Albion Dungeon Fest - giorno due.
Domenica 16 febbraio, un sole pallido splende sullo sfondo di un cielo grigio, cosa che secondo gli standard di Londra è quasi da considerare come una bella giornata. E' comunque freddo. Giungo con moltissima calma al New Cross Inn, un po’ intimorito innanzi alla prospettiva di dover stare altre otto ore in piedi ad ascoltare dungeon synth (cliccate qui se volete vedere cosa è successo il primo giorno - sabato 15 febbraio).
Otto ore che - è sempre bene ricordarlo - culmineranno con l'esibizione di Mortiis, il padre del dungeon synth, e dunque coronamento perfetto di suddetta maratona. Forza e coraggio, ce la faremo!
Arrivo alle tre perdendomi i primi due appuntamenti in programma, Coedwig e Knight of the Sun, ma giungo in tempo per la falsa partenza di Atlantean Sword, che fa un po' di casino con l'intro di vocione narrante. L’emozione - e forse l'inesperienza - sembrano tradire il musicista inglese, che in un paio di circostanze vedremo scuotere la testa per qualche errore (al nostro orecchio quasi impercettibile), ma ciò non pregiudica gli esiti positivi di una esibizione solida e quadrata, all'insegna di tromboni trionfali ed atmosfere guerresche. Il Nostro rincara la dose con un elmo da guerriero ed uno spadone attaccato in bella mostra lungo il bordo della tastiera che al termine della esibizione verrà sventolato in aria con gesti plateali e metaforicamente affondato nei tasti della tastiera in concomitanza di una tronfia, tragica, epica nota conclusiva (trovata scenica che tutto sommato ho trovato divertente). Ironia a parte, la performance è stata potente e devo ammettere di essermi emozionato in un paio di frangenti.
E' anche vero che sono di buon umore: tutti i timori della notte precedente e del mattino si sono volatilizzati ed una sensazione di conforto mi ha invaso il cuore appena ho messo nuovamente piede nel New Cross Inn: stesse scene, stesse facce, al New Cross Inn ci si sente a casa ed oramai la dimensione magica dell'Albion Dungeon Fest è nettamente preferibile alla grigia realtà.
Dopo un veloce cambio di palco giunge il turno del progetto inglese Gate Master, avviato solo nel 2020 ma solido da tutti i punti di vista, in primis per la sicurezza mostrata dai musicisti. Se su disco si offre una valida alternanza fra suggestioni dungeon ed asperità black metal, sulle assi verrà espressa solo la prima delle due dimensioni. L'introduzione è affidata all'ugola sgraziata di una pingue cantante che, agitando le braccia in modo stregonesco, gorgheggia e starnazza come una Diamanda Galàs denoantri. Dietro vi sono due tastieristi, entrambi vestiti da satanassi: Gate Master in persona con la maschera blu e la cotta di metallo da cavaliere e l'altro con la maschera rossa ed una folta barba finta. I due ricordano gente raffinata come i Das Ich, ma al di là della immagine pagliaccesca (che è l'ultimo dei problemi in questo contesto), i due ci sanno fare e si renderanno responsabili di una prestazione tecnica e di un sound variegato che sa alternare in modo vincente una componente elettronica più incalzante ed una dimensione folkeggiante più evocativa. I due spingono ossessivi e spigolosi, mettono efficacemente insieme Burzum e Kraftwerk, e guardarli uno di fianco all'altro con le maschere, immobili, senza batter ciglio e concentrati sui rispettivi strumenti come se fossero persone normali, è una scena tanto surreale e "barroccesca" quanto bellissima. I Nostri hanno poi da offrire delle parti cantate dove vengono raggiunti sul palco dalla tizia di prima (tale Annabel, una guest probabilmente): in questi casi si hanno dei momenti quasi à la Dead Can Dance, con Gate Master che dà man forte al microfono spaziando da un pulito evocativo ad un growl artefatto che ci ricorda i mitici Pazuzu (non proprio dei maestri di finezza). Nel finale i Nostri fan partire la drum-machine e si lanciano in un post-punk danzereccio, cosa che a questo punto non mi sarei aspettato (ovviamente nessuno balla). Grandissimi in ogni caso.
Si cambia completamente immaginario con Wallachian Cobwebs, entità estremamente misteriosa che rappresenta il fronte più gotico e tenebroso del dungeon synth. Lunghe ragnatele pendono dalla tastiera ad anticipare le ambientazioni vampiresche professate dal progetto, con alle spalle un paio di lavori niente male. Il Nostro punta su un impatto visivo di basso profilo ma estremamente suggestivo: la sua spettrale figura (funereo cerone in faccia e montgomery attillato in stile "capitano di vascello fantasma") è immersa in fasci di luce blu e celesti in uno scenario che ha dell'irreale e del decadente. La musica è all'altezza delle suggestioni visive: volumi assai sostenuti (o sono le mie orecchie ad essere più affaticate rispetto al giorno prima?) supportano crescendo di orchestrazioni ed archi in tensione che montano con grande impetuosità, il tutto condito da campionamenti di sequenze di film horror. La proposta alla lunga potrebbe risultare un po' monocorde, ma l'esibizione è ineccepibile da un punto di vista formale: indubbiamente fra i più raffinati sound-designer visti in questi due giorni.
Eccoci dunque all'attesa esibizione di Hedge Wizard, il primo big della giornata. Hedge Wizard è un altro che si è costruito la fama nel dungeon synth grazie ad un solo album, l'oramai classico "More True Than Time Thought" del 2013. Solo di recente (nel 2024 per esattezza) il Nostro avrebbe dato un seguito al suo capolavoro con un nuovo album, il valido “Neighborwoods”. Esponente di punta della second wave del dungeon synth, il nostro piccolo mago, con la sua finta lunga barba rossa e il cappello di lana con le corna, si muove in modo scoordinato, dando l'impressione di essere un disadattato, ma fa anche tenerezza, una tenerezza positiva voglio dire, e a me la sua esibizione commuoverà dal primo all'ultimo istante. Egli alternerà brani dai suoi due album, i quali verranno accompagnati da un mix vincente di immagini esoteriche, video di cartoni animati e videogiochi, unendo così il suo modus operandi innegabilmente burzumiano ad un'anima nerd e bambinesca che ne stempera le asperità. Come su disco, il musicista americano ci conquista con la semplicità attraverso trame melodiche mai banali che rileggono, in modo personalissimo, i dettami della vecchia scuola. Insomma, un dungeon synth genuino e dal gran cuore che sa stregare con poche note. Per quanto mi riguarda (ma io sono di parte), la sua sarà l'esibizione più emozionante della giornata. Un mito.
Versata una piccola quota di lacrime con Hedge Wizard, si passa alla freddezza/spietatezza di Putrid Marsch, giovane rampollo della Out of Season, l'etichetta per eccellenza del dungeon synth...come definire Putrid Marsch? Attivo dal 2020, si tratta di un progetto relativamente giovane, per questo non ho ben capito il motivo della sua collocazione così in alto nel bill, forse si è solo voluto dare uno stacco di stile prima dei due grandi nomi (storici) della serata, come può accadere nei festival troppo monotematici. Fatto sta che l'esibizione del musicista californiano si distanzia da tutte le altre, nel bene o nel male. Fisico statuario, nessuna maschera (strano, mi aspettavo il nostro Reclusive Goblin con il suo caratteristico naso da Pinocchio), ma solo cerone bianco e trucco minimale a contrastare uno sfondo vuoto infestato da fredde luci verdi. Si parla il linguaggio del black/ambient/noise, non so nemmeno quanto circoscrivibile nel recinto del dungeon synth. Destrutturazione, rarefazione, assalti all'arma bianca: un incubo sonoro che si materializza irrequieto al confine fra la colonna sonora di un film horror e l'avanguardia pura. Momenti di niente si alternano ad esplosioni di caos, il Nostro impugna il microfono e di colpo è black metal, ma solo per pochi istanti, poi saranno cerchi concentrici di note ossessive e gelide come una lama affilata. Qualcuno se n'è andato annoiato, ma per il sottoscritto si è trattata di una piacevole divagazione rispetto all’universo medievaleggiante ritratto con tanta insistenza in questi due giorni (e poi - personalmente parlando - trovo irresistibili questi bellimbusti dell’harsh noise - o power electronics che dir si voglia - che immobili su sfondi scarni fanno un casino della Madonna). Smetto di bere perché sento che oramai gli effetti dell'alcool vengono affossati dalla stanchezza.
Si giunge abbastanza esausti e con la schiena a pezzi all'appuntamento con la Storia. Tuttavia la Storia si farà desiderare: con i Gothmog si vive il primo (ed unico) intoppo organizzativo delle due giornate, ossia un sound-check che si protrae oltre l'umanamente tollerabile. Capisco l'enorme complessità della faccenda vista la presenza di addirittura una batteria sul palco, ma il ritardo di quasi 50 minuti sulla tabella di marcia è francamente inaccettabile secondo gli standard di precisione della capitale inglese (manco i Nostri fossero i Pink Floyd...). È stato veramente palloso seguire quegli energumeni che provavano e riprovavano, peraltro accompagnati da suoni eccellenti, tanto che un tipo spazientito dal pubblico gli ha gridato: sounds good! - come dire, va bene così, muovetevi!!! Arreca ben poco sollievo l'ironia teutonica del cantante che ha una faccia "simpatica" in stile Till Lindemann e dà l'impressione che è lecito scherzare e ridere fin quando vuole lui, poi son cazzotti sulle orecchie.... Il Nostro, infatti, ogni tanto si rivolgeva al pubblico dicendo "ora arrivano i Gothmog, state tranquilli" o, facendo l'occhiolino, "adesso andiamo là dietro a sentire se i ragazzi sono pronti", ben sapendo che tutti sapevano che quelli sul palco erano i Gothmog... Che poi diciamolo, i Gothmog devono la loro fama ad una sola demo (cosa assai tipica nel dungeon synth), realizzata nel 1998 e vilmente ri-registrata nel 2024. Insomma, stesso giochetto dei Depressive Silence. A proposito, i Gothmog SONO i Depressive Silence, cioè i Depressive Silence senza uno dei membri fondatori (B.S.). O, per meglio dire, sono i Mightiest che rifanno i Gothmog, visto che il buon Ral anche in questo suo progetto personale si fa accompagnare dai compagni della band black metal in cui da sempre milita.
Si parte con lo stesso copione del giorno prima: intro strumentale e poi ingresso "barroccesco" del cantante, sempre facendosi strada fra il pubblico preceduto da un tizio della crew che urla excuse me excuse meeee.... La differenza più evidente è che i Nostri, sempre incappucciati e con il volto coperto, non indossano abiti da monaci ma tuniche in pelle e borchie sottolineando la predilezione del progetto tedesco per il lato marcio del medioevo.
Fin dall'inizio, ignari di quel che succederà in seguito, si capisce che l'attitudine è meno dungeon e più metal, con il frontman che a pugni chiusi incita il pubblico con energia. Per la prima metà del concerto il gruppo tiene bene la parte, con una rivisitazione vitaminizzata della mitica demo "Medieval Journeys" (classe 1998): si riconoscono ancora i temi originari tessuti dalle tastiere del buon Ral, e "Blood Trips From My Sword" e "Night Passion", seppur sotto la cura ricostituente di batteria e percussioni, sono un vero tuffo al cuore, in particolare la seconda che, arricchita della componente ritmica, assume sembianze quasi prog. Il tizio ai timpani, come successo con i Depressive Silence, picchia come un fabbro. Un chitarrista presenzia sulla sinistra in pianta stabile e non in modo sporadico come accaduto il giorno prima. In tutto questo il cantante si imbuca con l'evocativo declamato à la Ribeiro e i lenti gesti che ben conosciamo.
Mano a mano che si procede, tuttavia, il suono si irrobustisce, il canto si inasprisce ed ecco che di colpo ci si trova nel mezzo di un concerto black metal, con tanto di ritmiche sostenute, riff zanzarosi e grida belluine. Insomma, i Mightiest hanno preso subdolamente il sopravvento sui Gothmog, usando come pretesto quella "A View into My Abiss" che, nella demo, rappresentava un torbido esperimento black/ambient e che stasera diventa una staffilata black metal a tutti gli effetti, ingagliardita dal doppio elemento percussivo. L'apice del tutto si raggiunge con una cover dei Summoning, scelta azzeccata da tutti i punti di vista, ma soprattutto concettualmente: uno, perché anche la musica dei Gothmog, come quella dei Summoning, è imbevuta di letteratura tolkieniana; due, perché i Summoning, pur non suonando dungeon synth in senso stretto, sono stati una influenza fondamentale ai fini degli sviluppi del genere, e il fatto che siano stati in qualche modo rappresentati (come la musica di Burzum è stata trasmessa spesso fra una esibizione e l'altra), rende ancora più completo l'evento, al dungeon synth consacrato.
Tutto molto epico, potente, evocativo e coerente, ma anche molto doloroso per le mie povere orecchie dopo due giorni di festival. Noto tuttavia che la gente apprezza molto questa divagazione black metal, c'è fanatismo nell'aria, rabbia repressa, frustrazione inesplosa e negli occhi lucidi della gente che rotea i pugni in aria leggo come il nazismo è nato nelle birrerie della Baviera quando Hitler montava sul tavolo e prendeva la parola. In particolare mi spaventa l'esagitazione di certe ragazzine che all'apparenza mi erano sembrate delle annoiate fidanzate al seguito del fan del dungeon synth di turno, e invece.....
E in cuor mio bramo Mortiis come potrei bramare Chopin. Avrei voglia a questo punto solo di silenzio, oscurità, un letto ed un massaggio thai, e fortunatamente l'allestimento del palco per il norvegese avviene ben più celermente di quanto sia accaduto con chi lo ha preceduto. La scenografia è minimale ma solida, come la musica che a breve si sarebbe manifestata: una consolle al centro, un pannello bianco sullo sfondo, due sagome di cartone ai lati per restringere la visuale e portare il musicista al centro dell'attenzione. Ecco che finalmente il Nostro si posiziona ed è una vera emozione vedere la sua figura iconica così da vicino. E il prevedibile effetto pagliacciata viene scongiurato grazie ad una maschera ed un make-up di ottima fattura. Luci bianche, rosse e blu esaltano la caratteristica silhouette del musicista (naso adunco, orecchie a punta e lunghe treccine). Sarà quasi surreale vedere quell'essere grottesco, ma anche così famigliare, dondolare lentamente la testa e volgere gli occhi verso l'alto come in uno stato di trance. Sembra quasi una installazione in un museo di arte contemporanea.
Ora, non sono cresciuto col mito di Mortiis, ma dopo due giorni passati a questa maniera, fra monaci, cavalieri, maghi, spettri, satanassi e dinosauri, il Nostro assume le dimensioni e la maestosità dell'oracolo. Risuonano le prime note del mitico “Født til å Herske” che verrà eseguito per intero (voglio ricordare che si tratta di un'unica composizione di durata superiore ai cinquanta minuti divisa in due parti). E' il primo album di Mortiis (classe 1994) ed è significativo che tutto finisca laddove tutto è iniziato. È come se quello che è successo nei due giorni precedenti, gli artisti grandi e piccoli, le varie sfumature stilistiche del dungeon synth, le maschere e i costumi, tutto tendesse e fosse funzionale a questo momento.
La musica: “Født til å Herske” rende anche meglio che da disco, godendo di potenti suoni. La resa dal vivo è eccellente e l'album si riversa lentamente nelle nostre orecchie mentre sullo sfondo si susseguono disegni stilizzati in bianco e nero che evocano inquietanti scenari fantasy via via inframezzati dal caratteristico logo dell'artista. Le immagini cambiano a seconda delle svariate pause disseminate lungo la composizione. Le note si ripetono in modo ricorsivo ed ipnotico e si capisce che all'origine del percorso del musicista norvegese questo tipo di musica nasceva, oltre che da effettivi limiti tecnici, anche con il proposito di trasportare l'ascoltatore in uno stato di totale evasione mentale. V'è un che di autenticamente spirituale che non abbiam percepito nelle esibizioni precedenti. Il tutto suona come un rito di iniziazione; più profanamente parlando, sembra di ripercorrere una via che ci conduce a ritroso alle origini del genere. È indubbiamente più basico ed elementare Mortiis dei suoi successori, ma la sua musica ha il fascino dell'originale. In queste note echeggia infatti la scintilla primigenia di quello che poi sarebbe stato chiamato dungeon synth: si sente il sapore di quello spirito volto alla sperimentazione atmosferica che animava molti artisti black metal degli anni novanta, dagli interludi di Burzum pre-Tohmet alle strumentali medievaleggianti dei Satyricon.
Il tema melodico ricorre in modo insistito, davvero il tutto si sviluppa attraverso poche, oculatamente selezionate note, come se ogni tot il nastro si riavvolgesse e ripartisse da capo. Ci sono passaggi marziali dove si intravede il Mortiis industrial che sarebbe venuto qualche anno dopo, c'è una lunga fase cosmica che neppure mi ricordavo e che getta un ponte simbolico in direzione dei veri precursori del dungeon synth, ossia i corrieri spaziali del kraut-rock e della kosmische musik degli anni settanta. Cogliendo una pausa più consistente delle altre, Mortiis fa un cenno di saluto al pubblico che risponde calorosamente. Si conclude la prima parte dell'album, riparte subito la seconda, sotto i medesimi auspici e con gli stessi propositi. La musica prosegue come imprigionata in un flusso ondivago, oscillatorio, fin quando ci si addentra in una fase aspra affetta da cacofonia e squarci di rumore bianco: Mortiis prende il microfono in mano e, senza scomporsi, si fa crooner apocalittico. Se nella registrazione originale la parte "parlata" passava sotto traccia, quasi un farfugliare incomprensibile che non snaturava la vocazione strumentale della proposta, stasera il passaggio suona decisamente più incisivo e perforante.
All'improvviso tutto tace, il Nostro ringrazia e si dilegua dal palco, compiendo la barrocciata suprema, ossia sgattaiolare e dirigersi di corsa verso l'uscita di emergenza che dà all'esterno del locale (perché - si è già detto - non c'è il backstage). E - esperienza mistica a parte - mi son piegato dalle risate al pensiero di un ipotetico passante che tutto ad un tratto si è trovato di fronte a Mortiis, lunghe trecce e faccia da troll, che esce da una porta sulla strada come se niente fosse - quella sì che deve essere stata una esperienza mistica!
Sembrano trascorse diverse ore, ma alla fine l'esibizione è durata poco più di cinquanta minuti. Magie del dungeon synth! Fra sorprese e conferme, anche la seconda giornata si conclude con un bilancio estremamente positivo: Gate Master e Hedge Wizard le esibizioni che ho personalmente prediletto, con il carico da novanta dello show fisico dei Gothmog e della prova di alta classe di Mortiis. La gente, con un sorriso di soddisfazione che parte da Hammersmith ed arriva a Shoreditch, defluisce lentamente verso l'uscita, sfociando nella fredda notte di una tranquilla domenica sera nella placidità di un quartiere periferico del tutto ignaro di quello che si è consumato fra le mura del New Cross Inn per un paio di giorni...
Termina così una esperienza clamorosa, sì faticosa, ma estremamente appagante e soprendente, anche per uno come me che vive di concerti e, disilluso, ne ha viste di tutti i colori. La prospettiva di un intero weekend di solo dungeon synth poteva spaventare anche il fan più accanito per via del ragionevole rischio che alla lunga la proposta potesse rivelarsi eccessivamente monotona e dunque stancare. Ed invece, anche grazie all'aspetto scenico - che non è stato affatto secondario - il dungeon synth si è rivelato un genere in grado di intrattenere, offrendo una insospettabile gamma di sfumature: dalle sonorità old-school a quelle più moderne, dall'ambient al noise, dalle atmosfere più gotiche al rude black metal. E tutti i musicisti, dal primo all'ultimo hanno apportato il loro valido contributo, dimostrando professionalità, serietà, bravura e dedizione alla causa. Se penso che tutto questo si è consumato in contemporanea con la fase finale del Festival di Sanremo (apoteosi della dimensione social-popolare, dell'appiattimento culturale e del vuoto artistico), rimango ancora più soddisfatto di questo splendido evento di nicchia, tanto di nicchia che il momento più commerciale alla fine è stato la cover di una band atmospheric black metal! Un sentito ringraziamento agli organizzatori, i ragazzi della Forbidden Keep (etichetta inglese di settore).
Vi piacerebbe a questo punto poter dire “è stato tutto bellissimo, ma anche basta”, ed invece sappiate che siamo solo all’inizio: vi aspetto sulle pagine di Metal Mirror per una avvincente rassegna sul dungeon synth!
To be continued...