"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

21 nov 2025

VIAGGIO NEL DUNGEON SYNTH: JÖTGRIMM




Come se niente fosse accaduto, Jötgrimm - "Gramessteig" (2015)  

Abbiamo introdotto ai nostri lettori il filone del winter synth parlando di Jääportit, uno che in un certo senso ha lanciato il sasso e poi ritirato la mano, visto che dopo il seminale esordio "Kauan Koskematon" del 1999 avrebbe progressivamente abbandonato i lidi del dungeon synth per abbracciare un sound più ricco e contaminato dalle istanze del post-rock. 

Sia quel che sia, con il tempo si sarebbe sviluppato un nuovo filone del dungeon synth tematicamente focalizzato sulla descrizione di mesti scenari invernali. Come successo per il dungeon synth, sarebbe nato un blog apposito (http://wintersynth.blogspot.com) auto-incaricatosi di definire e trattare questo sotto-genere musicale. E come per il dungeon synth, vi sarebbe stato un articolo introduttivo con tanto di definizione del genere (questo accadeva nel gennaio del 2013, poco meno di un anno dopo che la definizione di dungeon synth fosse stata ufficialmente coniata nel marzo del 2012). 

Tecnicamente parlando il winter synth, per aspetti stilistici oltre che tematici, sarebbe da trattare come un genere a parte, ci perdonino pertanto i puristi se qua e là includiamo nella nostra rassegna qualche artista dedito a questo specifico filone: riteniamo infatti che il parlare di winter synth possa fornire qualche variatio interessante all'interno del nostro discorso, altresì troppo monotematico, e che possa anche dare al lettore neofita una visione più ampia e completa del vasto universo sonoro del dungeon synth e delle sue derivazioni. Variatio per modo di dire, in quanto, a fini meramente descrittivi, parlare di un lavoro di winter synth è anche più difficile, in quanto in genere si parla di lavori ancora più minimali e (passatemi il termine) mono-colori rispetto a quelli comunemente classificati come dungeon synth. Ciò non toglie che sarebbe un peccato ignorare lavori come “Winterschwärze” (2014) e “Gramessteig” (2015) del progetto tedesco Jötgrimm: un nome che spesso (e a ragione) ricorre nelle classifiche dei migliori album di dungeon synth (ovviamente inteso nella sua accezione più ampia). 

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, nei primi anni dieci del nuovo millennio le sonorità dungeon synth si sono risvegliate da un lungo sonno. Abbiamo anche avuto modo di ricordare che, in molti casi, è stato come essere ripartiti da capo, ossia in modo solitario, con mezzi poveri e con la sola consapevolezza di scrivere e realizzare musica atmosferica. Certo, non potevano essere ignorati, anzi, erano sicuramente guardati con interesse, gli album di Burzum e di Mortiis, i quali, essendo nomi noti, avevano goduto di una maggiore esposizione rispetto ad altri pionieri del dungeon synth che invece sarebbero stati scoperti successivamente. In casi come Jötgrimm, viene il dubbio che si sia guardato ancora più indietro e ripartiti direttamente dalla cosmic music teutonica degli anni settanta, con giusto una infarinatura del Burzum ambient che non guasta mai. 

Se siete quelli a cui non piace il dungeon synth perché non sopportate le tastierine anni ottanta che riproducono il suono plasticoso di trombette e flautini, allora Jötgrimm potrebbe fare al caso vostro. Ma se schifate il dungeon synth perchè lo trovate monotono e noiso, allora fate bene ad interrompere qui la lettura ed andarvi a fare una passeggiata. 

Jötgrimm è atmosfera allo stato puro. Come nelle copertine dei suoi lavori, minimali, sfumate ed oscure, nella sua musica non accade molto e non si capisce bene cosa voglia rappresentare se non si mettono bene a fuoco i contenuti. Musica, questa, che non ama andar di fretta e che viene realizzata attraverso un modus operandi che procede per riduzione di elementi con esiti che rasentano la sessione di ipnosi. 

Non musica per tutti e per tutti i momenti, dunque, ma altamente suggestiva e professionalmente confezionata, tanto che, se non vi fosse un generale alone oscuro e non ci fossero dei momenti in cui l’estro di Burzum viene esplicitamente richiamato, i lavori vergati Jötgrimm potrebbero essere tranquillamente classificati come dark ambient

Winterschwärze” (dal titolo emblematico – in tedesco “Oscurità invernale”) si apre e si chiude con il sibilare del vento e due imponenti suite di dodici minuti ciascuna, ma dell’intera opera (cinque tracce per una durata complessiva di 47 minuti) vi ricorderete solamente la quarta “Lodernd, Der Sternenäther” e il suo giro di note. Il resto è una fluida alternanza fra sinistri tappeti di tastiere e momenti di pura rarefazione sonora, passaggi che richiamano alla mente i Tangerine Dream più astratti. Le note si ripetono molte volte supportate da echi ed effetti ambientali: non l’ideale per caricarsi prima di una finale di Champions League, ma decisamente una bella botta di atmosfera per quelli che amano incuffiarsi nell’oscurità e cagarsi addosso nel proprio materasso. 

Il Nostro (tale K.F. ma nient’altro si può sapere sul suo conto) farà decisamente meglio con l’opera seconda “Gramessteig”. Si maniente sul format dei cinque brani, ma decide saggiamente di asciugare il tutto in 38 minuti, evitando qualche piccolo problema di dispersione che ancora aveva afflitto il pur buono predecessore. In questo secondo tomo la visione artistica viene messa ulteriormente a fuoco, la mano che muove queste oscure sinfonie sembra più ferma e sicura nei suoi movimenti. La prima traccia, “Abkehr”, è un riuscito connubio fra gelide litanie burzumiane ed eteree partiture post-rock che, in un lento processo ascensoniale, non sfigurerebbero in un album dei Sigur Ros, altri esperti di atmosfere glaciali. Chiariamoci: utilizzo il termine post-rock in una accezione ampia, ma non mi si fraintenda, il linguaggio parlato è quello rigoroso dell'ambient, con movimenti di tastiera a dominare su tutto il resto e scricchiolii, fruscii e vento a fare da macabro contorno, con chiari rimandi all’universo tetro di dungeon & winter synth tramite la reiterazione ossessiva delle note ad occupare uno spazio di centralità assoluta nella scrittura. 

I cinque brani confluiscono gli uni negli altri e ci si rende conto che si è giunti al brano successivo quasi con un minuto di ritardo, quando il tema portante emerge ad affermare l’identità dello specifico movimento. E’ il caso di “Wipfeltore” che si contraddistingue per il classico balletto di note in delay (quasi uno sgocciolar di acqua piovana) che identifica il Burzum ambient da “Tohmet” in avanti. Il terzo brano, “Fürderhin In Vergessenheit”, si emancipa dal verbo burzumiano per scollinare sul versante dark-ambient tout court con distese e maestose melodie che richiamano le sinfonie orrorifiche del progetto svedese Raison d'être, punta di diamante dell'etichetta Cold Meat Industry

Continua la staffetta che vede l’alternarsi di passaggi minimali ad altri più facilmente memorizzabili, e dunque “Der Auren Anmut”, dall’alto dei suoi dieci minuti, si muove sinuosa ricalcando geometrie dal sapore kraut-rock: non una vera e propria cavalcata spaziale, sia chiaro, ma glaciali intrecci di note che sembrano voler mimare il lento scioglimento di un ghiacciaio. “Einkörperung” smorza nuovamente i toni con narcotici movimenti di tastiere e umori mistici che, in questo frangente, giungono al loro acme al termine di un’opera che, al prezzo di qualche lungaggine di troppo, ha saputo coniugare alla perfezione paesaggi esteriori ed interiorità, stati d'animo ed ambientazioni notturne, moti di spirito e il gelo di un desolato scenario invernale. 

Le sobrie copertine fatte di contrasti fra bianco e nero, l’approccio minimale, la comune origine teutonica, il mistero che avvolge entrambi i progetti, mi porta a gemellare i Jötgrimm con i già precedentemente trattati Til Det Bergens Skyggene, egualmente votati alla trascendenza. 

Sensazioni personali a parte, questi due progetti, così simili pur con delle differenze non da poco, vanno a raccontare alla perfezione la fase di rinascita che il dungeon synth ha vissuto agli inizi degli anni dieci. Una lenta rianimazione che avveniva sotto il segno della tradizione, da tutti i punti di vista, in primis per quanto riguarda le modalità di realizzazione e distribuzione: come l’esordio di Til Det Bergens Skyggene, anche i due lavori di Jötgrimm uscivano in cassetta in edizioni iper-limitate, perseverando su un attitudine crudamente spartana ed underground che era propria delle origini della storia del dungeon synth. Ma contrariamente a Til Det Bergens Skyggene, che è tornato di recente, il cammino dei Jötgrimm sembrerebbe essersi interrotto (salvo inaspettati colpi di scena) dopo la realizzazione di questi due lavori, esattamente come era accaduto a molti gloriosi progetti della vecchissima scuola. 

Sembra dunque di essere tornati alla seconda metà degli novanta. Il tutto ripartiva come se non fosse accaduto nulla, come se gli embrioni di queste sonorità riemergessero faticosamente da una spietata quanto casuale selezione darwiniana

 

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