Viaggio nel metal 'tolkieniano' - 1) RIVENDELL - "Elven Tears" (2003)
“I sang
of leaves, of leaves of gold, and leaves of gold there grew:
O wind I
sang, a wind there came and in the branches blew.”
(taken from
“Galadriel’s Song of Eldamar”, by J.R.R. Tolkien)
Lacrime elfiche.
Cominciamo così, in allegria,
la nostra rassegna sul ‘metal tolkieniano’. E lo facciamo con i Rivendell,
one man band austriaca proveniente da Hallwang, piccolo paese a
nord-est di Salisburgo.
La nostra scelta per "battezzare" questa Rassegna ricade su Gerold Laimer (in arte Falagar), mastermind del progetto, per diverse ragioni. In primis per il monicker adottato: Rivendell (Imladris in sindàrin, la principale lingue elfica) è, infatti, il nome originale di Gran Burrone (o Forraspaccata o Valforra, a seconda di quale traduzione italiana preferiate), cioè il più conosciuto reame elfico della Terra-di-Mezzo, governato dal saggio Elrond (il re Noldor interpretato, nella trilogia jacksoniana, dall’ottimo Hugo Weaver).
Secondariamente, per il fatto che
il buon Gerold pare conoscere in modo approfondito l’opera del Nostro, andando direttamente
ad utilizzare, per diversi suoi testi, i poemi scritti dallo stesso Tolkien (il Professore
amava alternare prosa e poesia, anche mischiando le due tecniche). La citazione
in esergo è tratta proprio da un poema tolkieniano che i Rivendell piazzano,
dopo l’opener strumentale “Vale of Illusion”, nel primo brano cantato,
l’evocativa “The Song of Eldamar”.
Ma, soprattutto, abbiamo voluto
trattare i Rivendell perchè ci piace affrontare di petto, già in questo primo
capitolo, un tema centrale della poetica tolkieniana. E cioè quella del destino
degli elfi. Un destino, data la loro immortalità ontologica, che gli Uomini,
creati mortali, gli invidiano. Ma che, in realtà, è per essi fonte di grande
struggimento, tanto che vorrebbero sottrarvisi. A molti lettori/spettatori,
essi possono apparire come creature algide e distaccate; indifferenti alle
sorti del mondo. Non si può negare che così possano apparire esteriormente. Ma, nel
profondo, le cose stanno in modo diverso.
Proviamo a spiegarne il motivo.
Gli Elfi sono i Primi Figli di Eru Ilúvatar, l’Essere Supremo di Eä (cioè l’Universo, comprensivo dello Spazio e del Tempo, concepito da Tolkien). Coloro che per primi popolarono la Terra-di-Mezzo. E che, da Eru, furono creati immortali, seppur di un’immortalità intesa come “aspettativa di vita” ma non totalmente slegata dal trascorrere del tempo o dalle vicende terrene, tanto che essi possono morire (per 'morte violenta' o per 'forte dolore morale interiore'; o addirittura per rinuncia all’immortalità, come farà Arwen per amore del suo Aragorn).
La
loro natura è formata dal hröa (il corpo fisico,
materialmente incarnato) e dal fëa (l’anima razionale)
in cui risiede la loro individualità. Nel caso degli Elfi, il fëa
è inestricabilmente legato al mondo e da esso non può star lontano; tanto
che, nel caso di morte violenta, gli Elfi ritornano in Arda (dopo un complesso procedimento
di “ricostituzione” che parte proprio dalla loro memoria).
Ora: come per gli Uomini, anche per gli Elfi il mondo è in movimento ma esso è, nella loro percezione, velocissimo e lentissimo al tempo stesso. Veloce perché, mentre il loro aspetto cambia poco, tutto il resto trascorre, invecchia e muore. E, proprio per quanto si diceva sopra, ciò è per loro motivo di dolore. Lento, invece, perché essi non hanno bisogno di contare gli anni che passano; non per se stessi, comunque. Ecco perché gli Elfi, “staccati” dal tempo, provano un grande dolore per le cose (siano essi uomini o elementi della Natura), soggette al passare del tempo, ai cambiamenti e, in ultimo, alla morte. Tanto che il loro obiettivo è proprio quello di preservare le cose del mondo, creando, ovunque risiedano, delle “piccole Valinor” (le terre imperiture da cui provengono, e di cui proprio Eldamar è il nome di un’area abitata dagli Elfi). Rivendell/Imladris, così come il reame boscoso di Lothlórien, guidato da Dama Galadriel (nel film, l’eterea Cate Blanchett), ne sono plastici esempi. I tre Anelli del Potere elfici (Narya, Nenya e Vilya), infatti, hanno proprio questo scopo: consentire agli Elfi, illusoriamente, di fermare il tempo, preservare la bellezza “valinoriana” dei loro Reami dal suo trascorrere e avere la percezione che nulla deperisca.
Tolkien stesso, proprio per le
motivazioni suddette, è severissimo nel giudizio sugli Elfi (che pure erano le
creature che lui stesso amava maggiormente) tanto da definirli, in una celebre lettera,
la n. 154 (cfr. il fondamentale epistolario tolkieniano: “Lettere_1914-1973”
edito in Italia nel 1990 da Rusconi e, con l’attuale titolo, nel 2018 da
Bompiani) degli “imbalsamatori” perché essi “provano a fermarne (intendasi: del mondo, N.d.R.) i
cambiamenti e la storia, a bloccarne la crescita, a mantenerla come un giardino
di delizie dove potessero essere artisti e furono oberati di tristezza e di
rimpianti nostalgici”. E ancora, in un’altra lettera: “la loro
tentazione è una pigra malinconia oberata di memoria che porta il tentativo
di fermare il tempo”.
I Rivendell paiono cogliere appieno tutti questi aspetti della poetica tolkieniana e li traspongono in musica attraverso un tanto semplice quanto emozionale folk/viking metal che, se da un lato guarda inevitabilmente ai connazionali Summoning, dall’altro ci ricorda in modo esplicito il sound del misterioso progetto tedesco (o islandese?!?) Falkenbach. I brani si susseguono, per una durata totale di 47’, in modo fluido, evocativo, privilegiando i tempi medi con qualche asperità blackish, soprattutto per alcune linee vocali, disseminate qua e là. Ma, come detto, a prevalere è l’atmosfera che cerca di veicolare i contenuti delle liriche che ha negli elfi tolkieniani il suo baricentro.
Non trascurando,
però, le citazioni di altri personaggi/luoghi del Legendarium: dalle
celebri Montagne Nebbiose (“Misty Mountains”) all’immancabile Gandalf
(qui chiamato, nell’omonima song, con il nome elfico di Mithrandir,
cioè Grigio Pellegrino), passando da uno dei più antichi e nobili elfi
Noldor, Finrod (“The Fall of Finrod”). Ma, per chi scrive, a dar lustro
a “Elven Tears” sono i 9 minuti di “The Fall of Kings”, splendido brano
epic il cui testo è, ancora, un poema scritto da Tolkien per omaggiare il Re
Sotto la Montagna, titolo nanico attribuito ai sovrani che regnavano su
Erebor, la celebre Montagna Solitaria, sede di uno dei più
importanti reami dei Nani e che abbiamo ben conosciuto ne “Lo Hobbit” in quanto
dimora del terribile drago Smaug.
Insomma, tanta carne al fuoco in
questo disco dei Rivendell che, come nel precedente debut del 2000 (“The
Ancient Glory”) e poi nel successivo “Farewell: The Last Dawn” (2005), continuarono a incentrare i loro testi su fatti e personaggi dell’universo
tolkieniano (dopo uno iato di 19 anni, lo scorso settembre sono tornati su
bandcamp con il full lenght “Unsung Tales”).
Gli austriaci ci paiono, perciò,
un’ottima porta d’ingresso per entrare nel mondo di un ipotetico metal
tolkieniano post-trilogia. Ricordandoci, nel caso non lo sapessimo, che
sì…anche gli Elfi immortali, qualche volta, piangono…
A cura di Morningrise