Quarantunesima puntata: Exiled from Light - "Descending Further into Nothingness" (2009)
Nella nostra rassegna sul funeral doom ci eravamo sorpresi di come un genere in apparenza così estremo ed omogeneo sapesse in verità offrire una infinità di sfumature e variazioni sul tema. Con il depressive black metal no: è questo genere assai più minimale, annebbiato, un mondo musicale sconfortevole che, infestato per lo più da suoni rarefatti e visioni emotivamente degradate, non è proprio da vedere come un'esplosione di idee e soluzioni innovative. La partita si gioca sul campo dell'espressività, ossia sulla capacità di esprimere emozioni, sulla genuinità, sullo sforzo di risultare credibili e non troppo artefatti (sfida assai ardua, a dirla tutta). Certo, capitano qua e là dei guizzi degni di nota, a volte si creano persino dei sotto-filoni, ma nel complesso il DBM, soprattutto nei bassifondi, non presenta grandi diversità, nemmeno alle orecchie dell'ascoltatore più scafato.
Il DBM ha tuttavia diverse anime. Fra queste c’è la famiglia rappresentata da quei progetti che si sono dedicati a confezionare prodotti rigorosi ed ordinati nello svolgimento, in vaga opposizione alle visioni più scriteriate, anarchiche ed umorali. Parlo di quei dischi di DBM sufficientemente ispirati, ben eseguiti e registrati, spesso confezionati da personaggi in solitaria. A titolo di esempio di questo filone (ma di filone non è lecito parlare, è solo un modo nostro per circoscrivere un gruppo di proposte analoghe) potremmo indicare i Krohm, fautori di un bel black metal malinconico, dominato da tempi lenti ed animato da riusciti impasti di chitarre e tastiere. Una ricetta che abbiamo anche ritrovato nei Veil, ma vi sono certamente altri milioni e milioni di esempi in quanto questo è un sentiero assai affollato, probabilmente il meno impervio; per questo si parla di prodotti solitamente soddisfacenti, ma che rischiano di non avere quel quid per distinguersi e farsi notare.
Questo quid lo hanno coloro che sono sufficientemente ispirati e che in qualche modo riescono a comunicare qualcosa di peculiare all’ascoltatore. A questo gruppo appartiene anche il progetto neozelandese Exiled From Light che, al tempo stesso, appartiene anche alla famiglia di quelle esperienze che hanno avuto vita breve e che sono riuscite a dare alla luce un unico album, come spesso accade, è accaduto e sempre accadrà nel DBM.
Gli Exiled From Light (bellissimo monicker!) sono espressione del solo Mort, uno che, a scapito del nome, è stato molto vitale avviando una miriade di progetti che tuttavia raramente sono giunti al traguardo della pubblicazione discografica vera e propria. Oltre agli Exiled from Light è opportuno citare almeno i When Mine Eyes Blacken, altro progetto dove Mort si occupa di tutto ed altro progetto che ha saputo rilasciare un solo lavoro: il buon "When Mine Eyes Blacken" del 2009. Il 2009 dev’essere stato l’anno d’oro dell’ispirazione di Mort visto che proprio in quell’anno usciva anche “Descending Further into Nothingness” (bellissimo titolo!) degli Exiled From Light, di cui oggi parleremo.
Come si diceva sopra, la parabola del progetto si è compiuta in un arco di tempo molto breve, solo tre anni (dal 2007 al 2010). Oltre al suddetto album, la discografia di questi esiliati dalla luce conta anche la bella compilation “There is no Beauty Left Here...” (altro bellissimo titolo!) edita nel 2010, con brani inediti degli Exiled From Light ed altri dei Funereal - ulteriore progetto dell'instancabile Mort.
Devo essere sincero: a me piace Mort, sia nei My Mine Eyes Blacken che negli Exiled From Light il Nostro ci consegna un DBM ispirato e fortemente suggestivo, di chiara ed ovvia derivazione burzumiana. Se con i primi ad imporsi è l’istinto, con i secondi sembra invece prevalere un approccio più raziocinante messo al servizio di un indiscutibile talento nel tirare fuori dal cilindro melodie sempre accattivanti. Tanto sono impalpabili e fumosi i My Mine Eyes Blacken, tanto sono precisi e puntuali gli Exiled From Light.
E’ questioni di gusti, e qualcuno senz’altro preferirà “My Mine Eyes Blacken”, i suoi lunghi quattro brani dall'andamento ondivago, il modo in cui si diradano, si perdono in lunghe pause, nell’eco di lontane chitarre arpeggiate, per poi “rifiorire”, crescere nuovamente, attraverso moduli in cui il black metal si mescola con sonorità più eteree. Ma se posso parlare a titolo personale, ho trovato poco convincente la prova vocale di Mort su quel disco: un sibilo ripetitivo che alla lunga stanca e un po’ svilisce le intuizioni vincenti di composizioni tutt’altro che banali.
Vince ai punti “Descending Further into Nothingness” che invece infila cinque brani (più intro) che sfidano l’ascoltatore senza maschere, giocando a carte scoperte non nascondendosi dietro alle "nebbie della suggestione". Di contro, un limite di questi brani (rispetto alle suite "imponderabili" dei My Mine Eyes Blacken) potrebbe essere proprio la loro struttura prevedibile: i brani infatti non presentano un vero e proprio climax, a dominare è semmai il passo sconsolato della drum-machine che in modo costante e spossato, quasi trascinandosi, trasporta un suono elastico che lentamente si irrigidisce e che, un momento prima di strapparsi, torna molle, tendendo a riportare costantemente l’ascoltatore al punto di partenza.
Nella scrittura, infatti, si parte di solito da un tema melodico a cui si dà risalto ripetendolo periodicamente nel corso del brano: si ha dunque una introduzione di tastiere o chitarre arpeggiate, poi il brano si sviluppa attraverso un riffing ossessivo marcato stretto dalle tastiere che danno l’impressione di arrivare sempre leggermente in ritardo rispetto alla chitarra, come lunghe ombre che le sei corde si lasciano alle spalle passo dopo passo.
Un esempio chiaro di questo schema lo troviamo subito all’inizio dell'album con la title-track che si divide nella breve “Descending...” (una introduzione atmosferica di sole tastiere dallo squisito flavour orrorifico) e il corpus vero e proprio del brano “Further into Nothingness” che riprende il tema introduttivo per riciclarlo con chitarre sfrigolanti e il lento battito della drum-machine. Ancora meglio farà la traccia successiva “Neath the Oppressing Moonlight”, a mio parere la migliore, in cui lo stesso pattern si ripete ma questa volta partendo da una suggestiva chitarra arpeggiata: come da copione il brano si elettrizzerà, procederà con calma portando in dote il gelo di una lama che si avvicina alla gola, per poi mollare la presa improvvisamente, rilasciare la tensione riproponendo il tema iniziale e ripartire da capo.
Forse non è cosa voluta dal musicista, ma io colgo un collegamento fra il senso del titolo (un procedere ulteriore verso il niente) e questo andamento ipnotico dei brani, scandito da tempi languidi e il progredire lento ma costante di chitarre e tastiere, che altrettanto lentamente ritornano al punto di partenza come in un lento gorgo di liquami e miasmi.
Nel complesso l’album gode di ottimi suoni, l’unica pecca sembra essere proprio la sezione ritmica che in certi frangenti sembra tradire la sua natura meccanica e non umana, con rullate un po’ asfittiche o doppie-casse fin troppo veloci e precise, ma alla fine si tratta di un dettaglio di poco conto. E così si arriva al termine del viaggio: i sussulti non saranno molti, ma, si è detto, la qualità di questa musica sembrerebbe essere quella di voler cullare l’ascoltatore e mantenerlo in uno perenne stato di torpore, per poi farlo risvegliare nella merda più totale.
La conclusiva “Drowning...” si fa notare per l'utilizzo in certi passaggi in palm muting, tecnica chitarristica non così frequente nel black metal, ma che in questo contesto ha un suo perché, conferendo al brano un alone più minaccioso.
Detto questo, non inventano nulla gli Exiled From Light, ma bisogna anche ricordare che un esercito si compone non solo di generali ma anche di soldati. Mort è stato indubbiamente un valido e diligente soldato nell'esercito dei DBM e sicuramente questo "Descending Further into Nothingness" rappresenta non solo un piacevole ascolto, ma anche un buon esempio di album di genere che non intende né innovare né inseguire l'originalità a tutti i costi. Solo emozionare.