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17 lug 2024

I MIGLIORI ALBUM DI ATMOSPHERIC BLACK METAL - EMPYRIUM: "SONGS OF MOORS AND MISTY FIELDS" (1997)


C’è stata una manciata di anni in cui il black metal, così come si era configurato all’inizio della decade novantiana nelle lande scandinave, sembrava essere entrato in una fase di crisi: esaurita la spinta creativa di molti protagonisti della stagione d’oro appena trascorsa, per qualche anno non si è saputo che pesci prendere, fra tentazioni regressive che guardavano al proto-black metal degli anni ottanta ed esperimenti di contaminazione che finivano per snaturare il genere stesso. 

Mi riferisco allo scorcio finale degli anni novanta, pochi anni a dire il vero, perché presto, già a partire dagli albori del nuovo millennio, ed in particolare sul fronte americano, il black metal si sarebbe rigenerato per arrivare ai nostri giorni più in forma che mai (cascadian black metal, blackgaze, depressive, ovviamente atmospheric black metal e molto altro). Un periodo di disorientamento così breve che in pochi, oggi, con sguardo retrospettivo, sarebbero in grado di riconoscere, ma che si è palesato chiaramente agli occhi di chi quel periodo l’ha vissuto in prima persona. Internet, poi, ci avrebbe aiutato a conoscere realtà che, in quel periodo, avevano lavorato con serietà e dedizione senza farsi troppo notare, rimanendo appannaggio degli appassionati più attenti, ma successivamente destinati a divenire nomi di culto, venerati e celebrati dalle nuove di leve, e di ascoltatori e di musicisti. 

Uno di questi nomi è senz’altro quello dei tedeschi Empyrium, a cui oggi si riconosce, fra le altre cose, un ruolo significativo nella genesi dell’atmospheric black metal. Abbiamo già dedicato una retrospettiva al gruppo tedesco; oggi invece il Nostro sguardo si riverserà sul primo periodo della band bavarese, quello che va dal 1994, anno della fondazione, al 1997, anno di pubblicazione del capolavoro di questa prima fase “Songs of Moors & Misty Fields”, prima che la band abbracciasse in toto il paradigma folk con opere (splendide) come “Where at Night the Wood Grouse Plays” e “Weiland”, rispettivamente del 1999 e del 2002. 

In tutto questo primo periodo la formazione ha visto come asse fondante il binomio composto dal fondatore e polistrumentista Markus Stock (in arte Schwadorf) e dal tastierista Andreas Bach. Se il grosso dell’economia del suono rimaneva sulle forti spalle di Stock (occupandosi egli di chitarra, basso, batteria e voce), non era secondario l’apporto delle tastiere, il cui ruolo era pronunciato fin dalla demo...der wie ein Blitz vom Himmel fiel...”, anno 1995. 

I Nostri avrebbero esordito discograficamente l’anno successivo (il 1996) con “A Wintersunset...”, che volendo potremmo oggi descrivere come un mezzo capolavoro. Magari all’epoca sarà stato percepito come un prodotto acerbo e nemmeno troppo personale, e possiamo capire il perché di questa impressione: erano anni in cui dal black metal ci si aspettava di più, mentre i tedeschi si presentavano con un prodotto un po’ sgangherato e prolisso che metteva insieme istanze di black metal, folk e gothic metal con ben in mente le gesta di Ulver e Moonspell. In quel contesto, il sound non colpiva per l’originalità ed impallidiva innanzi ad un lavoro come “Aspera Hiems Symfonia” degli Arcturus che usciva nello stesso anno, un mese prima per l’esattezza, e per certi aspetti si muoveva su territori similari. 

Ma gli Empyrium avevano una cosa che non passava inosservata, nemmeno all’epoca, e questa cosa era il cuore. Forse non rivoluzionavano il mondo del metal estremo, ma il duo offriva una musica struggente, commovente, che scaturiva dalle viscere: paesaggio esteriore, natura ed interiorità si fondevano in una musica che non aveva fretta, che non sbracciava per farsi notare, ma intendeva convincere con i ripetuti ascolti, conquistare il cuore di chi era disposto ad isolarsi un poco, adagiarsi su un tappeto di foglie secche e guardare in silenzio il cielo stellato. 

Insomma, il potenziale c’era, era solo questione di tempo e il capolavoro, infatti, non avrebbe tardato a venire: quel “Songs of Moors & Misty Fields” che già dal titolo (“Canti di brughiere e campi nebbiosi”) intendeva traghettare la mente dell’ascoltatore in luoghi suggestivi ed ancestrali. Alla formazione si aggiungeva Nadine Mölter (flauto e violoncello - moglie dello stesso Stock) con un ruolo al momento di contorno ma destinato ad acquisire maggiore importanza negli sviluppi successivi della band. 

Il sound dell’album rimaneva una prosecuzione naturale del tomo precedente, ma il prodotto andava a migliore sotto ogni aspetto: dalla scrittura all’esecuzione, dagli arrangiamenti ai suoni. Insieme di cose, questo, che ci fa apprezzare l’opera in un duplice senso: ieri come un gioiello a sé stante, oggi per il suo carattere seminale che avrebbe avuto nei confronti di un black metal che si avviava verso il suo paradigma atmosferico. 

Sebbene l’opera duri 45 minuti (non una durata importante), tale è il suo potere evocativo che si ha l’impressione che duri molto di più, complice il fatto che, tolta l’introduzione iniziale di un minuto e mezzo (la pianistica e folkishWhen Shadows Grow Longer”), il resto del tempo è spartito fra soli cinque composizioni di elevata durata, di cui tre sopra i nove giri di orologio. Si parla di brani-suite che, almeno per il modo con cui si muovono, ricordavano la scrittura dispersiva dei primissimi Opeth. Si tratta di lunghe composizioni caratterizzate da tempi medi e frequenti passaggi atmosferici, per lo più interludi acustici di chitarra, con carezze di flauto e violoncello all’occorrenza. Rimane forte l’influenza di un album come “Bergtatt” degli Ulver, da noi peraltro indicato fra i lavori più significativi ai fini della nascita del black metal atmosferico, ma l’indole folcloristica qui viene riportata ai toni aspri e romantici della cultura tedesca, centrale nella visione artistica degli Empyrium. 

In particolare dal canto trapela l'ardore teutonico dell’opera, non tanto nella lingua, visto che si è scelto di cantare in inglese, quanto nei toni enfatici, che si tratti di un affilato screaming o di un passionalissimo pulito poco cambia. Frequente è l’utilizzo dei registri puliti, scelta giustificata dalle buone doti canore di Stock, voce forte ed espressiva, evocante in molti frangenti il baritono di Fernando Ribeiro. Una performance vocale che non vede la sua forza solamente nell’alternarsi continuo di registri, ma anche nella capacità di dare contorno a momenti memorabili, come per esempio accade nel ritornello (se così possiamo definirlo, perché i brani non seguono il canonico formato canzone) dell’irruente opener The Blue Mists of Night” (“When the Shadows fall.... and the sun sets in us all...”). 

Come polistrumentista, inoltre, il Nostro se la cava bene su tutti i reparti, maneggiando con cura le sei corde che adesso trottano baldanzose, adesso si sciolgono in lacrimevoli intrecci memori della Sposa Morente, in un connubio fra black metal e gothic-doom che diviene un tutto indistinguibile, animato da una sezione ritmica puntuale ma anche de’core, dinamica abbastanza per supportare adeguatamente brani che amano cambiare ambientazione più volte nel corso del loro sviluppo. 

Forse l’aggettivo “progressivo” non è del tutto calzante, in quanto non si ricorre a virtuosismi o a strutture particolarmente complesse, ma è importante sottolineare che i musicisti padroneggiano in modo efficace gli strumenti e sono in grado di costruire brani considerevolmente lunghi, fluidi nel proprio svolgimento e ricchi di accadimenti (si pensi ai nove minuti della superba “Mourners”, destinata a divenire un classico per la band e ad essere riproposta dal vivo anche nei set di impronta prevalentemente acustica). 

Bach, dal canto suo, accompagna Stock con mano ferma e decisa tramite un incessante lavoro dietro ai tasti, preziosi innesti di pianoforte o maestose orchestrazioni. Oltre al solido pragmatismo che rende funzionali ed avvincenti molti passaggi, permane una certa legnosità di fondo anch'essa tipica del metal teutonico, ma questi spigoli non smussati rendono il prodotto ancora più genuino e commovente, come se i versi gentili di un raffinato spirito poetico fossero intagliati sul duro legno dalle mani forti e callose di un abile artigiano. Come accaduto nel predecessore (e come accadrà nei lavori successivi), è la profonda ispirazione della band a descrivere i movimenti dei brani, liberi di volare al di fuori di schemi precostituiti, capaci di spaziare senza uscire mai fuori tema, come guidati da una forza invisibile che è la pura essenza creatrice della band. E forse è proprio questo aspetto ad ammantare di magia l'operato della band, che essa si cimenti col metal o meno. 

E infatti, come dei veri Re Mida delle emozioni, gli Empyrium sapranno trasformare in oro tutto quello che toccheranno, spostandosi dal metal al folk con la grazia che solo i primi Ulver ebbero e tornare poi a far metal con la stessa nonchalance. E con lo status dei veri maestri, perché anche a loro, se non principalmente a loro (visto che gli Ulver avrebbero presto virato verso altri lidi), dobbiamo l’affermarsi di una concezione atmosferica del black metal che vede forti connessioni con la componente folcloristica: elemento che troverà una forte diffusione in quanto quel tipo di approccio verrà poi applicato in modo vincente alle diverse peculiarità locali portando così a far fiorire lungo tutta la superficie del globo un black metal atmosferico che guardava con rispetto e devozione proprio a quel black metal di origini europee che avevamo visto arrancare nella fine degli anni novanta. 

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