"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

6 nov 2025

VIAGGIO NEL METAL TOLKIENIANO - FELLOWSHIP_LA FORZA DELLA 'COMPAGNIA': QUANDO LA DIVERSITA' DIVENTA SALVEZZA

 



Viaggio nel metal 'tolkieniano' - 10) FELLOWSHIP - "The Skies Above Eternity" (2024)

A una quindicina di km a sud di Chieti, in contrada…ehm…Porcareccia (territorio comunale di Bucchianico) sorge La Contea Gentile, un progetto, ancora in progress, con il quale alcuni appassionati tolkieniani hanno voluto ricreare, nella rigogliosa campagna abruzzese, parte della Shire. E, in occasione di determinati eventi che lì si organizzano, ci si veste da hobbit e si ripropongono situazioni tipicamente ‘hobbitesche’.

Ecco, per quei raduni festosi, consigliamo ai simpatici amici abruzzesi di invitare a suonare i Fellowship perché, riteniamo, ci starebbero a pennello! Il five-piece dell’Essex, infatti, sulla loro pagina Bandcamp, descrive in questi termini la loro mission musicale: Il nostro obiettivo è fare del power metal classico e chitarristico in un modo che non ci renda troppo cringe (sic! N.d.R.). Inoltre, ci vestiamo come hobbit, quindi non sta andando molto bene! Speriamo che la musica compensi i costumi un po' ridicoli.

Effettivamente, è vero: i Fellowship si vestono come hobbit (lo potete vedere nella foto in alto) oltre ad adottare un immaginario tolkieniano, nella musica come nel monicker.

Se questi giovani ragazzi dimostrano, quindi, di non prendersi troppo sul serio, sul serio prendono, invece, la loro carriera, visto che è tra le band contemporanee che più hanno dato una ventata d’aria fresca al panorama symphonic-power. Dopo un EP autoprodotto, su di loro hanno messo occhi e mani i tipi della lombarda Scarlet Rec. e, da quel momento, la loro crescita è stata esponenziale: prima l’ottimo full lenght di debutto, “The Saberlight Chronicles” (album trascinato dal singolo-tormentone “Until the Fires Die”, 5’ di bignami su “Come scrivere una canzone power perfetta”) e, dopo due anni, il qui trattato “The Skies Above Eternity” dove i Nostri si confermano come una realtà ormai consolidata e capace, potenzialmente, di ereditare lo scettro delle più importanti band storiche del genere. Si, perchè i Fellowship richiamano alla mente il fior fiore dell’heavy/power sinfonico europeo: dai connazionali DragonForce ai tedeschi Freedom Call, passando per la Scandinavia (Twilight Force, Majestica) per arrivare ai nostrani Rhapsody of Fire. Fulcro della proposta degli inglesi è sicuramente la cristallina voce del baritono Matthew Corry e il drumming, vario e cavalcante, di Callum Tuffen. L’accoppiata iniziale, “Hold Up Your Hearts (Again)” – “Victim”, è il perfetto ABC di come dovrebbe suonare il power metal della terza decade del Terzo Millennio: chiaro, fruibile, tecnico ma non cervellotico, con assoli ispirati e melodici. Con una vena epico-malinconica tale da spingerti a desiderare di impugnare uno spadone, cavalcare un bianco cavallo e gettarti temerariamente contro un’orda di orchi di Mordor!

Lo diciamo subito: i Fellowship, nonostante il monicker (Compagnia) e l’abbigliamento, non trattano direttamente nei loro testi tematiche tolkieniane perché preferiscono rifarsi a un generico mondo fantasy e/o ad inni auto-motivazionali. Ma allora perché inserirli nella nostra Rassegna? Il motivo, da un punto di vista musicale, è presto detto: la proposta della band inglese potrebbe essere (anzi, per chi scrive, è!) la perfetta colonna sonora del Legendarium; quella che qualsiasi appassionato del professore vorrebbe/si aspetterebbe di ascoltare (quantomeno in ambito metal) a corredo di una lettura delle sue opere.

Ma, soprattutto, perché la fellowship è uno degli “espedienti narrativi” più importanti cui Tolkien si è affidato per veicolare determinati principi della sua poetica (e anche uno ai quali il lettore è maggiormente affezionato). Essa, costituitasi a Gran Burrone grazie alla lungimirante saggezza di Re Elrond, è costituita da tutte le razze libere della Terra-di-Mezzo: uomini (Aragorn e Boromir), Nani (Gimli), Elfi (Legolas) e, ovviamente, hobbit (Frodo, Sam, Pippin e Merry). Con la fondamentale supervisione di un Istar, messo di Eru Ilúvatar: Gandalf. Nove soggetti che fanno da contraltare ai nove Nazgûl, gli Spettri dell’Anello. Nove personaggi tanto diversi, e a volte conflittuali tra loro, quanto complementari. Una sorta di unità nella diversità che è, al contempo, comunità basata sulla fiducia e un segno di resistenza collettiva contro il malvagio disegno di dominio totalizzante di Sauron.

Come sempre in Tolkien, ogni elemento narrativo può essere letto su diversi livelli. E la Compagnia non fa differenza.

Intanto, essa è in primis un’allegoria, come su accennato, della capacità degli uomini, pur con i loro limiti e divergenze, di unirsi per raggiungere un bene superiore. E, questo bene non lo si raggiunge tramite l’azione di un singolo ma con il contributo di un gruppo capace di compiere sacrifici, cioè ‘rendere sacri’ i propri atti verso i compagni.

Ma la Compagnia è, al tempo stesso (e siamo già a un terzo livello di significato), un richiamo a quei pellegrinaggi, tipici del Medioevo, nei quali il viaggio è, fondamentalmente, ‘interiore’, nei quali si ricerca una chiarezza morale che è, al contempo, individuale e collettiva. Una significanza cui Tolkien era molto legato per la devastante esperienza avuta durante la Prima Guerra Mondiale.

Il Professore, lo abbiamo già fatto presente in altri post di questa rassegna, era fortemente critico verso il culto della “bella morte”, verso una certa mistica della ‘gloria marziale’ che vedeva, nel gesto sprezzante del pericolo da parte del singolo (spesso, appunto, un Re o un nobile condottiero a capo di armate), l’atto catartico attraverso cui ricoprirsi di gloria. Una tipologia di eroismo tipico della tradizione letteraria norrena.

Tolkien rifuggiva e metteva in guardia da questo atteggiamento per due motivi: innanzitutto perché, materialmente, questi atti nascondevano la tentazione di re e condottieri di anteporre se stessi, il proprio ego, alla tutela degli altri, dei loro sottoposti, di coloro verso i quali avevano un’enorme responsabilità; e, secondariamente, perché questa sorta di eroismo sottintendeva la ricerca gloriosa della morte tale da poter essere eternata, in futuro, sia dal proprio popolo che, soprattutto, da poeti e menestrelli, a imperitura gloria del proprio nome. JRR pone invece l’accento sul coraggio inteso come ‘responsabilità’, come protezione verso ciò che ci è caro. Un ‘senso del dovere’ ragionato e, soprattutto, radicato in un sentimento di lealtà e compassione che i piccoli hobbit incarnano perfettamente, tanto da diventare il pilastro della fellowship.

La Compagnia, quindi, simbolo di solidarietà tra diversi, può essere intesa come un microcosmo che ci lascia uno dei messaggi più profondi e attuali di Tolkien: non solo la comunità, umile e solidale, è l’unica salvezza possibile per l’Umanità che affronta le manifestazioni del Male; ma chi ‘parte da casa’, chi viaggia entrando in contatto con altri popoli, e fa esperienza di e con essi nel confronto e nel rispetto delle diversità, raggiunge un vero cambiamento interiore, una vera maturazione personale. E non è un caso che saranno i quattro hobbit partiti dalla Contea che, tornandovi, la salveranno dai guai in cui si erano auto-impelagati i compaesani rimasti ad Hobbiton e la cui ottusità e ristrettezza di vedute aveva consentito a Saruman di crearvi una sorta di dittatura commerciale.

La speranza, che la Compagnia dell’Anello ben rappresenta per quanto sopra esposto, i nostri Fellowship la esprimono, prima dell’outro “Memories on the Wind”, nella conclusiva ”A New Hope”:

Have I ever been alone,
On a journey filled with ghosts
Of adventures and raconteurs who
Lend me hope?

[…]

The hope of a new day is dawning,
For now our fear is a thing of the past.
Collide every heart here with empathy;
Life may be fleeting, but memories last.

A cura di Morningrise

(vedi il resto della Rassegna)