No, nonostante l’età avanzata non
ce ne siamo dimenticati. Non ci siamo
rincoglioniti a tal punto.
E come avremmo potuto, del resto?
Parlo del nuovo album del Devin. E di quello degli Opeth.
Tralasciati nella nostra classifica finale del
2024. E persino nel brainstorming di Redazione. Snobbati, potrebbero pensare i
più disattenti. Perché, i più attenti lo avranno notato, ne
avevamo accennato: i due dischi pubblicati da questi Giganti non sono di
certo passati inosservati. E, per questo, abbiamo deciso, arbitrariamente (è il
bello di gestire un Blog…), di trattarli in separata sede. Cioè ora. Con questo
post. Sperando di “mettere le cose a posto”.
Perché questi due album, “Powernerd” e “The Last Will and Testament”, usciti a 27 giorni di distanza l’uno dall’altro e che ho letteralmente consumato in questi mesi, rappresentano alle mie orecchie due facce della stessa medaglia. Due album a ben vedere molto distanti eppur complementari, almeno nell'ottica di un medio metalhead che si voglia onnivoro.
Provo a spiegarmi. Partendo, in
ordine di rilascio; quindi da Townsend (25/10/24).
“Powernerd”: titolo della
minchia, video della title track altrettanto della minchia, durata stranamente limitata (44 minuti per ben 11 brani),
realizzazione “tirata via” in una settimana e mezza, primi ascolti che lasciano
con-quella-faccia-un-po’-così. Interdetti.
Freddini. Non saziati. Insomma,
c’erano tutti gli elementi per pensare che, stavolta, il Devin Nazionale
avesse toppato.
E invece.
E invece, noi che lo conosciamo bene, capiamo, già dal terzo/quarto ascolto, che, ancora una volta, aveva-ragione-lui-mannaggia-a-lui!
Dopo due dischi tanto diversi quanto, entrambi, enormi (per concetto, ricerca,
sperimentazione, struttura e durata) come “Empath” e “Lightwork”, Devin ha
sentito il bisogno di buttare lì, a spregio, un dischetto rapido rapido,
da “leccarsi le orecchie” (non nuovo a queste soluzioni, il Genio di
Vancouver; basti pensare ad album come “Physicist” o “Addicted”). La sua capacità di maneggiare la
grammatica rock e metal fa sì che, nella sua immediatezza e fruibilità,
“Powernerd” non sia minimamente tacciabile di “semplicismo” perché è
impacchettato in modo super-professionale. Il marchio è inconfondibile (i suoi
arpeggi distorti, la stratificazione sonora, gli intrecci di chitarra e
tastiere) e “pompa”, pompa-di-brutto,
emoziona e fa dimenare le chiappe come solo lui sa fare! E ha al suo interno
brani meravigliosi, come “Falling Apart”, “Gratitude”, “Glacier”, “Ubelia”,
“Jainism”. Compreso quello che, a un primo ascolto, sembrava un divertissement
di poco valore, la conclusiva “Ruby Quaker”, e che in realtà si rivela essere
un brano ironicamente townsendiano ma altrettanto townsendianamente potente e
strutturato.
Fate vostro “Powernerd”,
cantatevelo a squarciagola, in macchina e a casa, sul bus e al supermercato! Ricordando che “Coffee coffee, I love the coffee / Morning brew is perfect in every
way!”
Devin (e la sua fissa
per le fave del caffè) is back e noi ne siamo tutti felici…
Anche il Michelone Åkerfeldt
è tornato e ne siamo tutti felici. Cioè, ‘nsomma. Da 15 anni a questa
parte la felicità per le sue uscite non è che scaturisse da tutti i nostri pori…ma,
stranamente, questa volta l’hype per il rilascio della nuova fatica opethiana
era palpabile nell’aria. Sarà stato il ritorno al growl? L’ottima accoglienza
dei primi singoli? La qualità, da subito evidente, del nuovo drummer finlandese
Walttery Väyrynen?
La presenza di Joe Tempest alle
backing vocals e/o quella di Ian Anderson come voce narrante e come flautista?
Sia quel che sia, “The Last Will and Testament”, una volta pubblicato
(22/11/24), ha avuto recensioni e accoglienze, urbi et orbi, straordinariamente
calorose.
Lo chiariamo subito: meritate.
Perché il disco è molto, molto bello. Lascia, al termine dei 51’, una piacevole
sensazione che ti porta a riascoltarlo. Più e più volte.
L’equilibrio tra i loro tipici
elementi sonori giunge qui a un nuovo livello di compenetrazione,
sostanziandosi in una progressione fluida e naturale, cucita artigianalmente ‘a
mano’ dalle capacità di scrittura del Mikael. Niente digressioni inutili,
quindi; niente scarti, solo “ciccia”: un flusso dinamico, valorizzato da una
produzione perfetta, che si dipana nei sette capitoli, o meglio paragrafi
(marcati nella tracklist con il relativo simbolo “§”),
del testamento del titolo. Paragrafi che guidano l’ascoltatore,
in un’atmosfera davvero inquietante e oscura, lungo la storia del concept.
Note di merito, oltre al lavoro
delle due chitarre, per il delicato apporto mai invasivo, eppur fondamentale,
delle tastiere di Joakim Svalberg
che, in questa texture di extreme
prog metal, trapuntano il tutto come meglio non si potrebbe. Dal canto
loro, Martín
Méndez e il succitato Väyrynen
sono impeccabili non solo nella fase di accompagnamento ma anche ad ergersi
come vere colonne portanti del sound.
Ma. Per chi scrive, un ma c’è.
Come scrisse il nostro
mementomori in merito a “Hushed and Grim” dei Mastodon, questo album è si una
sontuosa, perfetta, architettura dove tutto è studiato nei minimi dettagli, ma,
almeno al sottoscritto, risuona in modo piuttosto freddo. Quasi algido. Tale da
rapirti, sì, il cervello ma non il cuore. Certo, ad eccezione di lei, della conclusiva “A Story Never Told” che, da sola, ci
ripaga emotivamente dei 44 minuti che gli Opeth ci hanno somministrato in
precedenza. Per finire in fading con un assolo di struggente bellezza.
Ed eccoci quindi il perché delle
medaglia a due facce: quale preferire delle due? A cosa dare maggiore spazio
negli ascolti della propria quotidianità? Cosa considerare “superiore” tra i
due approcci e tra i due risultati di tale approccio? Al cuore o alla mente? Al
sangue ribollente o al cervello calcolatore? Alle emozioni o alla "contemplazione accademica"?
La risposta è semplice: non siamo
dentro “Matrix”, con l’obbligo di scegliere tra la pillola azzurra e la pillola
rossa. Qui, le due pillole le ingurgitiamo entrambe con gioia!
Due album che hanno segnato il
2024.
Due album da avere.
Due album prodotto di due menti
uniche e geniali.