Viaggio nel metal 'tolkieniano' - 10) FELLOWSHIP - "The Skies Above Eternity" (2024)
A una quindicina di km a sud di
Chieti, in contrada…ehm…Porcareccia (territorio comunale di Bucchianico)
sorge La Contea Gentile, un progetto, ancora in progress, con il
quale alcuni appassionati tolkieniani hanno voluto ricreare, nella rigogliosa
campagna abruzzese, parte della Shire. E, in occasione di determinati
eventi che lì si organizzano, ci si veste da hobbit e si ripropongono
situazioni tipicamente ‘hobbitesche’.
Ecco, per quei raduni festosi, consigliamo ai simpatici amici abruzzesi di invitare a suonare i Fellowship perché, riteniamo, ci starebbero a pennello! Il five-piece dell’Essex, infatti, sulla loro pagina Bandcamp, descrive in questi termini la loro mission musicale: Il nostro obiettivo è fare del power metal classico e chitarristico in un modo che non ci renda troppo cringe (sic! N.d.R.). Inoltre, ci vestiamo come hobbit, quindi non sta andando molto bene! Speriamo che la musica compensi i costumi un po' ridicoli.
Effettivamente, è vero: i
Fellowship si vestono come hobbit (lo potete vedere nella foto in alto) oltre ad adottare un immaginario tolkieniano,
nella musica come nel monicker.
Se questi giovani ragazzi
dimostrano, quindi, di non prendersi troppo sul serio, sul serio
prendono, invece, la loro carriera, visto che è tra le band contemporanee che
più hanno dato una ventata d’aria fresca al panorama symphonic-power. Dopo un
EP autoprodotto, su di loro hanno messo occhi e mani i tipi della
lombarda Scarlet Rec. e, da quel momento, la loro crescita è stata
esponenziale: prima l’ottimo full lenght di debutto, “The Saberlight
Chronicles” (album trascinato dal singolo-tormentone “Until the Fires Die”,
5’ di bignami su “Come scrivere una canzone power perfetta”) e, dopo due anni,
il qui trattato “The Skies Above Eternity” dove i Nostri si confermano
come una realtà ormai consolidata e capace, potenzialmente, di ereditare lo
scettro delle più importanti band storiche del genere. Si, perchè i Fellowship
richiamano alla mente il fior fiore dell’heavy/power sinfonico europeo:
dai connazionali DragonForce ai tedeschi Freedom Call, passando per la
Scandinavia (Twilight Force, Majestica) per arrivare ai nostrani Rhapsody of
Fire. Fulcro della proposta degli inglesi è sicuramente la cristallina voce del
baritono Matthew Corry e il drumming, vario e cavalcante, di Callum
Tuffen. L’accoppiata iniziale, “Hold Up Your Hearts (Again)” – “Victim”, è
il perfetto ABC di come dovrebbe suonare il power metal della terza
decade del Terzo Millennio: chiaro, fruibile, tecnico ma non cervellotico, con
assoli ispirati e melodici. Con una vena epico-malinconica tale da spingerti a desiderare
di impugnare uno spadone, cavalcare un bianco cavallo e gettarti temerariamente
contro un’orda di orchi di Mordor!
Lo diciamo subito: i Fellowship,
nonostante il monicker (Compagnia) e l’abbigliamento, non trattano
direttamente nei loro testi tematiche tolkieniane perché preferiscono rifarsi a
un generico mondo fantasy e/o ad inni auto-motivazionali. Ma allora perché
inserirli nella nostra Rassegna? Il motivo, da un punto di vista musicale, è
presto detto: la proposta della band inglese potrebbe essere (anzi, per chi
scrive, è!) la perfetta colonna sonora del Legendarium;
quella che qualsiasi appassionato del professore vorrebbe/si aspetterebbe di
ascoltare (quantomeno in ambito metal) a corredo di una lettura delle sue opere.
Ma, soprattutto, perché la fellowship
è uno degli “espedienti narrativi” più importanti cui Tolkien si è affidato per
veicolare determinati principi della sua poetica (e anche uno ai quali il
lettore è maggiormente affezionato). Essa, costituitasi a Gran Burrone grazie
alla lungimirante saggezza di Re Elrond, è costituita da tutte le razze libere
della Terra-di-Mezzo: uomini (Aragorn e Boromir), Nani (Gimli), Elfi (Legolas)
e, ovviamente, hobbit (Frodo, Sam, Pippin e Merry). Con la fondamentale
supervisione di un Istar, messo di Eru Ilúvatar: Gandalf. Nove soggetti
che fanno da contraltare ai nove Nazgûl, gli Spettri dell’Anello.
Nove personaggi tanto diversi, e a volte conflittuali tra loro, quanto
complementari. Una sorta di unità nella diversità che è, al
contempo, comunità basata sulla fiducia e un segno di resistenza
collettiva contro il malvagio disegno di dominio totalizzante di Sauron.
Come sempre in Tolkien, ogni
elemento narrativo può essere letto su diversi livelli. E la Compagnia
non fa differenza.
Intanto, essa è in primis
un’allegoria, come su accennato, della capacità degli uomini, pur con i loro
limiti e divergenze, di unirsi per raggiungere un bene superiore.
E, questo bene non lo si raggiunge tramite l’azione di un singolo ma con
il contributo di un gruppo capace di compiere sacrifici, cioè ‘rendere sacri’ i
propri atti verso i compagni.
Ma la Compagnia è, al tempo
stesso (e siamo già a un terzo livello di significato), un richiamo a quei
pellegrinaggi, tipici del Medioevo, nei quali il viaggio è, fondamentalmente,
‘interiore’, nei quali si ricerca una chiarezza morale che è, al contempo,
individuale e collettiva. Una significanza cui Tolkien era molto legato per la
devastante esperienza avuta durante la Prima Guerra Mondiale.
Il Professore, lo abbiamo già
fatto presente in altri post di questa rassegna, era fortemente critico verso
il culto della “bella morte”, verso una certa mistica della ‘gloria marziale’
che vedeva, nel gesto sprezzante del pericolo da parte del singolo (spesso,
appunto, un Re o un nobile condottiero a capo di armate), l’atto catartico
attraverso cui ricoprirsi di gloria. Una tipologia di eroismo tipico della tradizione letteraria norrena.
Tolkien rifuggiva e metteva in
guardia da questo atteggiamento per due motivi: innanzitutto perché,
materialmente, questi atti nascondevano la tentazione di re e condottieri di
anteporre se stessi, il proprio ego, alla tutela degli altri, dei loro
sottoposti, di coloro verso i quali avevano un’enorme responsabilità; e, secondariamente,
perché questa sorta di eroismo sottintendeva la ricerca gloriosa della morte
tale da poter essere eternata, in futuro, sia dal proprio popolo che,
soprattutto, da poeti e menestrelli, a imperitura gloria del proprio nome. JRR
pone invece l’accento sul coraggio inteso come ‘responsabilità’, come
protezione verso ciò che ci è caro. Un ‘senso del dovere’ ragionato e,
soprattutto, radicato in un sentimento di lealtà e compassione che i piccoli
hobbit incarnano perfettamente, tanto da diventare il pilastro della fellowship.
La Compagnia, quindi, simbolo di
solidarietà tra diversi, può essere intesa come un microcosmo che ci lascia
uno dei messaggi più profondi e attuali di Tolkien: non solo la comunità,
umile e solidale, è l’unica salvezza possibile per l’Umanità che
affronta le manifestazioni del Male; ma chi ‘parte da casa’, chi viaggia
entrando in contatto con altri popoli, e fa esperienza di e con
essi nel confronto e nel rispetto delle diversità, raggiunge un vero
cambiamento interiore, una vera maturazione personale. E non è un caso che
saranno i quattro hobbit partiti dalla Contea che, tornandovi, la salveranno
dai guai in cui si erano auto-impelagati i compaesani rimasti ad Hobbiton e la
cui ottusità e ristrettezza di vedute aveva consentito a Saruman di crearvi una
sorta di dittatura commerciale.
La speranza, che la Compagnia
dell’Anello ben rappresenta per quanto sopra esposto, i nostri Fellowship la esprimono, prima dell’outro “Memories on the Wind”, nella conclusiva ”A New Hope”:
Have I
ever been alone,
On a journey filled with ghosts
Of adventures and raconteurs who
Lend me hope?
[…]
The hope
of a new day is dawning,
For now our fear is a thing of the past.
Collide every heart here with empathy;
Life may be fleeting, but memories last.
(vedi il resto della Rassegna)

