"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

22 lug 2024

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: WEDARD

 


Ventottesima puntata: Wedard – “Einsemar Winterweg” (2006) 

Si è già detto che la Germania è una nazione prolifica per quanto riguarda il depressive black metal e lì torniamo per parlare di un’altra perla scaturita da terra teutonica: “Einsemar Winterweg” dei Wedard, duo proveniente dalla Baviera. 

Siamo sempre d’inverno (“Einsemar Winterweg” tradotto significherebbe “passeggiata d’inverno”), ma questa volta - come i più sagaci avranno intuito - la Baviera non ci restituirà gli umori festaioli e caciaroni dell’Oktober Fest: siamo esattamente agli antipodi, nella dimensione più intima che ci possa essere, da soli, nella nebbia e il gelo, lungo un oscuro sentiero che si perde fra le sagome spoglie degli alberi...

Giunti alla ventottesima puntata, già come era successo con la rassegna sul funeral doom, urge l'esigenza di adottare delle accortezze al fine di non ripetersi nella discrezione dei diversi album. Con la complicazione che il DBM offre ancora meno variazioni stilistiche rispetto al funeral doom, per questo la nostra opera recensoria deve procedere con attenzione ed attraverso una scelta oculata delle espressioni e delle immagini da utilizzare, pena il ricadere in quello che è un errore molto comune nel web: non rendersi conto che la discrezione di un album nello specifico può valere per mille altri. 

Riferendoci agli Anti, per esempio, dicemmo che “se vogliamo (e dobbiamo) dare un’idea del tratto distintivo degli Anti, possiamo limitarci a dire che essi appartengono alla branca meno sfrangiata e dispersiva del DBM”. Bene, per i qui presenti Wedard potremmo dire che vale esattamente il contrario, visto che la musica del duo appartiene al filone più “ambient” e contemplativo del DBM.

I Wedard, inoltre, portano una boccata d'aria fresca (in tutti i sensi!) in quanto non sembrano insistere più di tanto sul consueto tema del suicidio, preferendo i Nostri restaurare una visione romantica di cui certamente la Germania è stata maestra indiscussa. La loro musica, infatti, sembrerebbe voler abbracciare in un tutt’uno Io e Natura, interiorità e paesaggio naturale, in una compenetrazione di elementi che la rende emozione allo stato puro

Ebbene sì, ci troviamo innanzi ad una delle realtà più emozionanti del DBM, ma non perché la band ci faccia sussultare con improvvisi scoppi di sofferenza mal domata. Qui si parla di musica emozionante nell’accezione più nobile del termine, di musica suonata, intendo dire, non di trucchi e giochi di prestigio, bensì di riff di chitarra, di melodia, di atmosfera. Se non tendessero in modo persistente ad esplorare le angolazioni più nascoste di una invincibile e pervicace malinconia, i Nostri potrebbero essere paragonati a certe realtà dell’atmospheric black metal (Paysage d’Hiver, per gli umori respirati, Panopticon, per la vicinanza alla natura). 

“Einsemar Winterweg” offre sei tracce per quasi un’ora di durata: aspetto, questo, che già ci dà indicazioni sulla lunghezza dei brani. Sternenfrost, il mastemind del progetto, si occupa di chitarra, tastiere e parti vocali. Nel corso del tempo si è fatto accompagnare da diversi batteristi; in “Einsemar Winterweg” dietro alle pelli troviamo il buon Necro, perfetto nell'assecondare l'estro compositivo del compare. Si tratta di un drumming minimale, mai sopra le righe e nel mixaggio coperto dagli altri strumenti, ma che ha il dono dell'equilibrio, cosa non banale. I brani procedono in modo rilassato, i tempi sono lenti e lineari, ma piccole accortezze, come lievi cambi di tempo, fill e battute fuori posto, rendono fluido lo sviluppo delle composizioni. 

E poi vi sono le magie dispensate dalle sei corde, sempre ispirate e settate su un riffing dalle grandi qualità melodiche e che sa evolversi, giro dopo giro, squarciando il velo di quella ostinata circolarità burzumiana che caratterizza la maggior parte delle uscite di questo sotto-genere. Potremmo dire (facendo una gran forzatura) che l’approccio è anathemiano, incluso un certo utilizzo, misurato ma incisivo, delle tastiere, mai invadenti. Un assaggio di questo potenziale melodico si ha già dai primi minuti della title-track, chiamata ad aprire le danze: dopo un breve intro a base di arpeggi, suoni ambientali e singulti, giunge candido il riverbero delle distorsioni (i suoni sono grezzi e confusi, ma perfetti per la circostanza) confondendosi con le lacrimevoli geometrie delle tastiere, così dolci e malinconiche da ricordarmi i Procol Harum (riferimento da prendere con le pinze, ovviamente). 

In più si ha la premura di aggiungere gustose porzioni di chitarra acustica ad infarcire molti passaggi, generando impasti elettro-acustici da brividi, come accade al termine della già citata title-track. Si segnala un utilizzo quasi psichedelico dell'effettistica, aspetto questo che ammanta di connotati onirici l’intera opera, lasciando l’impressione che la narrazione si compia fra sogno e realtà. Molti gli inserti di field-recording (il cinguettio degli uccelli, lo scrosciare della pioggia, lo scorrere dell’acqua di un ruscello ecc.), i quali aiutano l’ascoltatore ad immergersi negli umori da passeggiata nel bosco di cui l'album intende ammantarsi. 

Non che succeda molto in questo disco, anzi, il suono procede monolitico ed inebriante, ma grazie ad un accurato inserimento di elementi disseminati nelle giuste posizioni, l’ascolto - nonostante le premesse - si fa scorrevole e sempre animato da soluzioni melodiche di grande pregio. Ma si pensi per esempio all’incipit dal flavour quasi settantiano del secondo brano “Winterdepression”, un incipit che a me ha ricordato il Neil Young più dolente (ma state tranquilli, sono io il pazzo!). Si parla di sfumature, perché dopo pochi istanti il brano rientra nei binari di mesti tempi medi sui quali rimarrà per i suoi otto minuti di durata, a parte il blast-beat impetuoso sul finale: sono veramente sporadiche le accelerazioni in questo album, ma anche in tali frangenti la band dimostra di essere credibile, sapendo centellinare quei momenti e relegando loro la giusta collocazione, grazie anche alla sensibilità di Necro, mai fuori posto. 

Anche le parti vocali, per quanto particolari, si amalgamano alla perfezione al suono nebbioso dell'album. La voce di Sternenfrost è forse l’elemento più depressive della ricetta dei Werdard, un canto che si esprime in modo alquanto slegato dalle dinamiche della musica: non uno screaming vero e proprio, ma una via di mezzo fra sussurro, rantolo e lamento, con ululati, sibili ed urla di sgomento che si trascinano senza possibilità di consolazione sullo sfondo di questi imponenti paesaggi dell’anima

Il fatto è che i due azzeccano tutto, dal primo all’ultimo minuto. Certo, potremmo trovare una miriade di imperfezioni in questo album: l’impostazione vocale, per esempio, a seconda dei punti di vista potrà essere giudicata inadeguata, ma “Einsemar Winterweg“ rimane un capolavoro assoluto, non solo del DBM, ma del black metal in generale, in quanto espressione sincera e viscerale di emozioni. 

Un ultimo consiglio: fra le varie versioni disponibili andatevi ad ascoltare quella che contiene “Der Letzte Tag”, spettacolare brano tratto dal primo album “Ein Leben in der Ewigkeit”, lì rimaneggiato in una versione alternativa da veri brividi. Come tutto il resto...