell’album, il momento in cui si capisce che la band sta andando oltre se stessa, trainata dal drumming tentacolare di Danny Carey, la vera direttrice dell’evoluzione tooliana: una catarsi ritmica (pervasa da esotismi) che conduce una ricerca che da “matematica” sarebbe divenuta “spirituale”, come quelle derive filosofiche che hanno investito il pensiero di certi grandi matematici del passato. La cervellotica title-track fa il paio con il pezzo precedente, riversando rovente elettricità nelle nostre orecchie, prima che l'opera si addentri in una fase meditativa con la parentesi di quiete rappresentata da “Disposition” (fra percussioni etniche e chitarre arpeggiate) e dall’ipnotica “Reflection”, dal passo lento, con il corno africano e il canto effettato di Maynard James Keenan vicino al salmodiare di un muezzin. La strumentale “Triad” è un rigurgito industriale che ci riporta al frastuono della chitarra elettrica, perfetta quanto dolorosa chiusura del cerchio. 

Di pinkfloydiano, in apparenza, poco: non un assolo in senso canonico, melodia pochissima, tastiere manco l’ombra, il martello ritmico che si ferma solo in occasione di brevi parentesi ambient. Eppure la magniloquenza di queste lunghe composizioni richiama indubbiamente il nome dei Pink Floyd, la monumentalità della loro musica. 

Con in mente le scene estratte da concerto a Pompei è più facile trovare delle analogie fra Tool e la band inglese: l’ossessività del riffing di Jones ed ovviamente il basso incalzante che anima i brani dei Tool possono ricordare le quattro corde di Waters nei brani sopra descritti. Il parallelismo potrebbe continuare con un drumming atto ad animare schemi melodici ricorsivi, sebbene Mason non sia certo il più potente dei batteristi (cosa che invece potremmo dire dello strabiliante Carey). Anche la voce di Keenan, quando si fa sommessa, ricorda il sussurro di Waters, poeta visionario cantore di scenari apocalittici. Con qualche forzatura, dunque, potremmo affermare che le composizioni dei Tool hanno un qualcosa in comune con il potere catartico di certi brani dei Pink Floyd psichedelici post-Barrett.

Con i Pink Floyd, soprattutto, i Tool condividono l'interesse per la multimedialità, come si diceva in principio. A colpire, soprattutto, è il senso "paesaggistico" o astratto o surreale delle suggestioni visive che da sempre fanno da contorno alla musica dei Pink Floyd, ove i musicisti passano decisamente in secondo piano, spesso assenti nelle copertine e nei videoclip, cosa insolita nel mondo del rock. Lo stesso approccio si ha con i Tool: ricordiamoci infatti che i Nostri si imposero con gli inquietanti cortometraggi realizzati con la tecnica di animazione dello stop-motion da parte dello stesso Jones, visual artist e direttore artistico della band. 

E non scordiamoci dei cofanetti a supporto di dischi e cd, sempre fantasiosi e fuori dal canonico, e soprattutto delle spettacolari esibizioni dal vivo: grandiosi giochi di luci e proiezione di immagini psichedeliche che in modo perfetto accompagnano le impeccabili gesta dei quattro musicisti sul palco, calati nell’oscurità, ognuno alle prese con il proprio strumento. Lunghissimi fasci di luce e laser si muovevano sulle teste dei Nostri, con sullo sfondo schermi su cui viene proiettato del materiale visivo, sempre ad opera del buon Jones. Keenan, nello specifico, seminudo e quasi sempre posto di fianco rispetto alla platea, sembra trovare conforto nelle zone d’ombra fra un cono di luce e l’altro. 

Quella dei Tool, per concludere, potrebbe essere definita come una psichedelia aggiornata all'alienazione del terzo millennio, cosa che diviene più che evidente in sede live. E l'approccio alla loro arte in generale è indubbiamente pinkfloydiano...