Dopo aver trattato le storie di
ottimi gruppi troppo presto finiti nel dimenticatoio, come Ophthalamia e Promethean, Metal Mirror vuole con questo post chiudere una sorta di trittico
ideale, con un’altra band di buonissima qualità che ha in comune con le altre
due succitate non solo altrettanta sfortuna e scarso riscontro commerciale, ma
anche il fatto di essere stata messa coraggiosamente sotto contratto dalla
lungimirante etichetta lombarda Avantgarde
Music.
Parliamo dei finlandesi As
Divine Grace.
Siamo in quel particolare periodo
della storia del metal, la metà degli anni novanta, che MM ha più volte
sottolineato come critico, di sbandamento e indecisione per il Mondo Metal:
l’ondata black aveva già raggiunto il suo apice, il death di inizio decennio
pure e stava compiendo una decisa parabola discendente, e la domanda “What’s
next?” sorgeva spontanea nella mente degli affamati metallari (e a tal
proposito è istruttivo rileggere l’Anteprima della Rassegna sul “Nuovo Metal”
del nostro Mementomori).
Come è forse congenito alla
natura stessa della Musica, e come descritto mirabilmente in quell’Anteprima,
non si assistette a una vera e propria impasse:
la crisi portò da un lato a rifuggiarsi verso lidi conosciuti e sicuri, quasi come una sorta di reazione all’estremismo del decennio precedente (dal che
il grande revival dell’heavy
classico, con l’esplosione in particolar modo della scena power tedesca capitanata dal sublime Guardiano Cieco); e dall’altro
si cominciò a sperimentare, formando nuovi accrocchi musicali, alcuni dei quali
molto intelligenti e audaci.
E, tra le varie espressioni fuoriuscite da quella fucina di esperimenti, vi
fu tutta quella genie di gruppi che cominciarono a destrutturare e a
rimiscelare, con una particolare predilezione per sonorità gothic/dark su una base doom. Questo fu anche il filone nel quale si sdoganarono le donne come lead
singer grazie anche al dirompente ingresso sulla scena dell’incantevole e
sensazionale Anneke van Giesbergen e del suo esordio con i The Gathering del
1995, l’inarrivabile “Mandylion”.
Tornando ai protagonisti del
nostro post: era il 1997, anno in cui
ero totalmente assorbito dal c.d. Gothenburg
sound, che con grande nonchalance
mischiava incestuosamente le brutali partiture death con le melodiche influenze
maideniane (forse a tutt’oggi, per me, il sotto-genere più esaltante,
trascinante e...bello degli ultimi 20
anni metallici!), che proprio allora se ne veniva fuori con quelli che, a
posteriori, potremmo considerare gli ultimi suoi due veri capolavori, “The
Mind’s I” dei Dark Tranquillity e “Whoracle” degli In Flames.
Tra una lezione universitaria e
l’altra passavo le mie giornate a cantare a squarciagola nella mia cameretta
“Insanity’s crescendo” e “Jotun”, quando mi giunse tra le mani, non ricordo
come, il primo full-lenght degli As Divine Grace, “Lumo”, che fu una graditissima scoperta perché se erano già un po’ di anni che masticavo sonorità
gothic/dark, raramente mi era capitato di ascoltare una delicatezza così
profonda e leggiadra nel trattare la materia.
Così come il “nostro”
Timo Iivari, fondatore dei Promethean, anche gli ADG arrivano dalle lande
periferiche della grande Terra dei Laghi, e precisamente da Pori, cittadella
sul Golfo di Botnia, dirimpetto alla Svezia, famosa non di certo per la musica
Metal, ma all’uso perchè vi si svolge annualmente un rinomato festival di
musica afroamericana.
Le sonorità proposte dal five pieces erano quelle appannaggio delle
band leaders nel genere goth-doom, provenienti per lo più da Inghilterra e Olanda; ma anche
la Germania e la Scandinavia tutta stavano scrivendo pagine importanti in quel settore, e la Finlandia seppe dare un contributo importante al filone, distinguendosi
dai colleghi per aver saputo innestare, negli stilemi comuni ai più, anche quella
tipica sensibilità finlandese per atmosfere soffuse e “liquide”.
Un aggettivo
chiave quest’ultimo per leggere il
disco, visto che proprio il chitarrismo “liquido” è uno degli elementi
conduttori di tutto il sound degli ADG, concettualmente vicino a quello che
avevano fatto i loro conterranei Decoryah negli immediati anni precedenti, (“Fall-dark
Waters” venne rilasciato nel 1996).
Schiacciando play sul lettore cd
ci accoglie “Perpetual”, brano che si rivelerà tra i migliori del lotto e con
il quale facciamo la conoscenza di Hanna Kalske, ottima cantrice delle nenie melodiche
degli ADG. Da questa opener track, dallo
sfondo doom su cui agiscono sia ricami elettrici ed acustici di chitarra che
una tastiera sempre delicata e mai invadente, capiamo subito che i Nostri non hanno fretta e si muovono con
partiture ampie e dilatate, riuscendo a miscelare con intelligenza le
innegabili influenze sabbathiane con l’ambient, l’atmospheric e il goth rock di
classe. I suoi 7 minuti sono già un compendio di quello che ci attenderà successivamente.
Ad eccezione della strumentale
“Out of the azure”, i restanti titoli superano infatti sempre i 7 minuti (alla
fine avremo appena 8 pezzi per un’ora esatta di musica), toccando i 12 con la monumentale
“Gash”, un highlight del disco, con
un tema portante da brividi, tanti cambi di ritmo, pur mantenendo sempre un mood malinconico e depressivo, come si
confà al genere. A metà canzone, l’atmosfera si fa rarefatta, eterea ed entra
in gioco la voce filtrata del bassista della band, Jari Makiranta, che, seppur
si senta che non è propriamente un cantante, spezza decisamente con il filo conduttore creato dalla voce della
Kalske che, in composizioni del genere, lunghe e compassate, è sicuramente un
toccasana per le orecchie; accorgimento usato anche nell’ottima “Wave theory”,
dove gli inserti delle clean vocals
del bassista nella parte centrale del brano ne fanno salire considerevolmente la resa.
Nonostante il disco paghi una
produzione non eccelsa e, a tratti, una certa pesantezza dovuta a un’eccessiva
omogeneità dei brani, va riscontrato come la band in fase di scrittura provi a
variare e far brillare di luce propria ogni pezzo. E quindi, all’interno della
suddetta omogeneità, troviamo brani quasi interamente strumentali, dal forte
senso progressivo (“Grimstone”); altri, come ad esempio “In Low Spirit”, in cui protagoniste diventano le chitarre, alternandosi in continui inseguimenti e
intersecazioni con le tastiere di Jukka Sillanpaa; ed altri ancora (“Rosy
Tale”) in cui la band sperimenta robusti inserti ambient.
Proprio questa stratificazione di
suoni è una delle peculiarità della band, come si può riscontrare in più
occasioni: come detto nell’opener “Perpetual”, brano praticamente perfetto, ma anche nella complessa e
affascinante “The Bloomsearcher”, caratterizzata da una marcata intro
operistica, seguita da accordi di accompagnamento dilatatissimi sui cui agisce
il canto della chitarra solista. E
come se non bastasse ecco delicati arpeggi acustici, partiture di tastiera e
uno scoppio inaspettato di doppia cassa, ai limiti del death/doom. Un brano
davvero “a tutto tondo”!
Ma è innegabile che il fulcro del
disco rimanga sempre la Kalske, frontwoman
che non è riuscita a lasciare il segno delle sue colleghe che stavano
spopolando in quegli anni con i gruppi della stessa branca. Il suo timbro è
infatti particolare e comunque molto distante dalla profondità, ampiezza e
potenza di una Anneke van Gisbergen o di una Sharon den Adel, che proprio in
quell’anno saliva alla ribalta con i Within Temptation grazie all’ottimo debut
“Enter”; Hanna si avvicinava invece più ai sussurri di una Rosan van der Aa dei
compianti Orphanage, ma con una maggiore preparazione tecnica che le consente,
con immancabile leggiadria, di avventurarsi ripetutamente in emozionanti vocalizzi
da contralto di stampo operistico.
Purtroppo il successivo
“Supremature” del 1999, discreto ma meno ispirato ed emozionale, non mantenne
le premesse di “Lumo” e il destino della band fu quello dello scioglimento.