"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

1 feb 2025

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: GHOST BATH


Quarantacinquesima puntata: Ghost Bath - "Moonlover" (2015)

Parlando dei Woods of Desolation abbiamo già visto come, a partire da un certo punto in poi (direi intorno agli anni dieci), siano iniziate a proliferare proposte gravitanti in un’area grigia fra il depressive black metal e il blackgaze. Andiamo a rimpolpare la categoria con i Ghost Bath, una delle realtà più spinte in questo senso. Sono più depressive o blackgaze questi Ghost Bath? 

Di sicuro son dei gran burloni, visto che all’inizio della loro carriera si sono spacciati per cinesi (ma perché poi? Perché il black metal cinese vende di più??) per poi rivelare nel 2015 di essere invece americani con base nel North Dakota. Ma è cosa nota che negli ambienti del depressive pullulano i simpaticoni, ecco perché alla fine abbiamo deciso di includere pure loro nella nostra rassegna... 

C'è, tuttavia, un altro paio di validi motivi per dedicare ai Ghost Bath uno spazio nella nostra trattazione. Il primo è la straordinaria bellezza della copertina (abbiate pazienza, sono debole, debolissimo e disarmato innanzi ad una bella copertina): una immagine suggestiva, volendo inquietante, e decisamente originale, magari non proprio in linea con i canoni del depressive, ma innegabilmente conturbante. Il secondo è che, stando ai diretti interessati, l’espressione ghost bath andrebbe ad indicare la pratica di suicidarsi tramite l’immersione nell’acqua: considerato questo ulteriore dettaglio, ci sentiamo più che mai sereni a trattare la band in questa sede. 

L’EP omonimo “Ghost Bath” usciva nel 2013, mentre l’esordio in full “Funeral” risale al 2014, quando ancora i Nostri millantavano di operare a Chongging e riportavano i loro nomi in ideogrammi. Quello era un debutto che si allineava alle tendenze blackgaze del periodo, con Alcest e Deafheaven a dispensare lezioni di leggiadria nell’oscuro mondo del black metal. In particolare i secondi sembrano aver lasciato una profonda impronta nella scrittura e nell’approccio dei Nostri: del resto il capolavoro “Sunbather” era uscito solo l’anno prima, aprendo uno squarcio epocale nella storia del black metal. 

Con il secondo lavoro “Moonlover”, pubblicato nel 2015, i Ghost Bath fra le varie possibili strade scelgono di buttarsi senza esitazioni nel solco lasciato da "Sunbather", confezionando un lavoro fresco, brillante, a tratti persino luminoso e vibrante, sebbene il mood malinconico, o per meglio dire melanconico, rimanga predominante. 

Sei brani, 42 minuti: fin dalle premesse è tutto in discesa per un ascoltatore che è passato da Shining, Silencer, Xasthur e compagnia depressiva. “The Sleeping Fields” è solamente una soffusa introduzione di chitarra arpeggiata che non arriva al minuto e mezzo. Poi esplode “Golden Number” che nei suoi nove minuti potrà stupirvi almeno in un paio di occasioni. La prima è quando a circa due minuti parte una improvvisa fuga di chitarra solista animata da una melodia estremamente magnetica e quasi allegrotta che rende ancora più trascinante un brano già di per sé possente e che non disdegna parti veloci e persino blast-beat. La seconda botta di stupore arriva con la coda di pianoforte che sorprende per il tocco: un tocco leggiadro che ha più a spartire con la modern classical music che con il gothic. 

A proposito: l’album è registrato divinamente, i suoni sono sfumati, cristallini, sfavillanti e sono in grado di mettere in risalto sia le prodezze delle sei corde (molte belle le trame melodiche, fortemente tributarie di Alcest e Deafheaven) che le ricercatezze del mai-domo drumming, terremotante, dinamico, coinvolgente. La voce invece è uno strillo impalpabile lasciato sistematicamente in secondo piano, come del resto spesso capita nel blackgaze. Nameless (così si fa chiamare il mastemind della band, qui alle prese con voce, chitarra e pianoforte) è dispensatore di un canto astratto in cui le parole sono incomprensibili, quasi un lamento disarticolato: indubbiamente l’elemento più prettamente depressive dell’album. 

Il brano, in conclusione, è una vera botta di vita - strano a dirlo in questo contesto - ma è anche vero che molte di queste band sospese fra depressive e sonorità post- giocano molto sul contrasto fra sensazioni di natura opposta, come se volessero raccontare gli stadi d’animo di chi è in continua balia degli sbalzi di umore o di una sorta di bipolarismo dove brio e disperazione, momenti down ed esaltazione corrono in modo parallelo a disegnare un’esistenza tanto ricca di emozioni quanto vuota nel suo fine ultimo. Ecco, il suono di questo neo-depressive, se così lo possiamo definire, è rivolto all’immanenza, alla estemporaneità, alla gioia e il dolore che la vita può arrecare in ogni momento, per poi non portare a nulla nel suo complesso. 

A proposito di depressive, la seguente “Happyhouse”, a scapito del titolo, ci riporta subito a tempi doomici e riff decadenti rappresentando il momento più autenticamente depressive del platter. L’incipit mi ha quasi ricordato certe cose di Neil Young, artista che mi ritrovo a citare per la seconda volta in una rassegna sul depressive black metal (la prima volta fu in occasione dei Werdard), sicuramente a sproposito, ma un motivo ci dovrà pur essere..... In ogni caso nei suoi otto minuti succedono molte cose, fra virate melodiche e la consueta prova vocale straccia-tonsille

Poi di colpo l’album cambia volto. Se il brano appena descritto terminava con un mesto arpeggio, “Beneath the Shade Tree” è una strumentale che riprende fluidamente gli stessi umori protraendosi per quasi cinque minuti fra arpeggi sospesi nel vuoto e ispirati contrappunti solistici. Come se non bastasse, “The Silver Flower (Part I)" è un’altra quieta strumentale di quattro minuti sempre a base di sognanti arpeggi, ma questa volta spalleggiati da pianoforte, tastiere e suoni ambientali che conferiscono al viaggio contorni onirici. Dopo questa lunga pausa torna finalmente l’elettricità con “The Silver Flower (Part II)” che riprende i temi melodici della prima parte. Non è che salutiamo con gioia il brano solo perché torna in cattedra il black metal (anzi, la perlustrazione acustica era stata molto gradita), ma perché nei sette minuti e mezzo che seguono ci troveremo innanzi alle soluzioni melodiche meglio riuscite dell’album, dopo un incipit slayeriano in chiave dream-pop - lo sapete che mi piace dire cazzate, no? -  e variopinte progressioni dalla raffinatezze quasi neo-prog. 

Chiude il cerchio la conclusiva “Death and the Maiden” con il tema melodico che aveva aperto l’album e prelibatezze blackgaze assortite, peccato che poi l’album sia già finito. L’impressione finale, al di là del buon retrogusto dato dai tanti ottimi momenti, è un senso di incompletezza, come se a questo album mancasse qualcosa, nonostante la circolarità della struttura dell’opera con i suoi rimandi tematici. Ovviamente Alcest e Deafheaven vivono su un altro pianeta, ma c’è anche da ritornare all’inizio e ricordarci che i Nostri sono portatori di una componente depressive che inevitabilmente finisce per essere (auto)distruttiva e votata all’inconcludenza.

Molti puristi del DBM storceranno il naso innanzi a questi ibridi fra blakegaze e depressive (altri nomi degni di nota possono essere gli An Autumn for Crippled Children e i Sadness - quelli americani, non gli svizzeri), ma con sguardo approfondito è possibile cogliere una differenza tangibile fra il blackgaze e queste forme edulcorate di depressive: entrambi i filoni intendono rappresentare un universo interiore attraverso tinte malinconiche, ma nel caso di band come i Ghost Bath è palese il prevalere di una confusione emotiva che, in certi casi, può (dico può) portare al suicidio: una condizione esistenziale diffusa più oggi che ieri, in un mondo in cui puoi potenzialmente avere tutto ma da cui ottieni irrimediabilmente di meno. 

La forza di emozioni contrastanti ci lascia senza parole, ci schiaccia, rendendoci insensibili, muti innanzi alla felicità ed al dolore, stretti in un unico fatale abbraccio.