"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

25 giu 2025

SAVATAGE, LIVE AT O2 SHEPHERD'S BUSH EMPIRE - LONDON (16/06/2025)



Per ironia della sorte - o per semplice coincidenza - ho avuto modo di vedere dal vivo, nell'arco della stessa settimana, due band a loro modo fondamentali entro il proprio ambito di competenza, peraltro diversissime fra loro, praticamente agli antipodi quanto a stile e concezione della musica. Mi riferisco a Savatage e Nine Inch Nails (che, per una fatalità ancora più beffarda, hanno suonato lo stesso giorno a Milano, il 24 giugno scorso). Aver partecipato a questi concerti è stato un vero tuffo nel mio passato e tale esperienza non poteva che scoperchiare vecchie cripte mentali da cui far uscire ricordi antichi, sensazioni sepolte, immagini credute perse per sempre. Mi scuso con il lettore se dunque questi due report saranno abbastanza lunghi e ricchi di digressioni, sia di carattere personale che generale, ma per il sottoscritto si è trattato di un viaggio mentale che ha finito per travalicare il senso della mera esibizione.
 
Se per i Nine Inch Nails prevarranno considerazioni di tipo generale, in quanto la band di Trent Reznor ha avuto un ruolo effettivamente più incisivo nella più ampia storia della musica popolare, con i Savatage il discorso sarà impregnato di sensazioni iper-individuali. Dico solo che "Streets: A Rock Opera" è stato il terzo cd che ho comprato nella mia vita e che album come "Edge of Thorns" (soprattutto), "Handful of Rain" (un po' meno) e pure "Dead Winter Dead" hanno attraversato i miei anni di liceo lasciando un solco profondo nella mia corteccia cerebrale, sebbene in quel periodo mi stessi spostando verso sonorità più estreme. Con "The Wake of Magellan" ero già con la testa altrove, ma anche per un principe dell'oscurità come me è impossibile non riconoscerne oggi la bellezza, nonché indicarlo come la dimostrazione lampante di come sia stato possibile per questa straordinaria band poter avere un prosieguo di carriera dopo la tragica morte di Criss Oliva. E proprio il repertorio novantiano della band avrà un ruolo centrale in questo tour, occupando circa i tre quarti della scaletta. Prepariamo dunque i fazzoletti, che ci sarà da piangere... 

Vi ho detto che vi avrei tediato, parto dunque con una inutile premessa. In più di trent’anni di militanza concertistica mi son tolto ben più di una soddisfazione, ma con rammarico mi guardo indietro e noto, in qualche specifica circostanza, di aver mancato - non per colpa mia! - l'appuntamento con la Storia. Faccio un paio di esempi. Nell'ottobre del 2001 si sarebbe dovuto tenere il concertone Slayer-Pantera al Palavobis di Milano, ma a Bin Laden venne in mente di buttare giù le torri gemelle il mese prima e così il management dei Pantera vide bene di proibire alla band di volare in Europa. Vabbè - uno dice - avrò occasione di vedere i Pantera...ed invece no!, i Nostri si sarebbero di lì a poco sciolti e per togliere ogni dubbio su ogni possibile reunion sarebbero poi deceduti entrambi i fratelli Abbott. Oggi chi vuole vedere i Pantera si deve accontentare dalla tribute-band messa su da Phil Anselmo. Che dite, non era meglio averli visti nel 2001 in formazione originale? Quanto a me, andai comunque a vedere gli Slayer, ma per colpa di Bin Laden non ho mai visto i Pantera! Altro esempio. Al Gods of Metal del 2002 avrebbero dovuto suonare i Rammstein (erano di spalla agli Slayer – saranno loro che portano sfiga?), ma all'ultimo momento ci fu comunicato che i tedeschi non si sarebbero esibiti per problemi di salute di un componente della band. Pazienza, mi dissi, m'importa una sega dei Rammstein, però oggi per vederli devi andare in uno stadio a costi esorbitanti, peccato dunque non averli potuti vedere “aggratis” nel pacchetto festival quando non erano ancora un fenomeno di livello planetario quale sono oggi... 

Con i Savatage invece posso dire: li ho già visti! Era sempre un Gods of Metal, nel 2001 per l'esattezza, e c'era ovviamente Jon Oliva, ma, ironia della sorte, non c'era Zachary Stevens sostituito per l'occasione dallo sconosciuto (ed insignificante) Damond Jiniya, meteora che durò il tempo di quel solo tour, che culo! Sì, certo, concerto bellissimo, però mi è sempre rimasto sul gozzo non aver visto Zak Stevens, cantante che amo particolarmente. Ecco dunque il motivo per cui sono qui oggi.  Aiuta il fatto che i Savatage suonano a 800 metri da casa mia, ossia allo O2 Shepherd’s Bush Empire: sarebbe stata veramente una idiozia non esserci! E a dirla tutta, a questo giro avevo proprio voglia di classe ed eleganza: la classe e l’eleganza che solo un nome come i Savatage possono garantire. Voglio dire: bei ritornelli, voce impostata, assoli fatti bene, pianoforte cristallino, orchestrazioni, cori e tutto quello di cui i Savatage sono oramai maestri da tempo immemore. Immaginatevi anche solo i classici dei Savatage, metteteli in fila, disponeteli sul palco: non avete avuto l'orgasmo al solo pensiero?? E dunque eccomi, presente! 

Siamo finalmente nelle eleganti e barocche stanze dell’O2 di Shepherd’s Bush con la sua aria da teatrino, la venue ideale per un concerto del genere. Forse un metallaro italiano si stupirà, ma il ritorno dei Savatage su un palco dopo più di venti anni di latitanza (24 per l’esattezza!) non sembra essere un evento clamoroso in quel di Londra, città che, da un punto di vista metallico, presenta un pubblico mediamente più giovane e generalmente orientato verso sonorità meno old school (a meno che si tratti di gente storicissima come gli Iron Maiden, che a questo giro si concedono il lusso del London Stadium). Evidentemente la leggendaria storia dei Savatage non è riuscita ad accattivarsi le simpatie delle ultimissime generazioni della metropoli e così i Savatage si ritrovano a suonare in un posto di modeste dimensioni (per dire, ci ho visto nomi come Anathema, Current 93, Fields of the Nephilim, Uriah Heep) e per giunta neppure registrando il sold out. Che sia stata l’assenza di Jon Oliva ad aver smorzato gli entusiasmi? 

Ovviamente tutti avremmo voluto che ci fosse stato anche Jon, ma tutti sanno che per motivi di salute non ha potuto imbarcarsi nel presente tour. Al fine di sostituirlo si è ricorsi addirittura ad una coppia di tastieristi, tali Paulo Cuevas e Shawn McNair. A coloro che vedono l’assenza di Oliva come una piaga insanabile (e lo è), voglio in parte recare conforto esprimendo tre semplici concetti. Primo: allargare la formazione a sette elementi (e dunque portare ulteriore spessore sonoro sul palco) non è scontato quando si poteva fare una scelta al ribasso e usare delle basi pre-registrate (ulteriore indizio della passione, della professionalità e della serietà con cui i Savatage interpretano la loro missione). Secondo: Oliva (che non solo ha benedetto l’operazione, ma ha contribuito attivamente ad allestire lo spettacolo) era già messo parecchio male 25 anni fa, non so dunque, qualora la salute glielo avesse permesso, con che tipo di forma, fisica e vocale, il Nostro avrebbe potuto oggi affrontare un tour mondiale. Terzo: i Savatage sono brava gente, quasi degli amici, mai dubitare di loro, indipendentemente dalla incarnazione di volta in volta assunta! 

Tornando a Jon, conservo un bellissimo ricordo dei Savatage al Palavobis nel 2001, ma è anche un ricordo offuscato da sbavature ed imprecisioni (il tutto condito da suoni non eccellenti - ma questo si può capire considerata la cornice del festival). Era lampante che la band non se la passasse benissimo, con Stevens che non c’era più, idem per Al Pitrelli che ce lo saremmo trovati sul palco insieme ai Megadeth nell'esibizione successiva: un organico, quello sul palco, un po’ rimaneggiato che ancora una volta poggiava totalmente sulle larghe spalle di Oliva che peraltro era tornato a tempo pieno dietro al microfono con “Poets and Madmen”. Poi quel tizio, Damond Jiniya, che all’inizio sembrava un mimo che doveva far finta di cantare mentre l’Olivone si faceva carico delle parti vocali da dietro le tastiere. Boh, ricordo una prima parte del set avvolto nelle perplessità, non capendo la scelta di mettere quel cantante che non cantava ma faceva gesti con le mani, quasi il pupazzo di un ventriloquo con dietro il growl putrefatto di Jon che dopo due strofe aveva miseramente perso il controllo delle sue corde vocali. Sì, ci furono “Sirens”, “Edge of Thorns”, “Gutter Ballet”, ma ci volle tutta una “Believe” da cantare insieme abbracciati e piangenti per vivere le prime grandissime emozioni. Da quel momento il set fu in discesa, ricordo ancora come momento topico “Chance” seguita da una “Hall of the Mountain King” ad aggiungere gloria alla gloria. Insomma, innegabilmente un bel concerto, ma stasera voglio tutto quello che quella sera di 24 anni fa è mancato, ossia compattezza, affiatamento, precisione, pulizia sonora. Credo sia lecito aspettarselo. 

Da vero "vicino di casa" me la prendo moooolto con calma, ma purtroppo riuscirò a vedere un brano e mezzo degli Induction. Dico purtroppo perché avrei preferito saltarli del tutto. Gli Induction sono una giovane band power metal (declinazione happy metal) che vede in organico - guarda caso - la presenza di Tim Hansen figlio del celebre Kai. Insomma, una operazione senz'altro genuina negli intenti, ma veramente fuori tempo massimo - a meno che siate fan irriducibili del genere (ma a parere di chi scrive, quanto di più inutile e datato ci possa essere nel 2025). Per carità, i ragazzi avranno dato sicuramente il massimo e confezionato uno show più che dignitoso, stando alla reazione calorosa del pubblico, e questo grazie anche alle doti da intrattenitore del frontman Gabriele Gozzi. Ma già a me il power non fa impazzire, riproposto poi tale e quale era quello di 30 anni fa, nella musica come nell'attitudine, io mi scoraggio e quasi mi indigno. Faccio comunque a tempo a capire che i suoni della serata saranno ottimi, cosa che non mi stupisce, visto che è consuetudine avere una buona acustica all'O2 Shepherd’s Bush Empire. 

I Savatage non avranno fatto sold out (in realtà non so se sia stato raggiunto con i biglietti venduti al botteghino la sera stessa), ma si sta fottutamente stretti stasera all'O2 di Shepherd's Bush: sarà che i fan dei Savatage son più voluminosi della media? Quel che è certo è che, stando agli astanti, il ritorno dei Savatage è un evento da boomer: età media molto alta, direi fra 40 e 50, ma soprattutto molti greci, spagnoli, tedeschi, gente dei paesi dell'est, tutte piazze dove il metal classico da sempre va forte. Che dire, c'è un humus che mi lascia stranito, abituato da quasi dieci anni a platee molto giovanili con le relative dinamiche e modalità di interazione. E' la stessa "atmosfera da concerto di metal classico” che in parte mi respinge e lascia stranito, tanto che mi viene la tentazione - seduta stante - di comprare un biglietto per il concerto delle Lambrini Girls a novembre! E questo, voglio chiarirlo, è un problema MIO. 

Sarà tuttavia la magia dispensata dai Savatage, la loro perizia tecnica, il loro approccio "de core", l'interazione che ricercano continuamente con il pubblico e soprattutto i loro splendidi brani a riportarmi sistematicamente dalla loro parte! E così, ogni volta che sono rimasto sdubbiato dei videowall (un po' banalotti - ai limiti dello screensaver), ogni volta che mi assaliva il pensiero "ma se ci fosse stato Jon Oliva sarebbe stato meglio?", ogni volta che notavo un dettaglio che mi buttava giù di morale come una chioma di capelli unti, un collo peloso o della forfora su una maglietta nera, è puntualmente arrivato un ritornello, un assolo, un fraseggio di pianoforte, un incitamento da parte della band che mi ha tempestivamente riportato in carreggiata nel pieno ed incondizionato godimento dell'evento. Saranno dunque due ore di testi cantati a memoria, di abbracci a sconosciuti, di batti-mano e pugni alzati al cielo, in una sorta di rito collettivo che solo il vecchio metal oramai sa celebrare. 

I Savatage, inoltre, non si sono limitati ad allestire un comune greatest hits, e se è vero che i Nostri sono forti nei concept, anche il live di stasera sembra ricalcare i tratti di un loro tipico concept-album, con lunghe suite,  intense ballate e brevi strumentali posizionate in modo strategico, climax creati ad arte e brani connessi tematicamente fra di loro, con “The Wake of Magellan” (l’album più rappresentato) a fare da filo conduttore. 

Si prenda come esempio l'inizio del concerto e i primi tre brani. Le luci si spengono, il pubblico batte le mani con energia e reclama l'ingresso della band al grido di SA VA TAGE! SA VA TAGE! mentre sullo sfondo - ritraente una parete di mattoni - si eleva cerimoniosamente l'iconica chitarra bianca avvolta dalle rose, per poi essere presto soppiantata dall'imponente logo della band. Nel momento in cui le luci si fanno azzurrine, i musicisti fanno il loro ingresso, anticipati dalle note di pianoforte di "The Ocean" ed accompagnati dal ritmo cavalcante, basso e batteria, di quella che è l'introduzione di "The Wake of Magellan". 

Are you ready??? Make some noise, London! è il grido di Zachary Stevens, seguito dal boato del pubblico. La band fa un breve accenno al riff sabbattiano di "City Beneath the Surface", ma è solo una questione di un attimo ed è subito la volta della festante "Welcome" che senza troppi giri di parole ci invita allo show (messaggio ribadito dalla scritta glitterata alle spalle dei musicisti "Welcome to the Show"). E se di show si deve trattare, allora quale miglior modo di rompere gli indugi se non con il riff tagliente di "Jesus Saves"? Il brano è accompagnato da immagini di New York City, Zak è in palla, impeccabile con la sua camicia aderente e iconico già dal classico gesto con cui - sorridente - avvicina le braccia alle orecchie per incitare il pubblico a far sentire la propria voce (e il pubblico non si tirerà indietro). Il brano in sé, se devo essere sincero, non è fra i miei preferiti dei Savatage, ma ha un assolo della Madonna e tutta la fase centrale, fra tempi sincopati e i puntuali EH! del pubblico, è benzina gettata sul fuoco. Molto bene. 

Si scava ulteriormente nel passato con una cazzutissima "Power of the Night" che mi sarei aspettato più avanti in scaletta, ma quando sei i Savatage e hai palate di brani eccezionali, credo che tu ti possa permettere un po' il cazzo che ti pare. Una convincente esecuzione di “Another Way” (fra gli episodi più riusciti di “The Wake of Magellan”) ci porta in territori più puramente emozionali con quel why why why cantato a forte voce dal pubblico. 

Per quanto mi riguarda, le prime vere emozioni giungono con "The Wake of Magellan", la title-track intendo. Anzitutto per il groove di basso tessuto dal sempre ottimo Johnny Lee Middleton, che sulle prime non avevo nemmeno riconosciuto avendo il Nostro preso qualche chilo e cambiato il look - capelli corti e la barba a coprire il proverbiale mento à la Lupin (versione cartone giapponese). Ed è proprio il suo basso a riaprire i primi "archivi mentali" della serata: quel suono inconfondibile che da sempre marchia a fuoco la musica dei Savatage (e a guardar bene è proprio lui il membro più storico fra quelli presenti oggi sul palco). Ad esaltarmi è soprattutto la parte finale del brano, dove Stevens inizia a fare i suoi giochi di prestigio con fraseggi incalzanti, avvolgenti e sempre partecipati. Lo dico ora una volta per tutte: Zak è un grande! Ancora dotato di una voce potente e squillante, si distingue per carisma, tenuta sul palco e soprattutto per la capacità di ammaestrare con professionalità le corde vocali che giungeranno intatte fino alla fine di una performance davvero impegnativa: la sua voce è perfetta, più che credibile nel riproporre i brani originariamente cantati da Jon Oliva e superlativa in quelli suoi. E "Wake of Magellan" è uno di questi! 

Dopo cotante emozioni attacca "This is the Time (1990)" ed è un vero colpo al cuore per il sottoscritto: in una accoppiata di brani come questa ti rendi conto della forza del canzoniere dei Savatage, ma per quanto mi riguarda questo è proprio uno dei brani che più desideravo vedere riproposto dal vivo. Il ritornello, in particolare, è fra quelli che avrò canticchiato di più nella mia vita - in particolare negli ultimi mesi (con mento in fuori e perfetta bocca a culo di gallina) l'avrò intonato migliaia di volte al giorno, rischiando la separazione con la mia compagna. L’esaltazione è tale che giunti all’atteso but thiiis is the time, and thiiis is the place mi sento di andare ad abbracciare un tizio (occhiali scuri e capelli tinti di nero a sfidare una età anagrafica ben superiore alla mia) che mi pareva parecchio galvanizzato e capace di mandare a memoria ogni singola sillaba uscita dalla bocca di Stevens. Già che ci sono abbraccio anche un energumeno in maglietta rossa che ho voluto tirare dentro in questo mio momento di gioia estemporanea. Quindi, per darvi una idea della scena, alla mia destra avevo un esaltato che ha trovato un fratello esaltato quanto lui e a sinistra un nerdone che, a scapito di una sobrietà esterna ineccepibile, interiormente avrà vissuto il momento di maggiore affetto della sua vita, ne sono certo. Scene che non sembravano più possibili ad un concerto oggigiorno. 

Strange Wings”, altra incursione nel repertorio ottantiano, riporta sul palco il sound affilato dei primi Savatage, il tutto accompagnato da una inspiegabile immagine di un castello sullo sfondo. Dal gotico fumettoso si passa all'immaginario marinaresco con la rappresentazione di un vascello in tempesta a richiamare il concept di "The Wake of Magellan". E' dunque il turno della breve strumentale "The Storm", momento di rara bellezza con la chitarra di Al Pitrelli al centro della scena. A proposito delle due asce: il veterano Chris Caffery e il redivivo Al Pitrelli si confermano la coppia perfetta nel coprire quell'incolmabile vuoto che ha lasciato la scomparsa prematura di Criss Oliva. I Nostri si scambiano continuamente ritmiche ed assoli con grande non calanche, complementari anche nell'approccio, con un biondo Caffery in versione vecchia strega  tutto sudore e sorrisi, ed il moro Pitrelli, più ombroso ed introverso, ma grande protagonista delle sei corde nelle fasi soliste. 

Attendevo il primo momento interlocutorio per poter andare al bagno e fare una ripassata al bar, e mi viene servito sul piatto d’argento dall’accoppiata “Turns to Me” e “Handful of Rain”, brani molto belli, ma meno belli rispetto ad altri. Mentre piscio pulsano al di là della parete i ritmi battenti della prima, mentre le suggestioni grungeggianti della seconda mi accompagnano mentre faccio la fila al bar.  Appena riesco a riconquistare un posto dignitoso in platea, si materializza sul palco l'immagine di un orologio: è il ticchettio che precede la tanto attesa “Chance”, un indubbio highlight dei concerti dei Savatage. A partire dal suo incipit sinfonico, passando per il vortice di note scaturito dalla chitarra schizzata di Caffery e il maestoso corpus sonoro del brano, fino al prodigioso finale a base di voci sovrapposte (quelle dei musicisti e quelle del pubblico fuse insieme) e battiti di mano assortiti, questa suite è uno spettacolo nello spettacolo, insuperato capolavoro della fase post-Criss Oliva. Peccato solo per lo sfondo a base di bandiere, probabilmente a rincarare il messaggio pacifista del brano, ma che veramente non ci azzeccano nulla con le sontuose trame sonore del brano. 

La serata potrebbe finire anche qui, ma le emozioni non sono destinate a terminare. Anzi, siamo a poco più della metà del viaggio. E' il turno di un medley che vede confluire assieme diverse suggestioni da "Dead Winter Dead": “Starlight”, “I Am” e “Mozart and Madness”. Efficace e ben riuscita, in particolare, l'apocalittica “I Am” che vede protagonista dietro al microfono niente meno che Caffery e la sua voce raschiante, altro momento memorabile che - almeno per un istante - ci ha dato l’illusione che Oliva fosse con noi. “Mozart and Madness”, invece, fa emergere la componente più progressiva e classicheggiante del sound dei Savatage, con un Jeff Plate sugli scudi a cimentarsi in un piccolo assolo di batteria nel finale, mostrando  una tecnica che non siamo soliti riconoscergli. Segue (tematicamente) la stessa title-track dell'album. Sebbene “Dead Winter Dead” sia un episodio da sempre molto considerato dalla formazione americana, a me non ha mai trasmesso particolari vibrazioni, ma lo accetto di buon grado, ci mancherebbe. 

Ci pensa la bellissima “The Hourglass”, l’imponente suite conclusiva di “The Wake of Magellan”, a riportare le emozioni sul palco, proponendosi come una degna continuazione delle atmosfere e delle soluzioni sonore introdotte da “Chance”. Siamo al cospetto dei Savatage più epici e visionari, l’andamento doomeggiante dell’inizio con uno Stevens al top della propria teatralità ci immerge bruscamente nelle ambientazioni tese del concept narrato in "The Wake of Magellan". Il finale in crescendo, animato da soliti intrecci vocali, sarà propedeutico ad una tripletta di brani micidiale. Prepariamo dunque i fazzoletti.  
 
Ecco perché dico che i Savatage ti ammazzano: “Believe”, “Gutter Ballet” ed “Edge of Thorns”. Ripeto: “Believe”, “Gutter Ballet” ed “Edge of Thorns”: tre brani che riproposti uno dopo l'altro in stretta successione sono da orgasmo ed infarto al tempo stesso. In ogni caso: una piacevolissima morte... 

In occasione di “Believe” compare il faccione di Oliva sullo schermo, occhiali da sole e naso adunco che quasi sembra il Pinguino (il nemico di Batman, intendo, nella versione impersonata da Danny DeVito). Seduto al pianoforte in studio ci cimenta in una toccante versione del brano fino al primo ritornello, poi la band si accoda e Zak prende il controllo del microfono accompagnato dal pubblico in una unica accorata voce, per poi lasciare lo spazio alle chitarre per quell’incredibile assolo che fu di Criss Oliva. Proprio durante l’assolo, ecco che passano in rassegna foto d’epoca del chitarrista. Ora, devo dire che a me di solito queste operazioni nostalgia fanno cagare, ma dato il contesto, la storia della band e la bellezza del brano, bisogna ammettere che è impossibile rimanere impassibili. Ma se vi fosse anche stato qualche infrangibile cuore di pietra che ha saputo trattenere le lacrime fino a quel momento, ogni indugio verrà rotto in occasione del ritornello finale dove torna sullo schermo la figura grottesca e commovente al tempo stesso di Oliva, e la sua voce ruvida e rotta dalle sigarette a rimarcare la potenza emotiva che quel corpo e quella voce sanno ancora sprigionare. Cascate del Niagara... 

Ma come si diceva i Savatage non ti danno tregua, ed ecco il pianoforte di “Gutter Ballet”. V'è da dire che il brano se la gioca con "This is the Time (1990)" per il numero di volte che mi è capitato di cantarla nella vita ed in particolare negli ultimi mesi (peccato solo che nella mia versione essa finisse per assomigliare molto alla suoneria di un vecchio Nokia). Insomma, siamo di fronte ad uno dei brani più belli ed iconici dell'intera produzione discografica dei Savatage e la band la ripropone con la dovuta serietà ed attenzione. Aspetto Zak al varco nel finale ed ancora una volta non mi deluderà con i suoi acuti, supportato dai guaiti di chitarra di Caffery: momenti pregni di grande intensità emotiva che rendono palese come sia impossibile sostituire un gruppo come i Savatage con l'intelligenza artificiale! E pazienza per l'evitabile silhouette della ballerina nel sottofondo che, come tanti altri temi grafici scelti durante l'esibizione, palesa un approccio fra il barocco e il pacchiano che dopo tutto fa parte della visione artistica complessiva della band. 

Ma torniamo alla musica. E quando uno è già steso a terra dalle emozioni, ecco la pugnalata finale: il giro di pianoforte di “Edge of Thorns”, uno dei miei brani preferiti di sempre dei Savatage. Qui, preso dal sentimento del momento, mi faccio largo violentemente fra il pubblico per raggiungere nuovamente i miei due “amici”, il nerdone rosso-vestito e il pazzo invasato che ritrovo come lo avevo lasciato, ossia a cantare a squarciagola e gesticolare enfaticamente. Ma in questo caso specifico posso tenergli testa, sbraitandogli in faccia “but I don’t think about you anymooooore!!!”. Anche qui attendo Zak nel finale del brano ed ancora una volta lo trovo puntualmente a spadroneggiare con la sua magica ugola, cavalcando con estrema maestria il brano che lo presentò al mondo nel lontano 1993. A questo punto, davvero, fate di me quello che volete, non posso opporre più resistenza... 

I musicisti abbandonano palco per subito far ritorno. Gli attesi bis che si aprono inaspettatamente con una irruente “Nothing's Going On”, a mio parere l’unica nota stonata della scaletta della data londinese (diciamo che l’avrei volentieri scambiata con una “Sirens”, grande assente della serata). Ad ogni modo il brano - bello movimentato - crea situazioni, se non da pogo, almeno da crowd surfing che non ti aspetteresti ad un concerto dei Savatage, tanto che Zak, sorridendo, indica con soddisfazione quei corpi volanti dicendo “something is going on”, suscitando in me un gran senso di tenerezza per quell’uomo che sembra ancora stupirsi delle reazioni scomposte del suo pubblico (ragionevolmente esaltato). Ma non sono da meno gli altri componenti della band, che - sudatissimi e con i capelli oramai fradici sul viso - si scambiano sorrisi a ripetizione, palesando una voglia di suonare, di stare sul palco e di immergersi nell'affetto del proprio pubblico che è veramente merce rara oggigiorno. Veramente Savatage brava gente!
 
Chiude le danze l’immancabile “In the Hall of the Mountain King”, riff leggendario, ritornello cantato a pieni polmoni dall'intero locale (a questo punto credo che si siano uniti al coro anche i baristi e gli addetti alla security!) ed uno Zak che, nonostante potesse anche starsene a braccia conserte a godersi la scena, non si risparmia nemmeno in questa ultima tappa della maratona, elargendo acuti che a questo punto della serata, dopo quasi due ore ed una ventina di brani cantati senza esitazione, sono veramente qualcosa di impressionante. 

Tirando le somme, il tanto atteso ed agognato ritorno dei Savatage non delude: esibizione tecnicamente inappuntabile, professionalità, dedizione e sentimento da parte di tutti e sette i musicisti sul palco; una scaletta soddisfacente nel complesso e stellare a tratti che si è giustamente condensata intorno agli album con Stevens al microfono, ma senza rinunciare i classicissimi della band. E, dulcis in fundo, grande coinvolgimento da parte del pubblico, stasera l’ottavo elemento della band. Ma soprattutto: molta molta umanità, sia sopra che sotto il palco. Ripeto: cosa molto rara e preziosa di questi tempi. Nella speranza che la prossima volta Jon sia uno di noi!